20/02/2014

Kurt Cobain

In occasione del 47esimo compleanno del leader dei Nirvana, vi riproponiamo un vecchio articolo firmato da Barbara Volpi

Quando il 24 settembre 1991 uscì Nevermind fu il big bang e il mondo dell’alternative rock non sarebbe più stato lo stesso. Anche il destino dei Nirvana sarebbe cambiato radicalmente, passando dallo stato di band di culto conosciuta da pochi seguaci a quello di gruppo rock più popolare del pianeta. In questo passaggio agli inizi degli anni 90 si sarebbe inscritta una modificazione genetica del mondo musicale, che avrebbe sancito l’uscita allo scoperto di gran parte della scena indie trainata dal botto di Nevermind, e il suo riassorbimento nel mercato mainstream. La firma di molti gruppi della scena underground per le multinazionali del disco, che interessò non solo lo Stato di Washington dove era stato generato il grunge, ma capillarmente tutto il territorio americano, avrebbe radicalmente cambiato il panorama degli anni a venire, spingendo i rigurgiti creativi ad essere rimetabolizzati dall’establishment. Kurt Cobain visse in prima persona tale trasformazione somatizzando sulla sua pelle, come una sorta di Cristo pagano, la passione di un’attitudine (quella punk-rock nuda e cruda) che vendeva la propria anima. Non ci sarebbe stata rinascita né redenzione per il messia dell’ultimo vero vagito musicale del millennio, ma piuttosto un colpo di fucile in faccia e una lettera d’addio, testimone ultima di quel conflitto incarnato e spinto all’estrema terminalità della morte. In alcuni suoi passaggi essa appare come l’ultimo atto d’amore nei confronti di una fede per la quale valeva la pena di sacrificarsi: “Sin dal mio primo incontro con il, diciamo così, sistema di valori relativo all’indipendenza e sin dall’ingresso nella vostra comunità si è visto che ero sincero… Mi sento colpevole in maniera indescrivibile… Il fatto è che non posso prendervi in giro. Nessuno di voi. Non è giusto per voi e per me”. Eppure dobbiamo ringraziare quell’outsider di Aberdeen che voleva essere il vate del punk-rock e invece divenne il re del mainstream.

Prima di Nevermind esistevano due mondi paralleli e poco comunicanti: quello del mainstream rock, con il suo circo fatto di grandi numeri, e quello del rock indipendente che, al di là delle diversità stilistiche, era accomunato da un verbo che predicava un’attitudine integra e onesta, legata a quell’etica del “do it yourself” che, con il punk prima e l’hardcore poi, aveva sovvertito il modo di fare e concepire la musica. Gli anni 80 videro, dentro alla pancia di un’America che non poteva accogliere i must edonistici del reaganismo, un proliferare di gruppi che fecero della sincerità artistica una religione. Pixies, Hüsker Dü, Black Flag, Violent Femmes, Replacements, Minutemen, Dead Kennedys, Fugazi, con il loro girovagare nomade per gli Stati Uniti in un furgone, in una sorta di riedizione dell’on the road kerouachiano, fecero proseliti tra un popolo giovanile che non poteva appagare il proprio bisogno di verità riconoscendosi in modelli quali Madonna o Michael Jackson. Tra i meandri più nascosti del ventre statunitense un’intera tribù stava per nascere, legata dalle valenze comunitarie che videro in Seattle il loro territorio d’elezione. Figli disagiati di famiglie disfatte e senza più punti di riferimento, eredi reietti del naufragio ideologico dei Sixties e del diniego anarchico dei tardi anni 70, i ragazzi che si sentivano “stupid and contagious” lessero in Smells Like Teen Spirit il loro mantra generazionale.
Se Nevermind poté deflagrare come una bomba atomica, fu perché i tempi erano maturi. La Generazione X era alla ricerca del proprio verbo e quella musica ruvida e nel contempo melodiosa, aspra e catartica, viscerale e pregna di poesia dava respiro ai sentimenti rimossi di un’intera generazione. Il lirismo ermetico e astratto di Cobain, poi, ispirato al cut-up di William Burroughs, abbracciava un vasto senso di universalismo che permetteva a tutti di identificarsi e riconoscersi nei testi. L’idioma che Nevermind esprimeva era la sintesi dei linguaggi musicali passati e, nel contempo, un deciso passo verso il futuro. Era, come scrisse Kurt nei suoi diari, “l’energia del punk con dei riff hard rock nell’ambito di una sensibilità pop”. Fu un cocktail esplosivo. L’esacerbazione grezza del punk dava sfogo alla rabbia, alla frustrazione e alla disperazione di una progenie che non vedeva contorni precisi nel futuro e soffriva un presente fatto di valori asfittici e posticci; la forza dell’hard rock, che si percepiva soprattutto nell’incedere ritmico delle chitarre, stemperava la secchezza con sonorità più pastose e dense di un forte bisogno di oblio e rinascita; l’appeal pop, definito sia dal rincorrersi della struttura strofa-ritornello-strofa, sia dalla voce vulnerabile e melodica di Kurt, garantiva una sorta di ecumenismo comprensibile ai più, che fu la base fondante del botto mediatico del disco. Ma ci fu un aspetto in più che Kurt non considerò nell’analizzare l’impatto dei Nirvana, e non lo considerò perché per farlo avrebbe dovuto estrapolarsi da se stesso: il segreto del successo dei Nirvana fu soprattutto Kurt Cobain. Fu il suo volto d’angelo biondo dalla chioma scompigliata a riflettere la perfetta immagine per i mass media. Furono il suo sorriso da bambino dolce e riottoso e il suo sguardo arguto e perso ad emanare il fascino che catturava le masse giovanili. E, ancora, fu il suo charme da disadattato e il suo incredibile talento a fare dei Nirvana la band simbolo degli anni 90. Kurt Cobain possedeva l’animo sensibilissimo dell’artista puro e la forza semiotica dell’icona mediatica e, in questo, egli divenne la metafora vivente dei suoi tempi. Nevermind, sotto questa chiave di lettura, fu l’emblema della pop art musicale del decennio che era appena iniziato.
“Ripensando a Nevermind oggi mi sento un po’ in imbarazzo perché è più vicino a un disco dei Mötley Crüe che a uno di punk-rock” sentenziava Cobain quando già era diventato una rockstar. Le belle rifiniture, le levigature pulite che Andy Wallace volle nel disco, trasformarono la semantica del punk-rock in un evento di massa e in ciò Kurt ebbe la sua parte di responsabilità. I suoi diari sono colmi di testimonianze circa questa sua abissale dicotomia: voleva essere un adepto del punk-rock ma voleva anche sfondare; desiderava fare un disco integralista ma poi cedette alle promesse di un sound più orecchiabile e commerciabile. Parlando con Keith Cameron per un numero di Sounds prima del successo di Nevermind, Kurt ammise sarcasticamente: “Non desidero nessun altro tipo di lavoro, non riesco a lavorare tra la gente… Per tutta la vita ho sognato di diventare una grande rockstar, per quanto si possa esagerare nel pensarlo”. E poi aggiunse che il gruppo stava esplorando uno stile di scrittura più pop: “Pensavamo di poter arrivare alla radio e tentare di farci un po’ di soldi”. L’agente pubblicitario inglese dei Nirvana, Anton Brookes, ricorda che Kurt era molto sicuro che avrebbe realizzato il suo sogno.

Fino alle prime sessioni per Nevermind nel 1990 Chad Channing era ancora il batterista del gruppo, ma le incomprensioni tra lui e Cobain (“divergenze artistiche” secondo Chad; “incompetenza” secondo la versione di Kurt) stavano crescendo. Cobain voleva che Chad picchiasse più duro sulla batteria e Chad non ci riusciva. Dopo aver messo su nastro otto pezzi, la band tornò a suonare dal vivo fino alla metà di maggio e a giugno Channing se n’era andato. Così i Nirvana si trovarono a prendere a prestito Dan Peters dai Mudhoney per una session con Jack Endino da cui sarebbe scaturito un unico brano. Poi ingaggiarono Dale Crover dei Melvins per una settimana di concerti come supporter dei Sonic Youth. Infine, su consiglio di Buzz Osborne, arruolarono il talentuoso Dave Grohl degli Scream, un misconosciuto gruppo hardcore. Durante la pausa estiva i nastri con le session furono inviati a quante più major possibile, ma in cuor suo Cobain covava già un’idea precisa sul da farsi.
A prova di ciò, durante i primi mesi del 1991 la band aveva già preso contatti con John Silva della Gold Mountain Management, che gestiva artisti mainstream come Bonnie Raitt e Belinda Carlisle, ma che aveva avuto anche i Sonic Youth. Silva teneva in grande considerazione il parere di Thurston Moore, che in passato gli aveva consigliato vivamente ma invano di arruolare i Dinosaur Jr., e non aveva intenzione di commettere ancora lo stesso errore. Ma anche Cobain teneva in grande considerazione il parere di Moore e della moglie Kim Gordon, e quando quest’ultima consigliò ai Nirvana di firmare per la Geffen essi, malgrado l’allettante offerta di molte altre multinazionali, seguirono il suo consiglio. Era il 30 aprile 1991. La major in questione non stava offrendo più denaro, ma garantiva un buon lavoro affinché il gruppo sfondasse, come era già accaduto per l’album dei Sonic Youth Goo che aveva venduto più di 250mila copie. Inoltre essa possedeva un direttore della promozione e uno del marketing che erano avvezzi al mondo indie. Il contratto venne firmato dal direttore artistico dei Sonic Youth Gary Gersh, che pensava che i Nirvana possedessero l’energia incendiaria e primordiale degli Who. “Volevamo arrivare ai livelli dei Sonic Youth, di gente cioè che rispettavamo come musicisti e come persone. Ci aspettavamo di vendere sulle 200mila copie, tutto lì” avrebbe dichiarato in seguito Cobain. Invece le 50mila copie della prima tiratura andarono esaurite in poche settimane. Se la Geffen si fosse preparata a dovere stampando più copie, il disco sarebbe salito al numero uno negli Stati Uniti molto prima di quanto realmente fece. Infatti, quando la seconda tiratura arrivò nei negozi, le vendite toccarono i tre milioni di copie in soli quattro mesi. Comunque dalla Geffen la band prese un anticipo di 287mila dollari, che venne rapidamente decimato da tasse, parcelle legali, quote per spese di gestione e debiti. Il non aver optato per una grossa cifra in cambio di un contratto solido, comprensivo dei pieni diritti nel caso il disco avesse avuto successo, fu una precisa scelta del gruppo che lo avrebbe ripagato in futuro. Visti i numeri che fece Nevermind, avere una grande percentuale sul copyright si sarebbe rivelata una mossa assolutamente azzeccata. Liquidata la Sub Pop con una buonuscita di 75mila dollari (metà dei quali provenivano dal famoso anticipo), una percentuale del 2% sulle vendite dei successivi due dischi (che avrebbe sostenuto l’etichetta nei difficili anni a venire), più la stampa del logo della label sul retro della copertina di Nevermind, i Nirvana erano pronti per dedicarsi completamente all’album. Costato appena 135mila dollari (compreso lo studio, il mastering e il compenso del produttore Butch Vig, che rinegozierà l’accordo), l’album avrebbe cambiato per sempre il destino di tutti quelli che con esso ebbero a che fare e, anche, la geografia sonora degli anni 90.
La Geffen spingeva per produttori come Scott Litt (R.E.M.), Don Dixon o David Briggs (Neil Young), ma la band insistette per collaborare con Vig, molto stimato da Poneman della Sub Pop e in tutta la scena indipendente. Aveva anche lavorato con i Tad, grandi amici dei Nirvana. Poneman contattò Vig il quale accettò di lavorare in studio con i Nirvana nella settimana di pausa fra una data e l’altra della loro tournée. “Accettai subito” avrebbe affermato in seguito Butch, poi fondatore e batterista dei Garbage “perché ritenevo la Sub Pop un’etichetta figa. Al primo ascolto non è che Bleach mi avesse fatto impazzire, ma About A Girl mi aveva impressionato perché conteneva un elemento pop che pareva scritto da John Lennon. Il buffo è che avevo sentito Poneman che diceva che avrei dovuto vederla dal vivo quella band, che a Seattle aveva suscitato una sorta di beatlemania, che sarebbe diventata famosa come i Beatles. E io tra me pensavo: sì, sì, certo…”. Comunque con la Geffen si arrivò a un compromesso: Dixon sarebbe stato il produttore e Vig il fonico, ma il caso volle che Don fosse già impegnato, così che l’intero progetto finì nelle mani di Butch.
Cobain aveva già scritto alcuni pezzi, anche se non in numero sufficiente per l’intero disco. Aveva pure pensato al titolo dell’album: Sheep.

Le sessioni di registrazione si svolsero nel maggio e nel giugno 1991 ai Sound City Studios nella periferia di Van Nuys, in California, gli stessi dove i Fleetwood Mac avevano registrato Rumours e dove avevano lavorato anche altre star come Tom Petty, i Foreigner, i Jackson 5 e l’eroe d’infanzia di Kurt, Evel Knievel. C’era anche una grande stanza per la batteria, un antiquato mixer Neve e i costi dello studio erano irrisori per una multinazionale. In realtà, come detto precedentemente, alcuni brani erano già stati abbozzati. In Bloom, per esempio, venne coniato in una pausa del tour durante la primavera del 1990, come testimonia Novoselic: “C’era tantissimo materiale che attendeva di essere completato, così due giorni prima di iniziare la session ci siamo messi a provare tutti i giorni perché occorreva dare forma ai pezzi. La prima volta che abbiamo suonato In Bloom era diversa da ora. Suonava come un pezzo dei Bad Brains”. Malgrado l’approccio ancora nettamente punk-rock, in ogni caso il brano annunciava già una svolta verso brani più strutturati in senso pop, che si basavano sull’uso del pedale fuzz e sulle grida di Kurt. Fu questa commistione a convincere Butch Vig, che li avrebbe invitati agli Smart Studios della sua città, Madison nel Wisconsin. Lì, con Steve Maker, fin dagli inizi degli anni 80 aveva iniziato a sperimentare nuovi suoni, anche se la sua fama si sarebbe formata in seguito alla sua collaborazione con prestigiose etichette indie come la Touch & Go e la Twin Tone. La sua intenzione era di catturare su disco l’energia indomita e selvaggia delle performance del gruppo dal vivo. A tale scopo provò a coprire il pavimento dello studio con fogli di compensato per rendere la stanza più “attiva”. Tutto procedette senza intoppi, le session furono semplici e con poche sovraincisioni. Il gruppo utilizzò solo le proprie apparecchiature con l’eccezione di un Fender Bassman (che Vig consigliò per Lithium e In Bloom) e di un rullante della batteria usato dagli Smashing Pumpkins per Gish (prodotto da Butch). L’atmosfera era rilassata, anche se Kurt era irritato per l’incompletezza di alcuni brani e spesso si appartava per scrivere febbrilmente su un taccuino. Novoselic e Vig, invece, scherzavano in continuazione.
Il progetto iniziale del gruppo era di registrare l’intero materiale per il disco durante quella settimana, ma presto ci si rese conto che il piano era irrealizzabile. Cobain aveva problemi di voce che lo spingevano a prendersi spesso delle pause e molte volte si sedeva alla batteria a mostrare a Channing come doveva suonare. Cinque canzoni concepite in questo periodo finirono su Nevermind, ma solo Polly sarebbe stata tratta direttamente dalle session. Altre sessioni vennero registrate ai Reciprocal Studios di Seattle con Jack Endino (ma Sliver, frutto di quelle sedute, sarebbe finito su un 45 giri), altre in disparati studi sempre a Seattle con l’aiuto di Craig Montgomery (alcuni brani confluirono in Hormoaning), altre ancora a Tacoma, ma furono quelle ai Sound City Studios con Butch Vig a costruire il corpo finale di Nevermind.
Inizialmente fu stanziato un budget di 65mila dollari, il che permetteva alla Geffen di arrischiarsi con una nuova band che rischiava di dover rifare tutto più volte. Anche se Cobain venne accreditato autore di tutti i brani dell’album tranne Smells Like Teen Spirit, disse: “Krist e Dave hanno un ruolo importante nel decidere quanto deve essere lungo un pezzo. Per questo non voglio essere considerato l’unico compositore, ma quello che arriva con l’idea di base. Tiro fuori l’idea per le parti cantate durante le prove e il testo di solito lo butto giù poco prima di registrare”. Forse per questo le sue liriche non furono mai troppo meditate, ma piuttosto composte come degli acquerelli impressionisti. Una tipica giornata iniziava alle 3 del pomeriggio e terminava verso mezzanotte. Poi i tre andavano sulla spiaggia di Venice (quella di Jim Morrison, per intenderci) o in qualche locale dove rimanevano fino all’alba, prima di dormire per qualche ora. Una notte Krist fu arrestato per guida in stato di ubriachezza e ci vollero i soldi della casa discografica per farlo uscire dalla cella. Kurt in quel periodo era eccezionalmente di buon umore e attribuiva tale fatto anomalo al clima assolato di Los Angeles che fungeva da propulsore positivo nei confronti del suo mood instabile (il titolo di Lithium venne ispirato proprio dal litio, un sale modulatore dell’umore). Vig aveva il pregio di saper mettere la band a proprio agio e ciò influiva positivamente sull’urtabile sensibilità del cantante, fatto non trascurabile se si pensa che lavoravano dalle otto alle dieci ore al giorno.
La prima traccia affrontata fu Smells Like Teen Spirit, che uscì subito bene con l’aggiunta a posteriori di tre parti vocali, ma che avrebbe decretato il fatto che il nuovo disco sarebbe stato ben diverso da Bleach. “In Bleach tutto era diretto e semplice, ma anche un po’ noioso, così abbiamo optato per un cambiamento drastico” avrebbe detto Cobain. “Questa volta è tutto più a fuoco, sia gli elementi morbidi e carini che quelli duri e aggressivi”. Durante le pause si ricaricavano nutrendosi di quelle che ritenevano essere prelibatezze musicali: Alice Cooper, Black Sabbath, Aerosmith. Per Kurt, già in crisi d’astinenza da eroina, la dieta comprendeva anche alcol, sigarette e sciroppo per la tosse alla codeina, il che contribuiva al magnifico tono gutturale della voce. Dave picchiava così violentemente sulla batteria che dovevano cambiare le pelli a ogni canzone. L’etica punk di Kurt era addirittura superiore a quella di Vig, cosicché spesso egli si rifiutava di fare una seconda prova costringendo il produttore a cogliere ogni attimo di impegno del cantante (anche i riscaldamenti vocali), in caso si potesse carpire dell’altro materiale utilizzabile. Dal canto suo Cobain gestiva così bene la sua vocalità che da una registrazione all’altra il fraseggio e l’intensità delle parti vocali variavano minimamente; Vig sfruttava questo risultato e mixava insieme le due registrazioni, specialmente nei ritornelli, per ottenere un effetto di stratificazione sonora. In ciò veniva coadiuvato anche da Dave che, pur non essendo un provetto cantante, si impegnava parecchio (e i risultati si sarebbero visti poi nei suoi Foo Fighters).
Se le prove strumentali non riuscivano immediatamente, procedevano con altre cose. Spesso il problema era la bassa potenza del suono. Testimonia Vig: “Volevo che Cobain doppiasse la chitarra in certi pezzi ma lui si rifiutava categoricamente. La mia logica era quella di catturare la loro incredibile e intensa energia dal vivo e trasporla su disco. Spesso però lui era dubbioso del risultato. Devo ammettere che comunque alla fine cedeva e collaborava. Non c’erano discussioni, soltanto non bisognava forzarlo troppo, altrimenti scattava il meccanismo dell’opporre resistenza, e a quel punto non c’era più nulla da fare. Allora dovevo trasformarmi in uno psicologo e dirgli che anche Lennon spesso usava certi trucchi (ad esempio la sovraincisione delle parti vocali), il che funzionava sempre. Lennon era la parola magica perché Kurt era un grande estimatore dei Beatles e di John in particolare. La cosa più difficile era motivare Kurt a oltrepassare i propri limiti. Era un tipo volubile e difficile da interpretare. Poteva facilmente passare da stati di euforia ad altri di autismo totale, al che si dovevano interrompere le sessioni per la sua incomunicabilità assoluta. Amava biascicare le parole, e sovente dovevo impegnarmi per capire cosa stesse dicendo, ma ciò lo rendeva unico e affascinante. Era la sua magia”.
Poche settimane prima di iniziare a registrare Kurt fece ascoltare agli altri un riff sul quale improvvisarono suonando con dinamismo fino a partorire Smells Like Teen Spirit (vedi box a pagina 31). I più colsero una similitudine con More Than A Feeling dei Boston, nessuno tuttavia riuscì a comprenderne a pieno il potenziale sovversivo che avrebbe cambiato il gusto di una generazione. La forza persuasiva di In Bloom, invece, venne subito capita e solo il suono sovraccarico della batteria venne semplificato. Il brano era rivolto a chi si faceva cultore della musica underground senza carpirne l’attitudine e mai un testo si sarebbe rivelato più profetico. Breed (il cui titolo originale era Imodium, un farmaco contro la dissenteria che Kurt aveva visto usare da Tad Doyle) era uno dei pezzi che, insieme a Lithium, Dive, In Bloom, Pay To Play (che sarebbe diventata Stay Away), Sappy e Polly, vennero registrati a Madison nel 1990. Venne concepita con un’etica totalmente punk, per alcuni aspetti simile a quella dei Ramones, con l’amplificatore a palla per accentuare le distorsioni del basso. Polly si giostrava sulle dicotomie vittima-carnefice, maschile-femminile, bene-male e sulle mutazioni di vedute necessarie per interpretare la realtà. Era un brano sullo stupro visto dalla parte del violentatore (basato su un fatto realmente accaduto a Tacoma nel 1987) e perciò suonava intimo e quasi confessionale; infatti venne registrato a tarda notte, nella sospensione silenziosa di pensieri e umori, in modo molto rudimentale, chitarra e voce. Fu uno dei pochi brani a non essere in seguito ritoccato su volere della Geffen, perché proprio la sua scarna essenzialità era di una forza devastante. Something In The Way ebbe invece un parto travagliato poiché Kurt non riusciva a coglierne il senso nell’ensemble collettivo. Allora Vig gli disse di impostarla seguendo esclusivamente il suo estro. Così Cobain si sedette sul divano della sala di registrazione con la sua chitarra acustica dalle corde di nylon, i capelli biondi scompigliati sul volto e iniziò a sussurrarla con un bisbiglio appena percettibile. Vig seppe cogliere l’incanto di quell’attimo e registrò la canzone in quel modo, con i livelli al massimo per immortalare lo sbattere leggero della lingua sul palato, condensando in suono la quintessenza della purezza emotiva.
Oltre all’innovazione stilistica che mescolava punk, hard rock, pop e melodia in una commistione che non si era mai ascoltata prima, Nevermind ebbe una caratteristica in seguito copiata da molti: la criptica e misteriosa ghost track che venne inserita a circa nove minuti dall’ultimo brano. Essa uscì casualmente come uno sfogo rabbioso alla fine di alcune prove sfibranti e frustranti per Lithium, in cui Kurt distrusse una chitarra (abitudine che già perpetrava durante i live act). Per un errore tecnico, però, Endless, Nameless non fece parte della prima stampa dell’album.
Secondo Cobain Nevermind avrebbe dovuto contenere altri pezzi melodici, ma il direttore artistico Gary Gersh si oppose perché sarebbe parsa una concessione troppo evidente alla commercialità. Questo episodio la dice lunga sull’aria che si respirava in quel periodo: una buona operazione di marketing consisteva nel non apparire troppo commerciali per poi, in realtà, esserlo. Il boom del disco non fece altro che confermare tale linea. Per la verità la confezione vera dell’album avvenne durante il missaggio, di cui fu incaricato Andy Wallace (a causa della stanchezza di Vig), che levigò il prodotto fino a renderlo artefatto. I Nirvana, seppure a malincuore, dovettero stare al gioco, pena il ritorno all’anonimato e nel trovarsi a sbrogliare complesse matasse legali. Così espressero il loro malcontento: “Wallace addolcì il suono, filtrò i pezzi attraverso vari passaggi con effetti speciali, rese il sound della batteria più digitale, ogni cosa divenne costruita e l’effetto finale fu quello di una pietra scolpita”. Comunque con il tempo parvero cambiare idea: “Abbiamo cercato di trovare un equilibrio tra l’essere commerciali e il trovare una sonorità alternativa. Ad ogni modo abbiamo venduto otto milioni di copie e ora ci possiamo permettere di fare ciò che vogliamo. Possiamo divenire il veicolo per promuovere la musica che ci piace e altre band meno popolari”.

Gran parte del successo iniziale di Nevermind fu dovuto alla programmazione da parte di MTV dell’azzeccatissimo video del singolo Smells Like Teen Spirit, dalla grande forza propulsiva. Chi lo vedeva rimaneva così folgorato da quell’energia indomita e accattivante da andare ad acquistare subito l’album. Nel gennaio 1992 un così travolgente successo popolare fece sì che Nevermind scalzasse dal primo posto delle chart americane Dangerous di Michael Jackson, e questo fu l’emblema del momento epocale che sancì, a livello attitudinale, il passaggio dagli anni 80 ai 90. Grohl spiegava così il suo stupore: “Passai in un attimo da un impiego alla Tower Records a trovarmi sistemato per il resto della vita. Uscii subito a comprare una pistola giocattolo e un Nintendo, le cose che desideravo da ragazzo”. E Cobain stupefatto dichiarava nel 1992: “Ci ho ragionato su ma non sono arrivato a qualche conclusione logica. Posso dire che è migliore di tanta merda commerciale infilata a forza in gola alla gente… Comunque mi sorprendo perché nell’ambiente underground ci sono molti gruppi migliori di noi che non ricevono attenzione”. Nel tempo l’album sarebbe riuscito a superare 12 milioni di copie vendute. Simultaneamente le riviste specializzate di tutto il pianeta si sprecavano in complimenti e davano al disco quasi il massimo dei voti. “Ecco qui il primo gruppo davvero ispirato degli anni 90” scriveva Vox. “Nevermind è per i Nirvana uno snodo cruciale. Ruvidi guerrieri della terra del garage pronti a esplorare la terra dei giganti” faceva eco Rolling Stone. “I tre hanno creato il disco che la loro vecchia etichetta, la Sub Pop, avrebbe sempre desiderato avere in catalogo” riportava Q. Per Melody Maker invece “i Nirvana si staccano dal circuito sotterraneo senza disconnettersi dalla propria individualità”. E Select: “Questo secondo album mantiene tutte le promesse dell’opera prima”.
Quando l’album si diffuse come una febbre collettiva (video in rotazione tutto il giorno, passaggi in tutte le emittenti radiofoniche, inviti a vari show televisivi, tour americani ed europei, vendite da capogiro, culto della band, boom del fenomeno grunge), la compulsione massmediatica divenne sempre più virulenta e le major sguinzagliarono i loro scagnozzi in quel di Seattle alla disperata ricerca della prossima gallina dalle uova d’oro. Tantissime band anche mediocri che fino ad allora si erano mosse nell’ombra, si trovarono all’improvviso con contratti da capogiro da parte delle major, e così pure il personale delle etichette indipendenti. Qualsiasi ragazzotto con la camicia a quadri, la chioma lunga e scomposta, l’aspetto da loser e la chitarra in mano poteva cavalcare l’onda ed essere scambiato per la next big thing. La faccia di Cobain e le sue vicende personali riempivano le pagine dei tabloid al di qua e al di là dell’Atlantico e il suo modo di vestire assolutamente casuale, fatto di jeans strappati, indumenti sovrapposti e le All Star lise ai piedi, divenne uno stile di moda che sedusse i più grandi stilisti. Il grunge era oramai il trend del momento, il marchio che comunque faceva vendere e di quella commercializzazione forsennata Cobain divenne, suo malgrado, l’icona. Strano fato beffardo per un ragazzo problematico e depresso di Aberdeen che voleva essere il re del punk-rock.
Peccato che quando la sostanza misteriosa dell’arte viene trasformata in consumo e decontestualizzata dall’humus seminale che l’ha generata essa perda il suo significato d’essere. È una sorta di reazione autoimmune quella che spinge i geni migliori a fagocitare se stessi e autodistruggersi. Il grunge non era la pop art warholiana, ma un’arte povera e sincera partorita da un’accozzaglia dissestata di ragazzi fragili e per lo più tossicodipendenti, figli disadattati di una generazione che si muoveva a cavallo di forti trasformazioni tecnologiche e sociali, cresciuti in una città piovosa dell’Occidente civilizzato, con soldi da spendere in dischi ed eroina e tempo e noia a sufficienza per formare una tribù di rock band. L’etica del punk-rock per Cobain aveva sostituito un crollo di valori che interessava tutta la Generazione X e la musica era diventato l’unico punto di riferimento e religione. Anche i contorti viaggi autolesionisti implodevano sostituendo la forza estroversa delle lotte ideologiche e della sovversione. Nevermind fu come la croce per il cristianesimo, il simbolo salvifico e di espiazione di un’epoca. Fu un peccato che quella vulnerabilissima bolla di sapone contenente incredibili talenti (si pensi soltanto alle altre voci mitiche del periodo, quali Chris Cornell, Layne Staley, Mark Lanegan e Eddie Vedder) venisse gonfiata a livello planetario fino a scoppiare. Il ventre umido del Nordovest americano aveva partorito la creatura più luminosa e autentica degli ultimi due lustri e i faccendieri del marketing e della moda riuscirono a depredarne l’anima e a trasformarla in un fantoccio che diventava soltanto la grafia vuota dell’ultimo grande movimento giovanile del millennio. Peccato. Era un’onda di tali proporzioni che bastava cavalcarla per il resto della vita. Kurt Cobain decise di fermare la corsa.

Nella storia della musica esiste un’era pre e un’era post Nirvana. Come ebbe a dire Kim Gordon: “Quando una band come i Nirvana emerge dall’underground, esprime realmente qualcosa che contribuirà alla cultura e non è solo un bene di consumo”. Ne siamo tutti convinti, ma ciò non toglie il fatto che fu proprio Nevermind a fare da apripista per quella speculazione commerciale che avrebbe portato in auge la scena indipendente, ma ne avrebbe anche esaurito la creatività e l’originalità decretandone la fine. Se l’album spodestò U2, Guns n’ Roses e Michael Jackson dalla classifica di Billboard è perché riuscì a condensare e riflettere i sentimenti di una generazione intera soffocata dagli effetti dell’era reaganiana e dalla repressione culturale sottile ma penetrante in atto (si ricordi ad esempio l’introduzione degli adesivi “parental advisory: explicit lyrics” sui dischi). Nevermind, che fu la pietra miliare dell’esplosione dell’alternative rock come fenomeno di massa, ebbe un successo strepitoso perché in realtà la maggior parte dei giovani riuscì a leggerci il proprio grido di rabbia e frustrazione. Quel “a mulatto, an albino, a mosquito, my libido” fu più efficace di interi trattati pisco-sociologici, entrò direttamente nelle vene e, in modo pressoché subliminale, portò a un istintivo riconoscimento tra simili. Ecco il suo valore universalistico.
Il piccolo ragazzo biondo di Aberdeen parlava di razzismo, femminismo, censura e omofobia ma non si erigeva a portavoce generazionale; la sua forza era quella di essere uno come tanti, un outsider che non accettava l’omologazione. Tuttavia, con la sua sopraffina sensibilità e il suo immane talento, con il suo cantico fragile, straziato, spezzato e melodioso, riusciva a esprimere i dissesti incoerenti dell’anima. Quando nel 1992 milioni di persone compresero e abbracciarono quel verbo ridefinirono il corso della storia del rock. Il suono di Nevermind è stato in seguito clonato, preso ad esempio o ispirazione da band di tutto il mondo, ma nessuno sarebbe mai riuscito ad afferrarne l’imprescrutabile essenza. È il magico sincretismo di quando spazio e tempo si toccano per copulare generando il valore delle cose eterne. O forse è soltanto il gioco capriccioso del destino. Comunque sia, nevermind.

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