02/05/2011

FLEET FOXES

HELPLESSNESS BLUES (BELLA UNION)

Ancor prima di addentrarci nel merito della questione, è facile intuire che questo Helplessness Blues dev’essere stato una bella gatta da pelare per i Fleet Foxes. Provate solo a pensare cosa significa dare un seguito a un debutto come il loro omonimo del 2008, un disco semplicemente troppo bello per essere vero, pienamente meritevole di tutte le lodi e le iperboli di cui è stato – ed è ancora – oggetto. Provate solo un attimo a mettervi nei panni del giovane Robin Pecknold (appena ventiduenne all’epoca dell’esordio) e dei suoi fidi affiliati: un giorno sei in cameretta a imparare sulla chitarra le canzoni di Dylan, Neil Young e Joni Mitchell con il tuo amico del cuore (il chitarrista Skyler Skjelset) e prima ancora di rendertene conto ti ritrovi scaraventato su un palco, le folle estasiate di mezzo mondo che applaudono sotto di te, incantate dalle tue canzoni.
Ora, come si fa a dare un seguito al più bello dei tuoi sogni? Non è impossibile, ma devi avere la capacità di riuscire a sognare tutto da capo. Devi trovare un modo per canalizzare positivamente le inevitabili tensioni del caso, creative e umane che siano. Devi sforzarti di scavare a fondo dentro te stesso in cerca di ispirazione, e trovare al contempo nuovi stimoli. E soprattutto devi cercare di farlo nella maniera più onesta possibile, sforzandoti di essere autentico e sincero con te stesso, con chi ti circonda, con chi si aspetta qualcosa da te (e il pensiero che nella sola Inghilterra – dove il primo album è stato disco di platino – c’è mezzo milione di persone che ti attende al varco, non è certo d’aiuto).
Ecco, Helplessness Blues è tutto questo. È un disco che tra i suoi solchi racchiude la sua stessa travagliata storia, che esprime appieno il tentativo degli autori (e del songwriter in particolare) di risolvere inevitabili contrasti non eludendoli, ma affrontandoli di petto, e infine liberandosene. Per questo è un disco vivo, dinamico, in continuo divenire. A primo ascolto, sembra non possedere quella magia istantanea dalla quale ci siamo trovati inondati quando abbiamo sentito per la prima volta il debutto; ma è solo perché ad essa le nostre orecchie si sono abituate. Prima che immediato, questo è piuttosto un disco che cresce, cresce, cresce, e ti invita ogni volta a scoprirne segreti e tesori nascosti. D’altronde non bisogna fare un grande sforzo: l’asse della band non viene bruscamente spostato. Le armonie angeliche, la voce sottile e profonda insieme di Pecknold, gli arrangiamenti eterei e carichi di immaginazione, le atmosfere ancestrali sono sempre al loro posto, marchio di fabbrica di uno stile di fatto unico. Le differenze col cd precedente si misurano allora nella scrittura (lirica, intima, cruda e dolente nei testi, e più avventurosa nelle musiche) e in alcune novità nell’apparato sonoro (chitarra acustica a 12 corde, fiddle, zither e altri svariati strumenti, anche esotici). Ne esce fuori un lavoro più concreto, elaborato, studiato ma sempre e comunque immerso in un’atmosfera del tutto propria, mistica, arcana, sospesa tra sogno e realtà. Un’atmosfera in cui, nuovamente, diventa facile perdersi.
Per descrivere la musica di Helplessness Blues, il leader dei Fleet Foxes ha persino prodotto una lunghissima lista di influenze (da John Jacob Niles a Judee Sill, da John Fahey ai Trees fino a Pete Seeger), citando come principali il grande Roy Harper e l’inarrivabile Van Morrison di Astral Weeks. Sono accostamenti sostanziali più che formali, che ci parlano soprattutto dell’amore sconfinato e sincero che questi ragazzi di Seattle nutrono per la grande tradizione folk, che aleggia inevitabilmente tra i solchi senza che nessun riferimento particolare prenda il sopravvento. Se Bedouin Dress mette d’accordo Fairport Convention e CSN, lo strumentale The Cascades si ispira a Morricone, mentre Sim Sala Bim rievoca la leggerezza di Simon & Garfunkel; e se Lorelai ricorda forse troppo da vicino la dylaniana Fourth Time Around, Someone You’d Admire, Montezuma e Blue Spotted Tail risaltano nella loro essenziale intimità, in contrasto con le ambizioni di The Plains / Bitter Dancer e gli esperimenti di The Shrine / An Argument. Gli interludi strumentali, i raccordi tra le strofe, le architetture complesse e mai banali: tutto denota una sapienza che trionfa nel pop alla Brian Wilson di Battery Kinzie, nell’epos della title track e nella liberatoria Grown Ocean, una festa conclusiva da cui intuiamo che sì, i Fleet Foxes sono riusciti a superare l’ostacolo. Regalandoci un altro gran disco.

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