26/01/2009

VAN MORRISON

L’ANIMA DI ASTRAL WEEKS

Un qualche giorno del 1968, al Boston Tea Party, il principale rock club dell’omonima capitale del Massachusetts.
Peter Wolf, il futuro carismatico leader della J. Geils Band, una delle più spettacolari band degli anni 70 che condividerà spesso il palco con gli Stones, sta facendo le prove per lo spettacolo che in serata lo vedrà fare da supporter al leggendario bluesman Howlin’ Wolf. Nell’oscurità della porta d’ingresso, Wolf vede qualcuno aggirarsi misteriosamente. Avvicinatolo, gli chiede se stia cercando qualcuno. Il tipo gli chiede in quali locali cittadini sia possibile esibirsi. È anche lui un musicista. Dopo poco Wolf capisce con chi sta parlando. «Quando capii che era Van Morrison» ricorda «rimasi eccitato, ma anche perplesso. Eccitato perché lo ammiravo sin dai tempi dei Them. Perplesso perché mi sembrava così confuso e malandato. Nonostante un suo brano da solista, Brown Eyed Girl, avesse avuto da poco un buon successo in classifica, mi sembrò totalmente insicuro, del tutto confuso».
I due diventano amici. Condividono la passione per la stessa musica. Mentre passano i giorni, Peter Wolf scopre che quello che è stato una delle maggiori rock star della metà degli anni 60, con almeno un brano memorabile già entrato nella leggenda, Gloria, è adesso un poveraccio che vive in uno squallido piccolo appartamento con la moglie Jane e il figlio di lei. Hanno giusto un materasso, un frigorifero e un registratore a nastro. «Era in esilio» dice ancora Wolf. «Aveva una famiglia da mantenere, niente soldi, nessuna band che lo accompagnasse, nessun contratto discografico. Anche il motivo per cui si era trasferito a Boston era un mistero. Non aveva il telefono e ogni volta che doveva fare una chiamata per lavoro si faceva un sacco di isolati a piedi fino a casa mia. Qui passava le ore ad ascoltare i miei dischi: dalle volte che aveva ascoltato Rainbow ‘65 di Gene Chandler, fui costretto a cambiare la puntina del giradischi».
Cosa era successo a Van Morrison? Perché si trovava in quelle condizioni? «Finalmente riuscì a mettere su un gruppo fatto di due musicisti e a trovare un ingaggio in un jazz club che con un eufemismo si poteva definire un sotterraneo» dice ancora Wolf. «Era situato tre piani sotto un povero negozio, era buio e puzzolente. Sui muri ingialliti dal fumo di sigaretta erano dipinte immagini egiziane. Il nome del locale era quanto mai appropriato: Le Catacombe. Avevo portato un registratore per catturare ciò che sarebbe successo quella sera. E quella sera lui eseguì le canzoni che poi sarebbero finite su Astral Weeks. Quando finì, fu evidente ai pochi presenti che erano stati testimoni di un evento straordinario».

Il motivo per cui una delle più brillanti e promettenti rock star del decennio si trovasse sperduto a Boston, lontano da ogni scena musicale che contasse e senza soldi, era semplice, seppur amaro: dopo lo scioglimento della sua band, i Them, Van Morrison aveva cercato di lanciare la carriera solista con l’appoggio dello stesso manager del gruppo, Bert Berns. Nel settembre 1967 era uscito il suo esordio solista, Blowin’ Your Mind!, prodotto appunto da Berns per la sua Bang Records, un disco di cui Morrison non era rimasto soddisfatto per il semplice fatto che non lo aveva mai autorizzato. Riuniva singoli e incisioni varie che Berns aveva messo insieme senza consultare il cantante. In effetti, dopo una prima facciata esaltante che conteneva la formidabile T.B. Sheets e Brown Eyed Girl, che una volta lanciata come singolo, avrebbe fatto irruzione nella Top 40 americana, la seconda facciata conteneva solo scarti e provini. Inoltre il manager voleva che il cantante si cimentasse sempre di più in un repertorio pop, mentre questi voleva sperimentare nuove sonorità: i due avrebbero cominciato a litigare malamente, fino a quando, il 30 dicembre di quello stesso anno, il produttore e manager era morto per attacco cardiaco. La moglie Ilene per lungo tempo avrebbe considerato Van Morrison responsabile, per via dei continui litigi, della morte del marito (che in realtà sin dalla nascita soffriva di una malfunzione al cuore). Essendo diventata proprietaria della Bang Records, la donna, in una delle pagine più tristi della storia del rock, avrebbe messo in atto una autentica vendetta nei confronti dell’artista irlandese, impedendogli di registrare alcunché. Non solo: i maggiori club newyorchesi, nella cui città Van allora viveva, si rifiutavano di farlo suonare per paura di rappresaglie da parte della vedova. La donna, inoltre, dopo aver scoperto che il marito non aveva compilato adeguatamente i moduli affinché Morrison potesse vivere in America (era ancora cittadino inglese) cercò di farlo espellere dal paese. Per risolvere la situazione, il cantante si sposò con una ragazza americana, Janet (Planet) Rigsbee, con la quale avrebbe comunque cominciato una relazione affettiva durata diversi anni. Trasferitosi a Cambridge, nei primi anni 60 culla della scena del folk revival, riuscì a trovare da esibirsi nei club insieme a una band composta di studenti della locale università. Dopo alcuni mesi rimase a lavorare con uno solo di essi, il bassista Tom Kielbania. Questi poco dopo avrebbe presentato a Van il flautista John Payne, esperto jazzista che suonava anche il sassofono. Con i due forma un ensemble stabile che avrebbe cominciato a dar vita alle tormentate idee musicali che avrebbero trovato sede su Astral Weeks.

Per tutto il 1968 Van Morrison si esibisce in scalcinati club tra Cambridge e Boston. La situazione è abbastanza complessa per dar vita nella sua mente a quelle visioni oscure, tormentate, inquietanti che prenderanno vita nelle canzoni di Astral Weeks. E lo segnano per sempre nei confronti del mondo della musica e della discografia in particolare: la tragica esperienza vissuta con la morte di Berns lo renderà fino ai giorni nostri un recluso, diffidente e critico con tutto il mondo dell’entertainment. Come ha detto il critico musicale Lester Bangs in quella che non è una recensione (è stata scritta dieci anni dopo l’uscita del disco, per un libro a cura di Greil Marcus in cui alcuni giornalisti e scrittori cercavano di identificare il disco da portare con sé sulla famigerata isola deserta, intitolato appunto Stranded: Rock And Roll For A Desert Island), ma una ode colma di emozione a un disco capolavoro, «sembrava che l’uomo che aveva fatto Astral Weeks stesse soffrendo tantissimo, un dolore che le precedenti canzoni di Van Morrison avevano solo suggerito; ma proprio come negli ultimi dischi dei Velvet Underground, c’era un elemento di redenzione in quell’oscurità, una estrema compassione per la sofferenza degli altri e uno squarcio di pura bellezza e di mistico stupore che si apriva dritto fino al cuore del disco».
Inciso in soli due giorni, come un lungo stream of consciousness, quasi che si trattasse di una sola canzone, una dolorosa meditazione sulla vita, che serpeggiava attraverso le due facciate del vinile, Astral Weeks spaccava in due ogni allora conosciuta concezione della forma canzone, allargandone i confini. Eppure, a parte la voce guida dell’irlandese, sembrava anche fosse una raccolta di demo, con un accompagnamento strumentale minimo e solo accennato, aggiunta di archi a parte, fatta in seguito tanto per conferirgli un po’ di spessore. Il disco ha segnato gli sviluppi della canzone rock. Impossibile pensare ad esempio al primo Bruce Springsteen, specialmente quello di un lavoro formidabile come The Wild, The Innocent And The E Street Shuffle, senza Astral Weeks. Little Steven, amico di sempre del Boss, ricorda al proposito che «quando diventammo amici, ascoltavamo in continuazione Astral Weeks. Divenne un’influenza giovanile che faceva capolino di tanto in tanto. Una di quelle cose che ti rimangono nel dna. Inizialmente Van Morrison ci colpiva per l’irruenza garage del suo gruppo, i Them; poi ebbe un impatto per l’approccio da cantautore poeta e infine un forte impatto per la sua carica rhythm & blues. Ci influenzò dunque in quelle tre precise aeree musicali e credo che tutto questo rimanga nella musica di Bruce ancor oggi».
Il disco, per dirla ancora con Lester Bangs, «era la prova che l’arte aveva ancora delle cose da esprimere oltre al nichilismo e alla distruzione».

Van Morrison arriva a queste incisioni grazie all’appoggio della Warner Bros, decisa a rilanciarne la carriera. I responsabili dell’etichetta riescono, con qualche escamotage e qualche sacrificio, a liberarlo dalle catene che lo legano alla Bang Records. È grazie a uno dei loro produttori, Lewis Merenstein, che vede Morrison esibirsi una sera a Boston, che si accende questo interesse. Per essere libero di tornare in studio, Morrison deve però per un anno intero scrivere tre brani nuovi al mese e darli alla Web IV Music, la compagnia di edizioni musicali di Bert Berns. L’irlandese trova la scappatoia. In una sola session registra 36 pezzi che definire nonsense è un complimento. Incredibilmente, la vedova Berns li accetta. Morrison deve sottostare a un’altra imposizione: a partire dal 12 settembre 1968 deve cedere metà del copyright di ogni suo pezzo che venga pubblicato come 45 giri sempre alla casa di edizioni dello scomparso produttore. La Warner astutamente non ne pubblicherà neanche uno. Infine, deve inserire nel suo nuovo album due composizioni già registrate per la Web IV Music. Van accetta di inserire Madame George e Beside You, seppure alla fine nel disco quelle inserite siano decisamente differenti da quelle che aveva precedentemente registrato. In particolare, Madame George si intitola ancora Madame Joy ed è, a confronto con il brano apparso su Astral Weeks, una spensierata canzone che inneggia alla vita e non la tragica storia di un travestito (soggetto che comunque l’irlandese ha sempre negato). Anche se nella versione ufficiale si sente spesso Morrison cantare «madame joy» al posto di «madame George».

Astral Weeks prende vita in due sedute di registrazione il 25 settembre e il 15 ottobre 1968, più una terza che non produce alcun risultato il 1° ottobre, presso gli studi Century Sound di New York.
Secondo la testimonianza di John Cale, che in quei giorni si trova anche lui in quegli studi a registrare, Van Morrison, vista la sua insofferenza per gli altri musicisti, avrebbe inciso le sue parti da solo: «Registrò tutte le canzoni con una chitarra acustica e poi furono sovraincise le parti strumentali». Ma è una versione smentita da chi era in studio con l’irlandese, che invece registrò con il resto della band. Solo le parti di archi, le poche di batteria e i fiati vennero sovraincisi in seguito. In consolle siede come produttore proprio Merenstein, che ha un passato nel mondo del jazz. «Quando ci incontrammo» racconta «Morrison non era appassionato di jazz. Lo era invece di musica soul e rhythm & blues». Nonostante Kielbania e Payne conoscano gran parte del repertorio che finirà su Astral Weeks per averlo suonato parecchio dal vivo, Merenstein porta in studio il bassista Richard Davis, un veterano che ha già lavorato con il jazzista Eric Dolphy. Questi a sua volta porta il chitarrista Jay Berliner, il percussionista Warren Smith Jr e il batterista Connie Kay. Sono tutti provetti musicisti jazz che hanno, fra gli altri, lavorato con nomi come Charles Mingus e il Modern Jazz Quartet. Ma di tutti, sarà Davis a mostrarsi la forza guida delle composizioni, elaborando una fitta trama melodica e guidando il resto della band: «Ogni canzone è guidata da Richard» dice Merenstein «e tutti vanno dietro a lui e alla voce di Van».
Davis non è affatto colpito dal cantante irlandese. «Non faceva nessuna preparazione, nessuna riunione con noi» dice. «Arrivava ed entrava nella sua cabina di registrazione. E lì rimaneva, isolato da tutti. Non credo neanche che ci siamo mai presentati. Sembrava un tipo davvero timido». Jay Berliner, il chitarrista, ricorda come loro, in quanto musicisti jazz, fossero abituati a improvvisare, ma che ogni vera improvvisazione nel jazz nasceva da uno spartito guida fornito dall’autore delle musiche, su cui ci si basava per le jam: «Non fu così durante quelle session. Van ci suonava le canzoni alla chitarra e poi ci diceva di andare avanti e di suonare esattamente ciò che provavamo. Apprezzai molto la libertà che ci diede. Suonai un sacco di chitarra classica, ad esempio, e non è proprio una cosa che si fa in un contesto come era quello».
Durante la prima seduta, quella del 25 settembre, non sono prodotte quattro registrazioni tra quelle che finirono su disco: di queste, solo tre inizialmente si pensava sarebbero state usate e cioè Cyprus Avenue, Madame George e Beside You. Sebbene non sia stato invitato a suonare, il flautista della live band di Morrison, Payne, è presente in studio. A tutt’oggi nessuno sa il nome del flautista che quel giorno suonò le sue abituali parti, né appare in alcun documento di studio. Seppur sia presente sulle versioni ufficiali di Beside You e Cyprus Avenue, il suo nome non appare sui credits del disco. Un vero mistero. Alla fine di quella session, Payne chiede e ottiene di suonare su un quarto pezzo, che diventerà la title track. Il flautista rimarrà fino alla fine delle sedute al posto del misterioso collega.
Presumibilmente il giorno dopo, o piuttosto il primo di ottobre, si tiene una seconda session che però non porta alcun risultato. La ragione? Registrare al mattino non è il momento giusto per dei musicisti jazz e Morrison se ne va sbattendo la porta.
L’ultima seduta ha luogo il 15 ottobre; vedono la luce gli altri quattro brani che completano il disco, e cioè The Way Young Lovers Do, Sweet Thing, Ballerina e Slim Slow Slider. Quest’ultimo è un pezzo deciso in extremis, alla ricerca di una traccia adeguata come conclusione del disco. Payne ricorda che non l’avevano mai fatta dal vivo e che Morrison aveva un libro pieno di canzoni con sé, ma non sa spiegarsi perché decise di registrare proprio quella. Con tutti i musicisti presenti, Payne mette mano al sassofono e il brano si prolunga in una jam session strumentale che Merenstein decide di tagliare completamente perché la ritiene poco riuscita.
È comunque un’eccezione, perché la lunghezza media di tutti gli otto pezzi (a parte The Way Young Lovers Do, di soli 3 minuti e 10 secondi) passa dai 5, 6, 7 fino ai quasi 10 minuti di Madame George.

«Non volevo più esser parte della scena rock» dirà Van Morrison. «Per far ciò, pensai di fare un disco che fosse solo voce e canzoni che parlassero di qualcosa. Così mi allontanai dalla scena rock. Poi i critici cominciarono a dire che era un disco rock. È ovvio, per chiunque sia dotato di due orecchie, che in questo disco non c’è rock’n’roll. L’intento era quello di non fare un disco rock». Cosa aveva allora fatto Van Morrison? Per Bob Schwaid, uno dei funzionari Warner che aveva aiutato Morrison nella bega legale con la Bang Records, «quando quel disco uscì, pensai fosse un matrimonio di stile avantgarde fra jazz e rock». Per Elvis Costello, si tratta del «più avventuroso disco mai fatto nel canone della musica rock e da allora non c’è più stato un disco con un approccio altrettanto coraggioso». L’attore Johnny Depp ricorda che negli anni 70 il suo disco preferito era Frampton Comes Alive!: «Un giorno mio fratello, più vecchio di me di dieci anni, strappò via la puntina del giradischi e mi disse: mi stai ammazzando. Mise su Astral Weeks. Mi commosse. Non avevo mai ascoltato niente di simile. Il disco di Frampton finì nella spazzatura». Sinéad O’Connor ricorda che «ascoltai Van Morrison la prima volta a 18 anni. Nelle sue prime cose tipo Astral Weeks c’era questa incredibile attitudine da storyteller, come in un stream of consciousness. In quelle canzoni c’erano solo due accordi, ma dal modo in cui lui suona e canta non te ne rendi conto». Kevin Rowland, leader dei Dexy’s Midnight Runners, confessa che in piena esplosione punk «non riuscivo a capire Astral Weeks. Sembrava bizzarro e senza melodia. Ma quel disco allargava i confini della musica. Potevo relazionarmi con il dolore che veniva espresso, non avevo mai ascoltato della musica che mi toccasse così a fondo. Questo era molto di più che rock’n’roll, era qualcosa d’altro. È quel tipo di genio che ti porta in posti dove altri non vanno, posti che certa gente non sa nemmeno che esistano».
I giornali si divisero: il New Musical Express accostò Morrison a una versione da poveri di José Feliciano, mentre il Melody Maker lo definì uno dei dischi più tosti dell’anno. Furono i musicisti i primi ad avvertire la potenza evocatrice di quel lavoro: il musicista più hip della scena di Hollywood del periodo, Johnny Rivers, inserì Slim Slow Slider nella sua set list dal vivo, mentre un ancor poco conosciuto David Bowie mise Madame George nel suo repertorio live.
Van Morrison ha spesso definito il disco un «song cycle», qualcosa di diverso da un concept album. I prodromi del disco, che l’artista ha dichiarato essere una sorta di addio alla sua adolescenza e al suo passato, si trovano in quel capolavoro che è T.B. Sheets, inclusa su Blowin’ Your Mind!, una delle più crude e intense composizioni che la storia del rock ricordi, paragonabile a quello che avrebbe fatto Lou Reed trent’anni dopo nel disco Magic And Loss. La canzone è ambientata in una stanza d’ospedale dove una ragazza (probabilmente la fidanzata del protagonista) sta morendo di tubercolosi. «It ain’t natural» dice il cantante, guardando la ragazza nel suo letto di agonia e davanti alla realtà implacabile della morte fugge disperato. Il senso di impotenza, ma anche quello di colpevolezza per non essere riuscito a starle accanto, prorompono in modo esagerato creando una situazione insostenibile per l’ascoltatore: mai la morte era entrata in modo così acuto e lancinante in una canzone rock. Secondo Michael Ochs, che scrisse le liner notes per il disco della Bang dal titolo omonimo pubblicato nel 1973, durante la registrazione del brano Van Morrison dovette interrompersi perché scoppiato in lacrime.
T.B. Sheets sarebbe stata usata da Martin Scorsese quale pezzo di apertura del suo film del 1999 Bringing Out The Dead (Al di là della vita, con Nicholas Cage, ndr) e lo stesso regista avrebbe confessato, in una intervista del 2006 rilasciata a Greil Marcus che la prima parte del suo Taxi Driver era apertamente basata sulle canzoni di Astral Weeks. Canzoni che ripartono appunto da T.B. Sheets. «La title track» dirà Van «è una di quelle canzoni dove vedi la luce alla fine di un tunnel». Il tunnel da cui l’arista sta uscendo è quello di una adolescenza smarrita, di un brevissimo stardom vissuto all’ombra dei Them, e poi la crisi con il suo manager: sono tutti elementi che si ritrovano sparsi qua e là nelle canzoni, toccando il vertice nei due capolavori Cyprus Avenue e Madame George, brani che affrontano temi pericolosi e finora mai toccati prima (a parte certe canzoni dei Velvet Underground) come un accenno di pedofilia e l’omosessualità.
Morrison dissemina indizi qua e là: nella title track, ad esempio, quando canta «Talkin’ to Huddie Ledbetter, showin’ pictures on the wall» fa riferimento all’abitudine che aveva di portarsi dietro un poster del bluesman Lead Belly ovunque si fermasse a vivere e appenderlo al muro. Cyprus Avenue è una strada realmente esistente a Belfast che divideva in due la zona popolare dove Morrison era cresciuto e quella più signorile della città. Lì c’erano un paio di scuole private femminili e lì il cantante ambienta la storia di un uomo che siede in macchina ad osservare le ragazzine che tornano a casa. Non è pedofilia, naturalmente: Morrison ripensa a quando lui stesso aveva 14 anni («You keep walking down when the sun shone through the trees, nobody, no, no, no, nobody stops me from loving you baby so young and bold, fourteen years old») ma il desiderio sessuale che ne emerge certo non fa pensare a una ambientazione da classica love song, piuttosto a un desiderio morboso che si stempera nella nostalgia per gli anni della adolescenza. Il brano mette a nudo, musicalmente, tutte le incredibili prerogative musicali dell’artista, tanto che non a caso diventerà negli anni a seguire un momento immancabile delle sue esibizioni, immortalato in una versione memorabile nel live It’s Too Late To Stop Now, disco dal vivo del 1973 che proprio dall’urlo finale di Morrison in questo brano prende il titolo.
Madame George è l’altro vertice dell’album: anch’esso un commosso ricordo dei suoi anni da ragazzo, come detto altrove in questo articolo si intitolava inizialmente Madame Joy. Su Astral Weeks diventa l’irriverente sfottò di un gruppo di ragazzi impertinenti verso un qualche travestito conosciuto ai tempi di Belfast. Come T.B. Sheets, come Cyprus Avenue, anche qui il linguaggio lirico si stempera e si fa lirico in una sorta di compassione verso il diverso, verso la “diversità” della vita stessa, quel qualcosa che ci sfugge di mano mentre cerchiamo di impossessarcene. Per Van Morrison, «Madame George se ne venne semplicemente fuori da sé. È solo una specie di flusso di coscienza, così come Cyprus Avenue. Non pensavo nemmeno a quello che stavo scrivendo».
«Madame George e Cyprus Avenue» scriverà Lester Bangs «prendono il dolore che c’era in T.B. Sheets e ci radicano dentro il mondo. Perché il dolore di assistere alla morte di una persona amata (…) può anche essere una cosa terribile, ma almeno è un fatto noto, comprensibile, in un certo qual modo misurabile (…). Ma la bellezza dell’orrore di Madame George e Cyprus Avenue sta proprio nel fatto che qui non si parla di gente che muore: guardiamo la vita nel suo fulgore e ciò di cui soffre quella gente non è una malattia, ma la natura, a meno che la natura non sia una malattia».
Nel fare ciò, Morrison codifica una formula musicale straordinaria che certo pesca nello scat e nel ribollente senso del ritmo di un James Brown, nel soul di un Sam Cooke o ancora di più di un Otis Redding, ma che esplode in quell’incredibile magma sonoro che è Astral Weeks: una serie di tic verbali, come nota ancora Lester Bangs, che tante volte l’irlandese nel corso della sua carriera ha cercato di recuperare scadendo però talvolta nella parodia. «Astral Weeks ne è pieno» dice lo scomparso giornalista. «Quattro ripetizioni affrettate delle frasi “you breathe in, you breathe out” e “you turn around” in Beside You; in Cyprus Avenue dodici “way up” e “baby” cantato tredici volte di fila. Ma soprattutto Madame George in cui canta la parola “dry” e poi “your eye” venti volte in un arco melodico talmente bello da lasciare senza fiato. E poi c’è questo: “And the love that loves the love that loves the love that loves the love that loves to love the love that loves to love the love that loves”, e l’amore che ama, l’amore che ama amare…». Pura trascendenza musicale, senza pari.

Per Van Morrison, dopo Astral Weeks, sarà «too late to stop, now», come il titolo di quel bellissimo disco dal vivo che pubblicherà nel 1973, uno dei più grandi live di tutti i tempi. Sarà l’inizio di una stagione favolosa, costellata da dischi straordinari come Moondance, Tupelo Honey, Veedon Fleece. Ma sarà anche una stagione diversa, dove la grande, grandissima musica prenderà talvolta il sopravvento sui testi, che mai più avranno il coraggio e l’ardire, la tensione e lo sgomento di affrontare le stesse pagine memorabili, ricche di interrogativi, di crisi, di angoscia che furono immortalate sui solchi di Astral Weeks.
Madame George andrà a riposare. Ci sarà tempo per danzare alla luna, adesso.
Allo stesso modo, la via del cipresso, quella Cyprus Avenue così piena di oscuri presagi, sarà piuttosto il trampolino per esaltanti cavalcate musicali, epico picco delle sue performance dal vivo degli anni 70, non più la morbosa visione di un adolescente che stava diventando uomo.
Fino a quella sera di novembre di 40 anni dopo, quando un Van Morrison ormai anziano artista avrà il coraggio di guardarsi indietro. E con dignità e fierezza, osservando un’ultima volta la sua vita trascorsa, porterà a casa un percorso che non ha uguali nella storia del rock.

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