15/05/2007

David Byrne Glad

Quando deve richiedere un visto per entrare in un Paese straniero, nello spazio dedicato alla professione svolta scrive indifferentemente “musicista”, “artista” o “fotografo”. Ma potrebbe ugualmente metterci compositore, produttore, discografico, chitarrista, regista, attore, filmmaker, pittore, designer. I critici lo considerano uno degli ultimi intellettuali del pop. Lui li ripaga passando con noncuranza dall’arte concettuale alla canzonetta. Gli viene naturale farsi beffa delle convenzioni e spiazzare i pronostici. Nel nuovo album Grown Backwards, in uscita il 12 marzo, intona in chiave pop due arie di Verdi e Bizet, ma poco tempo fa ha interpretato se stesso in una puntata dei Simpsons, cantando una canzone intitolata Tutti odiano Ned Flanders scritta da, ehm ehm, Homer Simpson. “Entro in un bar”, mi racconta ridendo di gusto, “e sento Homer cantare una canzonetta caustica sul suo vicino di casa. Gli faccio: questa sì che è una grande canzone, mi piacerebbe inciderla con te. Credo che quello sia stato l’apice della mia carriera. Adesso posso tranquillamente ritirarmi.” Gli chiedo seriamente se per lui ci sia alcuna distinzione tra cultura alta e bassa. So già la risposta. Infatti: “Non c’è nessuna differenza. Cambiano il pubblico e gli strumenti di marketing, ma il processo creativo è bene o male lo stesso. Ovviamente ci sono concetti che puoi esprimere efficacemente attraverso un’esibizione fotografica o un articolo di giornale, ma che non puoi dire in una canzone pop, perché sembrerebbe forzato. Ma allo stesso tempo quel che puoi permetterti di dire in una canzone pop suonerebbe ridicolo in un saggio, no?”

Cinquantadue anni il prossimo 14 maggio, i capelli oramai completamente grigi, David Byrne riesce ancora a scrivere splendide melodie e a musicarle in modo originale. Alle spalle una carriera solista interessante quanto quella coi Talking Heads, ma non altrettanto remunerativa in termini economici e di popolarità, Byrne sembra voler riscrivere le regole della canzonetta pop. Musica melodie senza tempo e predilige gli ensemble di archi rispetto ai canonici gruppi rock con chitarre e tastiere. Ha persino smesso i panni di ambasciatore delle musiche del mondo presso la società occidentale, mettendo in secondo piano nei suoi album ritmi e colori folk e disimpegnandosi dalla gestione dell’etichetta discografica Luaka Bop (vedi box a pagina 37). È consapevole che coi Talking Heads era un’icona, mentre da solo è uno dei tanti artisti “difficili”. Non se ne cura. Anzi, fa di tutto per non essere considerato il cantante in giacca oversize di Stop Making Sense. Ha pubblicato un libriccino di massime morali per la società contemporanea da infilare sotto le porte delle camere d’albergo. Ha scritto un saggio di fisiognomica digitale e ha tentato di trasformare PowerPoint in uno strumento per fare arte.

Ebbe ragione il Time nel metterlo in copertina chiamandolo “L’uomo rinascimentale del rock”.

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Crescere al contrario

È strano. Anche un po’ buffo. Oggi indossa una tutina gessata e un giubbotto sportivo. Si muove a scatti. Raramente guarda negli occhi l’interlocutore. Spesso scoppia in fragorose risate che interrompe bruscamente continuando a trattenere il sorriso per qualche secondo ancora. Possiede un gran senso dell’ironia e, cosa più importante, sa ridere di sé e delle proprie invenzioni artistiche. “Nelle scorse decadi”, ha detto recentemente al mensile Uncut, “si è presupposto che l’arguzia e l’intelligenza non sono compatibili con la verità e l’autenticità. Non dovrebbe essere così. Spero che entrambe le canzoni (Civilization e Glad, nda) abbiano un elemento di verità, al di là del fatto di essere costruite con intelligenza.”

Cerco d’immaginarlo vagare solo soletto per Manhattan e incidere su un piccolo registratore le melodie che gli vengono in mente. È esattamente quel che ha fatto prima di scrivere le canzoni di Grown Backwards, il primo per la piccola e prestigiosa Nonesuch, l’etichetta di Laurie Anderson, Bill Frisell, Joni Mitchell e Randy Newman. David ha cambiato anche abitazione e, in parte, vita. Forse mai come in questo momento si sente come l’immigrato della canzone che apre il nuovo album, Glass, Concrete, Stone: uno che ha un appartamento ma non una casa, se capite la differenza. Uno in movimento. “Quando scrissi quella canzone”, mi racconta, “non mi resi conto che, parlando di un immigrato, in realtà stavo parlando anche di me stesso. In origine scrissi il brano per il film di Stephen Frears Piccoli affari sporchi, basato sulla storia di alcuni immigranti a Londra. Ho finito per identificarmi nella situazione di quella gente che ha un appartamento, ma non può chiamarlo casa.”

I cambiamenti sembrano avere fatto bene a David Byrne, anche se strappargli una parola sulla sua vita privata è un’impresa. La questione su che cosa sia cambiato di preciso nella sua vita famigliare resta lì nell’aria: io chiedo, lui abbozza risposte e le lascia a metà. Di certo Grown Backwards è un album leggero, che fotografa con un pizzico d’incanto la vita che passa. Citando il titolo del disco, Byrne dice che si sente “cresciuto al contrario. È un’espressione che non ho inventato io, l’ho presa da un romanzo di Flannery O’Connor. È un ossimoro, un paradosso, e forse è proprio per questo motivo che l’amo”. Per David crescere al contrario significa che, per dirla con Bob Dylan, un tempo era più vecchio e oggi si sente molto più giovane di allora. Rispetto a vent’anni fa, dice, è meno angosciato, ma continua a invidiare le persone che sono felici perché riescono a prendere la vita con leggerezza. Vorrebbe fare altrettanto. Può risultare difficile credere che uno che ha pubblicato un libro/dvd intitolato Envising Emotional Epistemological Information (vedi box a pagina 38) possa lasciarsi trasportare dal fluire della vita e smetterla di essere sempre “così terribilmente cosciente di sé”. Eppure Grown Backwards dà esattamente l’idea di un uomo che cerca la leggerezza e la felicità, e per farlo si disfa in parte di intellettualismi e angosce esistenziali.

Gli dico che la sua musica non è mai stata così calda e umana. Invecchiare al contrario rende felici? “Sì, ma non nel senso di Berlusconi”, risponde ghignando. La notizia del lifting presidenziale è arrivata anche a David. “It’s news everywhere!”, dice con l’aria di chi ti sta prendendo in giro. E aggiunge: “Devo ammettere, però, che non vedo una gran differenza tra com’era prima e com’è adesso”. Poi si fa serio. “Vedi, sono cambiate molte cose negli ultimi due anni, nella mia famiglia e nel mondo. Mi sono separato dalla Virgin e dalla Luaka Bop. Ho cambiato casa. Vivo sempre a Manhattan, in un quartiere chiamato Hell’s Kitchen. È un nome strano per un quartiere rispettabile e infatti sono dieci anni che vogliono ribattezzarlo Clinton, e non in onore del Presidente (ride, nda). Ma a me il nome Hell’s Kitchen piace. Insomma, sono cambiate molte cose nella mia vita. È stato come nascere una seconda volta.” Non stupisce che Grown Backwards sia uno dei dischi più personali mai pubblicati da Byrne, anche se è difficile distinguere la linea che separa l’autobiografia dalla finzione. “È un album personale nella misura in cui molte canzoni riguardano sentimenti ed emozioni, non idee. Anche se, effettivamente, ci sono anche canzoni interamente basate sulle idee, come Empire, una canzone satirica, ipotetico inno nazionale della destra americana.” È uno dei capolavori dell’album, un’aria solenne musicata con gli strumentisti del gruppo di Carla Bley. I versi chiave sono “Quel che è giusto per gli affari, è giusto per tutti noi” (la fiducia nel mercato come istituzione suprema che regola automaticamente per il meglio i rapporti tra gli uomini) e “Solo chi è forte sopravvive” (il darwinismo sociale). “Non ero sicuro di volerla includere nell’album”, mi dice. Pazzo. “Non ero certo che la gente l’avrebbe presa per il verso giusto, che avrebbe colto l’ironia. Volevo mostrare la vera faccia dell’impero americano, mettere in chiaro quali sono i principi che lo muovono e quanto essi siano spaventosi.” Com’è cambiata New York a oltre due anni dalla tragedia delle Twin Towers? “C’è stato un periodo di circa due anni, dopo l’11 settembre, durante il quale New York sembrava un’altra città. All’inizio c’è stata una meravigliosa rincorsa alla solidarietà, poi sono cominciate a spuntare tutte queste bandiere. E ora penso proprio che la gente si sia risvegliata e sia tornata a pensare. E questo mi rende ottimista.” Al mensile Uncut ha invece offerto una visione politica più globale e un qualche modo apocalittica: “Gli imperi funzionano così. S’impossessano di un Paese e cominciano a sentirsi insicuri delle nazioni confinanti. Perciò sono costretti ad esercitare un’influenza anche su quelle nazioni. Ma ben presto l’impero spende tutte le sue energie e le sue risorse economiche per controllare questi vasti territori. Iniziano a dire che gli serve quel pezzettino (di terra, nda) per motivi strategici. E vanno avanti. Una volta che hanno iniziato, non possono più fermarsi. Quindi collassano perché non possono più sostenersi. È avvenuto ad ogni singolo impero nel corso della storia”.

Empire è l’unica canzone apertamente politica di Grown Backwards. A leggerne i testi, si direbbe che Byrne si stia ponendo delle domande sulla natura delle cose. In una deliziosa canzone d’amore intitolata She Only Sleeps canta che “nulla succede per caso”, in Why che “doveva andare così”, in Glad che è felice che “le cose sono come devono essere”. Lui ammette che “in un certo senso questo disco celebra la vita per quello che è. Canzoni come Why e Glad non hanno risposte. Ecco, in questo disco pongo tante domande, ma non offro nessuna risposta. La vita segue un suo flusso naturale e la cosa ha del miracoloso. È vero che negli ultimi due album ho cercato di disfarmi del lato più intellettuale per essere più leggero, specie per quel che riguarda il mio modo di cantare e la scelta delle melodie. Ho voluto che le melodie risultassero immediate ed emozionanti. Penso che i miei testi siano ancora involuti e concettuali, invece.” È il disco di una persona felice solo per il fatto di esistere. È una celebrazione della vita? “Sì, ma non nel senso più scontato, non come se fosse la vignetta su un biglietto d’auguri. La verità è che spesso sono io stesso a doverli interpretare. Mi accorgo a volte di scrivere parole che hanno una musicalità e una metrica adatta alla canzone. Sono le prime parole che mi vengono in mente in quel momento e che mi colpiscono emotivamente.” È una questione di casualità, quindi? “No, perché quelle parole finiscono per esprimere il mio inconscio.”

In un articolo pubblicato nell’autunno 2003 dall’Observer, Byrne citava una frase di Leonard Cohen secondo cui le prime cellule cerebrali a morire sarebbero quelle legate alla depressione. Glielo ricordo e lui ride di gusto. “È vero che oggi sono più felice di un tempo”, ammette. “E continuo a pormi la stessa domanda: se crescendo diventi un po’ più stupido, vuol dire che diventi anche un po’ più felice?”

Un’altra domanda senza risposta accompagnata da una risata. Tipico..

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L'(archi)tetto di suoni

Dice che tutte quelle pompose e solenni dichiarazioni da parte dei cantanti sull’importanza di avere completa libertà artistica sono stupidate. Si lavora meglio con dei limiti. Stimola la creatività, dice. E allora per Grown Backwards s’è dato lui dei paletti. Uno: doveva essere un disco in cui gli archi sostituivano quasi completamente le chitarre e le tastiere, e per questo s’è fatto aiutare dall’arrangiatore Stephen Barber. Due: una volta tanto, le canzoni dovevano nascere dalla melodia, non dai ritmi. Tre: le melodie dovevano rifarsi alla classica canzone americana, oppure a tradizioni di altre parti del mondo, ma non alle strutture del blues che stanno alla base del rock. Ecco spiegato il carattere “europeo” del disco. Del resto Byrne, da una vita newyorchese, ha ancora il passaporto britannico: sarà un caso?

“Un tempo partivo dai groove e dalle ritmiche per arrivare alle melodie, questa volta il processo è stato inverso: dalle melodie sono arrivato alla stesura della canzone definitiva. Ho deciso quasi per caso di invertire questa piramide, cioè di mettere la punta sotto e la base sopra, e fare qualcosa che per molti anni ho ritenuto inopportuno. Il mio intento è sempre stato quello di, per così dire, democratizzare la musica, cioè di dare la stessa importanza alla melodia e al ritmo. Questa volta ho voluto privilegiare un tipo di composizione melodica di stile europeo, con il resto degli strumenti a fare da supporto. Non è niente di nuovo in assoluto, ma per me lo è. Lavorare con stili differenti può rappresentare anche un motivo d’ispirazione in più per trovare melodie interessanti a cui altrimenti non avresti mai pensato. Nel mio caso canzoni napoletane, brasiliane, classici di Cole Porter o Irving Berlin, tutto può ispirarmi.”

Dopo essersi servito della musica etnica per dare nuove sfumature ai propri dischi, sembra che Byrne si stia lasciando alle spalle quel mondo. “Mi elettrizzava emotivamente”, ricorda. “Pensai che avrei potuto scrivere in una maniera molto più personale, forse meno ironica, ma per me è stato sicuramente qualcosa di nuovo. Certi ritmi sono comunque presenti nelle nuove canzoni, anche se non in modo evidente. Persino in The Man Who Loved Beer, la mia interpretazione di un brano dei Lambchop, ci sono percussioni in stile brasiliano.” David la suonò con gli Yo La Tengo durante uno show di beneficenza. “Ovviamente ho dovuto rifare l’arrangiamento per quest’album”, aggiunge.

Una delle novità del disco è rappresentata dall’interpretazione di due arie d’opera: Un dì felice, eterea, dalla Traviata di Verdi, e Au fond du temple saint, da I pescatori di perle di Bizet, quest’ultima cantata in coppia con Rufus Wainwright. “Sapevo che rischiavo grosso, ma sapevo anche di avere la voce e l’intonazione giusta per interpretarle come canzoni pop. La Traviata l’ho sentita per la prima volta in Australia, in un parco. Mi è capitato di assistere a una sua esecuzione in forma di concerto, cioè senza scena e costumi, soltanto con l’orchestra e i cantanti. Mi sono innamorato subito dell’aria Un dì felice, eterea. Mi sono reso conto che molte arie della Traviata possono essere presentate anche come delle canzoni pop. Ma non sono appassionato di opera. Ho sentito qualcosa di Wagner, ma è ostico. Ho visto una produzione spettacolare di Zeffirelli della Turandot di Puccini al Metropolitan di New York. Non sono un esperto, non ci vado regolarmente. Della Scala ho visitato l’edificio e il teatro, ma non ho mai assistito a uno spettacolo. Ripeto, l’opera per me è una sequenza di canzoni, più che una sequenza di scene drammatiche.”

L’album si chiude con una nuova versione di Lazy, il brano nato dalla collaborazione col gruppo dance degli X-Press 2. “È il remix del remix, l’ideale per chiudere un album pieno zeppo di archi. Quel che cerco di dire in quella canzone è che la pigrizia è sexy. Ricordi quel che ti dicevo prima sui concetti che solo una canzone pop può esprimere? Ecco, il fatto che la pigrizia sia sexy non lo deduci dal testo, e nemmeno dalla musica, ma dal modo in cui canto, dalla melodia. Il messaggio: siate pigri e sarete sexy. Che è esattamente il contrario di quello che ci viene detto normalmente. Il pigro non è più il perdente e chi è iperattivo non è più il vincente. È sexy chi se ne sta seduto in poltrona tutto il giorno a non far nulla.” Cosa che lui non fa mai, immagino. Ride. “Esatto. Il lavoro è la mia droga.”

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Invisibile

Ai tempi della competizione presidenziale tra George W. Bush e Al Gore, David Byrne fece stampare migliaia di manifesti con le facce disegnate dei due candidati e la scritta “Huh?”. Era il suo modo di dire che nessuno dei due era adatto all’incarico. Li fece affiggere a New York, Chicago e Los Angeles. Nessuno sapeva che li aveva ideati l’ex cantante dei Talking Heads. Quattro anni dopo, nessuno sa che quello stesso cantante continua a fare dischi e concerti in quantità. “Mi sento quasi invisibile”, dice. “Le radio non passano più le mie canzoni. Non faccio più nemmeno videoclip, perché tanto Mtv non li passerebbe.” Gli dico che in Italia Mtv o Allmusic, non ricordo, hanno passato il video di Lazy. Mi guarda come se gli avessi detto che il nuovo album di Bill Frisell ha venduto più di quello di Beyoncé: “Davvero?!”.

Invisibile. È anche per questo motivo che Byrne ha autorizzato la Microsoft a utilizzare Like Humans Do, una canzone tratta dall’album del 2001 Look Into The Eyeball, sampler per il Windows Media Player, raggiungendo in questo modo 300 milioni di potenziali ascoltatori. “Ho pensato che fosse una grande opportunità per raggiungere più ascoltatori, far loro sapere che stavo per completare un nuovo album, e farmi conoscere ai molti che pensano a me soltanto come a un ex componente dei Talking Heads. Purtroppo però, non ho ottenuto nessun ritorno dall’operazione. Forse qualcuno ha ascoltato il brano quando ha lanciato il programma, ma non ha aiutato in alcun modo le vendite del mio disco (ride, nda). È stato un vero fallimento.”

Le cose si sono complicate anche sul fronte discografico. Tre anni fa David Byrne era un artista sotto contratto con la Virgin Records, nonché il discografico illuminato a capo della Luaka Bop. Oggi non è nessuna delle due cose. “A seguito della fusione tra la Virgin e la Emi, ci fu un periodo di grande incertezza in cui non accadde nulla. Successo tutto quando iniziai il tour di Look Into The Eyeball: ci furono cambiamenti ai vertici, licenziarono dipendenti, scaricarono artisti, ci fu uno scandalo.” Scandalo? “Sì, si scoprì che una manager discografica faceva sesso con gli artisti.” Ed è una cosa scandalosa? “Sì, perché avrebbe potuto concentrare le sue energie soprattutto su quell’artista. e non ero io (ride, nda). Ma a parte questa storia, spesero un sacco di soldi nel disco di Mariah Carey, che però non vendette quanto s’aspettavano, la qual cosa creò un grosso buco economico. Poi spesero ancora più soldi per liberarsi di Mariah Carey: milioni e milioni di dollari per non farle fare un altro disco.” Il suo sorriso adesso è velato da una sorta di consapevolezza amara. Continua: “L’industria musicale è cambiata negli ultimi anni. È sempre più difficile lavorare con le maggiori etichette. Finché il tuo disco va incontro ai gusti del pubblico e a quel che vuole la casa discografica, va tutto bene. Ma se non è così, sono guai. Meglio incidere per una divisione più piccola come la Nonesuch, distribuita da una grande casa discografica (la Warner, nda): trovo che riescano a vendere musica inusuale con grande intelligenza”.

Che cos’è successo alla Luaka Bop, un tempo distribuita dalla Virgin? “Anche lei scaricata, ma non credo che le due cose siano in relazione. Semplicemente la Virgin ha fatto pulizia: si sono tenuti Lenny Kravitz, Janet Jackson e pochi altri. Per un certo periodo la Luaka Bop ha avuto sede a casa mia, ma qualche mese fa le ho detto: non puoi più stare qui, mi costi troppo e mi porti via troppo tempo. Ci siamo separati, anche se continuo a essere marginalmente coinvolto e a vedermi col mio amico Yale (Evelev, il presidente dell’etichetta, nda). Per un certo periodo di tempo l’etichetta è rimasta ferma. Adesso è di nuovo attiva e sarà distribuita dalla V2.”

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Per niente figo

Si vede che è timido e non fa niente per nasconderlo. Ma la sua timidezza non è un handicap, dice lui, ma esattamente il motivo per il quale ha cominciato a far musica: uno stimolo per trovare un’altra via di comunicazione con gli altri. Racconta che ai tempi dei Talking Heads la situazione era drammatica. La conoscete, vero, quella canzone del gruppo che fa “non riesco a concentrarmi sui fatti, sono teso e nervoso, non riesco a rilassarmi”? Ecco, è stata la prima che David ha scritto per i Talking Heads. Si ispirava all’Anthony Perkins di Psycho, ma in parte parlava anche di Byrne, suppongo.

“La musica è esattamente il modo che la gente che non si sente per niente cool sceglie per comunicare le proprie emozioni”, racconta. “Se riesci a salire su un palco e ottieni successo, beh, riuscirai anche a farcela con le ragazze.” Non avrei mai pensato alla possibilità che i Talking Heads siano nati per rimorchiare ragazze. “E ti dico una cosa: funziona! Nel mio caso, la musica non è servita solo a comunicare con le ragazze, è servita a comunicare col resto del mondo. Mi sentivo a disagio anche solo al pensiero di parlare con altre persone. Non ero assolutamente in grado di esprimermi. Poi mi sono accorto che sul palco, forse proprio perché si tratta di una situazione artificiale, riuscivo a dire qualunque cosa. Ho capito che attraverso una canzone riuscivo a trasmettere la mia paura, la mia angoscia, la mia rabbia. Fortunatamente da allora le cose sono cambiate. ma non posso certo dirmi completamente rilassato nel rapporto con gli altri.”

Alla timidezza ci siamo arrivati parlando di Civilization, un’aria soave tratta dal nuovo album ambientata in un ristorante, “dove mi capita di mangiare con le mani, uno dei motivi per cui non mi definisco civilizzato. Ma la vera domanda evocata dalla canzone è: voglio diventare pienamente civilizzato? Voglio essere una persona che fa ogni cosa in modo corretto? È quello che mi chiedo in continuazione. Non sono ancora riuscito a darmi una risposta”.

Nel brano David canta che “un giorno sarò quel tipo davvero figo”. Gli dico che la cosa mi stupisce. Vive a New York, è un artista dalle mille risorse, ha una fantastica carriera solista ed è stato il leader dei Talking Heads: non è abbastanza per sentirsi cool? “No. Non mi sento per nulla cool”, risponde lui. Ma come, ci sono migliaia di persone nel mondo che pensano che lo sia. “Forse perché non mi hanno mai visto mangiare.”

Mai giudicare dalle apparenze. Una delle ultime pazzie di David Byrne è Envising Emotional Epistemological Information. Una delle parti più interessanti del libro/dvd è dedicata alla fisiognomica digitale, in pratica a un’ipotetica applicazione tramite i computer della pseudoscienza che mira a rilevare il carattere delle persone tramite una ricognizione dei loro tratti fisici. Byrne ha fatto altrettanto, utilizzando però facce celebri. Racconta: “Ho scattato fotografie delle celebrità non di persona, ovviamente, ma al museo delle cere di Madame Tussaud. Quando vanno lì i turisti sbagliano tutti: abbracciano la statua di, chessò, Tupac, si mettono in posa sorridenti e si fanno fotografare. Io invece ho scattato dei primi piani delle statue. L’idea era applicare la fisiognomica alle celebrità per dimostrare che in realtà non è possibile risalire al carattere di una persona osservandone le fattezze, volevo spiegare che quella è una pseudoscienza che si basa su stereotipi. E la stessa cosa sta accadendo con la genetica: stanno cercando di analizzare il dna delle persone cercando di scoprire ciò che le rende criminali. È un periodo confuso, questo. Crescere organi può aiutare le persone malate, ma a volte sembra grottesco. Non era così che andava anche la storia di Frankenstein?”

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Il nome di quella band

Nel dicembre 1991 Jerry Harrison, Chris Frantz e Tina Weymouth appresero da un’intervista a David Byrne pubblicata dal Los Angeles Times che la loro band non esisteva più. Da allora i rapporti tra Byrne da una parte, e gli ex dall’altra sono sempre stati tesi. Quando nove anni dopo questo giornale chiese alla Weymouth di parlare di quella frattura, la bassista apparve emotivamente scossa (vedi Jam 65, novembre 2000). Di Byrne disse: “Ha tradito tutti: la moglie, i figli, i genitori, gli amici”. E ancora: “È stato uno shock, non ce l’aspettavamo, siamo stati colpiti alle spalle da una persona che consideravamo un fratello. Abbiamo sbagliato nell’aver permesso al lead singer di prendere tutte le decisioni. Spesso ci siamo chiesti se e dove abbiamo sbagliato, ma l’unico colpevole è la personalità alterata di Byrne”. La Weymouth metteva in dubbio anche lo spessore artistico del personaggio. “C’è una sorta di anomalia caratteriale in lui”, diceva, “è come una radio che sa captare e riprodurre tutto – suoni, mimiche, voci, idee altrui – senza rielaborarle; per cui quando tutti insieme scrivevamo una canzone, dentro di sé lui era già riuscito ad anticipare come sarebbe uscita e alla fine credeva veramente di esserne l’autore.” Byrne ribatteva col sarcasmo: “Per anni mi hanno detto in faccia o tramite la stampa o tramite lettere delle cose davvero orribili. E poi venivano da me chiedendomi di rimettere insieme il gruppo per fare nuovamente musica meravigliosa”.

Oggi i rapporti sembrano migliorati, nonostante David sia ancora sostanzialmente l’unico ostacolo a un possibile tour di reunion della formazione newyorchese. Qualcosa si muove, se non altro. Byrne ha innanzitutto preso parte alla selezione dei brani del box set Once In A Lifetime, cofanetto retrospettivo dei Talking Heads pubblicato nell’autunno del 2003 e contenente tre compact disc più la vecchia raccolta di video Storytelling Giant, risalente al 1988, finalmente su dvd. Il box set contiene una cinquantina di canzoni, tra cui rarità, inediti e outtake. “Selezionare le canzoni è stato tutto sommato facile”, dice oggi Byrne, “si è trattato semplicemente di prendere le migliori. Più che altro sono stato coinvolto nella parte grafica e nel decidere quali scrittori avrebbero contribuito con un loro testo al libretto.”

Lo scorso gennaio, inoltre, è stata annunciata la pubblicazione per la prima volta su compact disc dello storico doppio album dal vivo The Name Of This Band Is Talking Heads tramite la Rhino. Con tutte le nuove band che affermano di amare alla follia la new wave anni 80 e i gruppi dell’età d’oro del CBGB’s, e con le classifiche delle migliori canzoni e album d’ogni tempo in cui tornano a comparire Once In A Lifetime e Remain In Light, tira l’aria giusta per un possibile revival dei Talking Heads.

Il riavvicinamento in pubblico tra Byrne e gli altri tre ex si è consumato in occasione dell’ingresso della band nella Rock And Roll Hall Of Fame. Durante la cerimonia che si è tenuta al Waldorf Astoria nel marzo 2002, i quattro sono tornati a suonare assieme una tantum, rinverdendo Psycho Killer, Life During Wartime, Burning Down The House e Take Me To The River. Al gruppo si sono uniti per l’occasione Bernie Worrell e Steve Scales. Ricorda David: “Entrare nella Rock And Roll Hall Of Fame (sono stati introdotti da Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers, nda) è stato un onore e un piacere. Ma allo stesso tempo mi confonde perché so che ai tempi dei Talking Heads c’era gente molto più popolare di noi e quella gente non fa parte della Hall Of Fame. Una questione di qualità, dici? Ci sono musicisti di quell’epoca più influenti di noi e nemmeno loro sono nella Hall Of Fame. Per cui mi chiedo: che sta succedendo?” Esibirsi con Chris, Carla e Jerry è stato divertente, dice. “Ma è stato come essere la tribute band di noi stessi. Non c’è nessun coinvolgimento creativo. Ci teniamo in contatto via e-mail. I nostri rapporti sono sì amichevoli, ma anche un po’ tesi.” E il vecchio amico Brian Eno? “L’ho incontrato recentemente a Londra. Stiamo curando una ripubblicazione di My Life In The Bush Of Ghosts, che dovrebbe uscire entro quest’anno.”

Oggi, dei Talking Heads, Byrne ricorda soprattutto la volontà di fare tabula rasa del passato. Gli chiedo che cos’avrebbe pensato il David Byrne d’allora del David Byrne d’adesso, che canta melodie che sembrano uscire dal songbook d’un compositore anni 40. Sorride. “Sai, a quei tempi l’imperativo era far piazza pulita; cancellare tutto quanto era successo nella musica fino a quel momento e iniziare da zero. Per iniziare, lo devi fare. Devi negare l’esistenza di tutto ciò che è venuto prima di te. Devi avere la sfacciataggine di pensare che stai inventando qualcosa di completamente nuovo, anche se in molti casi non è così. Ma è un processo necessario. O almeno per me lo è stato. Prendi una piccola parte che pensi sia significativa per te e costruisci su quella respingendo tutto il resto. Crescendo, però, le cose cambiano ed eccomi a cantare canzoni che sembrano provenire da un tempo lontano. È dovuto passare molto tempo prima di essere pronto ad accettare influenze dalla musica country o dai classici della canzone americana senza che esse distruggessero la mia musica.”

L’intervista è finita. Ci salutiamo. Ho trovato una persona disponibile, pronta a parlare di tutto, anche dei Talking Heads. Perché, gli chiedo, prima dell’intervista viene chiesto ai giornalisti di non fare domande sul suo passato? Per la prima volta s’irrigidisce. Volge lo sguardo lontano e parla a raffica. Sembra recitare un testo, forse perché quelle parole le ha dovute ripetere migliaia di volte: “Ogni volta che concedo un’intervista i giornalisti mi chiedono se riformerò mai i Talking Heads e io.”. Lo interrompo. Non deve spiegarmelo, gli dico, non ce n’è bisogno. Non credo che una reunion del gruppo potrebbe aggiungere nulla alla sua carriera e alla sua statura d’artista. Torna a guardarmi. “Oggi non potrei più scrivere le canzoni che scrissi ai tempi del primo disco dei Talking Heads”, dice. “È come se appartenessero a un’altra persona.”

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