11/05/2007

Harper’s Bazaar

Brillante, gentile, disponibile, affettuoso, divertente e riflessivo, Ben Harper non è soltanto uno dei più grandi artisti viventi: incarna, al 100%, il sogno di ogni intervistatore. Basta non urtarne la suscettibilità e non scavare (inutilmente) in un privato che difende a spada tratta. Infatti, quando si chiacchiera di musica, Ben diventa interlocutore ideale. Com’è capitato anche questa volta, l’ennesima, in cui abbiamo la fortuna di intervistare il talento di Claremont. Per parlare con lui di Both Sides Of The Gun, suo formidabile ultimo lavoro (fatto di due cd, nella medesima vena artistica dei leggendari “doppi” della storia) ma non solo. Tra blues, funk, rock, soul e folk, c’è spazio per denunce politiche e riflessioni personali, per ricordi di gioventù e tecniche chitarristiche, per affetti famigliari e ispirazioni compositive, per successi professionali e aspirazioni future.

È il primo del suo gruppo a metter piede negli studi milanesi di LifeGate Radio. Lo fa a modo suo: salutando gentilmente (ma con una punta di timidezza) chi gli apre la porta e che si ritrova davanti il mito. Un mito quieto e riservato ma che, appena vede una batteria, si tuffa letteralmente in mezzo a tamburi e piatti dimostrando naturalezza imbarazzante, e pure discreta tecnica, con un paio di bacchette tra le mani al posto dei più famigliari plettri o bottleneck.

Lo scorso 28 ottobre Ben Harper ha compiuto 36 anni ma conserva look ed entusiasmi di un ragazzino. Il recente matrimonio con la seducente attrice hollywoodiana Laura Dern (vedi box a pagina 39) sembra avergli dato ulteriore tonicità fisica e morale. Tirato a lucido, con capello tagliato di fresco e completo jeans molto cool, Mr. Harper appare in gran forma, rilassato e di ottimo umore.

“Ma davvero sono già passati tre anni dall’ultima volta che ci siamo visti?” mi chiede quando gli ricordo che l’ultimo nostro incontro risale alla promozione di Diamonds On The Inside, “cavolo, mi sembra ieri. Vediamoci più spesso.”, mi fa con tono di presa in giro, sapendo però di farmi piacere.

“Sono appena tornato dal Southern California” lo informo e (facendo velato riferimento al suo matrimonio) replico allo scherzo: “Sai, qualcuno mi ha detto che eri ‘impegnato’ e così non ho voluto disturbarti. Guarda piuttosto cosa ti ho portato: la mia chitarra Martin che hai usato per la tua prima apparizione televisiva in Italia, quasi dieci anni fa.”.

“Grazie. Quando vedo chitarre vintage intorno a me, mi sento subito bene. È il modo migliore per farmi un’intervista.”.

Gli faccio i complimenti per il nuovo disco (vedi JAM 123), un lavoro davvero impeccabile. Ma ormai per gli appassionati di rock (e non solo) Ben Harper è una garanzia assoluta. Il “ragazzo” da anni non sbaglia un colpo e oggi la sua musica è una sintesi mirabile, matura e personale delle sue innumerevoli influenze stilistiche e culturali.

“Da Diamonds On The Inside in poi, ho intrapreso una strada creativa più consapevole, completa e (credo) originale. Sono proprio soddisfatto” afferma senza falsa modestia.

Sono incuriosito dal titolo del cd (Both Sides Of The Gun, le due estremità di una pistola) che, come sempre nella discografia harperiana, sembra avere un significato particolare.

“È vero” mi conferma, “i titoli dei miei dischi sono fondamentali. Hanno una valenza cinematografica. Servono a visualizzare il concetto che sta dietro ai brani che compongono ogni mio lavoro. in questo caso, chi imbraccia un fucile e chi vede la canna puntata di fronte: sensazioni opposte che, a volte, possono anche coincidere”.

Non c’entrano invece le coincidenze con il fatto che questo sia un album doppio: due dischi stilisticamente diversi tra loro ma intensi e bellissimi in eguale maniera. Rockeggiante, vigoroso, pulsante e brioso il primo; poetico, romantico, delicato e sentimentale il secondo.

“Considero Both Sides Of The Gun” spiega Harper “un doppio album moderno. Voglio dire che non è come in passato quando, per il ridotto minutaggio dei vinili, gli artisti erano costretti a incidere su due 33 giri per dare ampiezza o completezza al loro lavoro. Non fraintendermi: non voglio dire che negli anni 60 e 70 sono stati prodotti album doppi solo per soddisfare le manie di grandezza o l’incontinenza artistica di alcune rockstar; ci sono opere di valore assoluto come Blonde On Blonde, The White Album, Exile On Main Street, Songs In The Key Of Life, Sign “O” The Times o altre ancora che davvero hanno fatto la storia del rock. Intendo semplicemente sottolineare che, nel mio caso, la scelta è stata motivata dal fatto che le 18 canzoni presenti avevano bisogno di un ordine preciso, di una determinata sequenza, di una suddivisione rigorosa”.

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Spesso, mentre parla, Ben si distrae a guardare le chitarre e gli altri strumenti che lo circondano. La sua voglia di suonare (“Un’esigenza fisiologica”, come lui ogni tanto la definisce) è assolutamente palpabile. Ed è spiegazione plausibile al fatto che molti brani del disco siano stati quasi interamente suonati da lui.

“Questa volta mi è andato di fare così” dice “certo, in qualche brano c’è una sezione archi, in altri ho chiamato gli Innocent Criminals, in altri ancora qualche amico di vecchia data”.

Nel disco c’è un pezzo, Black Rain, in cui la denuncia contro le lacune dell’amministrazione Bush nei soccorsi alle vittime dell’uragano Katrina è forte, quasi violenta. Racconto a Ben della mia sensazione di dolore di fronte a quelle immagini terribili e di quanto mi fosse difficile soltanto pensare di guardare i telegiornali di quei giorni. Non solo per l’umana pietà verso chi era stato colpito dall’immane tragedia, ma anche per quanto ha sempre rappresentato New Orleans nel nostro immaginario: la capitale della musica e del divertimento, la culla del jazz, la città dove “tutto è facile”.

“New Orleans è la quintessenza della cultura americana. Non ci sono dubbi” sottolinea Harper. “Anch’io ho fatto fatica a guardare le immagini del post Katrina: mi sentivo stringere il cuore. Ho trovato vergognoso l’atteggiamento del nostro governo e per questo ho voluto scrivere questa canzone: è l’unica arma in mio possesso. E ritengo giusto usarla: nessuno può impedirmi di farlo, così come nessuno mi può impedire di mandare pubblicamente affanculo George W. e i suoi tirapiedi. Nessuno può impedirmi di urlare al mondo quanto siano privi di rispetto per la vita altrui. A loro interessa soltanto farsi gli affari propri, cercare di aumentare il loro potere. Hanno in mente di controllare il mondo, di sottometterlo alle loro leggi ingiuste. Non si rendono conto di quanto il resto del pianeta li consideri egoisti, prevaricatori, imperialisti e malvagi; di quanto ne condanni le politiche espansionistiche e, purtroppo per loro, di come li detesti”.

Non capita spesso di vedere Ben infervorarsi. Ma quello che l’attuale governo americano sta facendo e le reazioni che sta provocando in molti opinion leader statunitensi ricorda i tempi cupi della presidenza Nixon in piena guerra del Vietnam, qualche anno prima dello scandalo Watergate.

“Spesso, quando sono in giro per il mondo, mi vergogno di essere americano. E tutto ciò per colpa di questo governo maledetto. quindi, se non riesco a vedere una speranza di giustizia nel sistema Usa, provo almeno a raccontarlo nelle mie canzoni. Anzi, voglio che le mie canzoni denuncino tutte le loro stronzate e propongano un modello positivo al quale riferirsi. E se qualcuno dovesse obiettare che questo mio modo di fare sia soltanto un utopistico senso della giustizia oppure che una canzone, dato che dura solo pochi minuti, è soltanto in grado di dare sollievo momentaneo, non importa. Questo è tutto ciò che ho: e lo voglio usare al massimo.”.

Quando parla così, mi fa ricordare che lui è nato nel 1969, un anno formidabile per le sorti del pianeta; un anno storico anche per il rock. La sua coetanea Noa una volta mi ha detto, facendo riferimento proprio al 1969, di essere nata “poco prima che il mondo cominciasse a deteriorarsi”. In quell’anno Richard “Tricky Dick” Nixon stava combattendo una guerra sanguinaria, in una località remota, apparentemente senza motivo, invadendo un Paese straniero. La politica economica interna era pessima e lui, il Presidente, veniva aspramente contestato dai personaggi pubblici più importanti del Paese mentre nel resto del mondo la parola America era scritta con la K. Anche allora (come fanno oggi, quasi 40 anni dopo, ma in una situazione tutto sommato analoga, Ben Harper e altri protagonisti del rock americano) molti artisti auspicavano nei versi delle loro canzoni un mondo migliore: “We can change the world” cantavano ad esempio Crosby, Stills & Nash. e c’era chi diceva loro che la musica è uno strumento inefficace.

“La vita è un insieme di momenti di conoscenza, di esperienza; di cose giuste ed errori, di successi e fallimenti” dice Ben, che si è tranquillizzato anche se mantiene un piglio serio e deciso, “qualsiasi idea in grado di contribuire a un miglioramento della coscienza collettiva è da ritenersi un passo in avanti per l’intera società. Al contrario, tutto ciò che peggiora la nostra consapevolezza va considerato come un arretramento della cultura e del costume”.

“I politici ti vogliono fottere” canta Harper nella title-track “mettono un piede sulla bandiera e l’altro sulla tomba, i sistemi sono marci sino alle radici, giovani e vecchi si meritano molto di più che lottare tutti i giorni della loro vita”.

Questo conflitto perenne, la consapevolezza di quanto faticosa sia la vita di tutti i giorni, permea molti brani del primo cd. Ad esempio in Better Way, folgorante brano d’apertura, Ben sottolinea quanto sia insidiosa la realtà: “Ti può tagliare in due come un coltello” anche se chiude con una speranza per un modo migliore: “Togli le mani dalla faccia / Pulisci gli occhi / Hai il diritto di sognare”.

In Gather ‘Round The Stone ammonisce: “I vecchi che mandano a morire i giovani invano ascolteranno il costante sussurrare della morte”, mentre nel brano omonimo lancia un invito: “Per favore, non parlate di omicidio mentre sto mangiando”.

Nel secondo cd ci sono brani riconducibili alla struttura della ballata, una delle forme musicali più antiche, con radici nell’epoca medievale. Una forma, rivalutata dalla cultura e dalla tradizione anglo-americana, che è ancora diffusa un po’ ovunque nel mondo, seppur con caratteristiche diverse. Una struttura compositiva che da sempre piace a Ben Harper.

“Sì, adoro le ballate. Mi ci ritrovo, mi danno la possibilità di esprimermi con grande naturalezza. E consentono una libertà espressiva totale, fuori dai cliché stilistici ai quali spesso si vuole rimanere attaccati. Per me non è mai stato così, sarebbe come rinchiudermi in una stanza: ecco il vero motivo della mia versatilità e del mio desiderio di usare linguaggi musicali diversi”.

Caratteristica tipica delle ballate è quella di raccontare storie. Storie vere, storie di fantasia e tutte le gradazioni intermedie.

“Se non fossimo qui, davanti a microfoni e telecamere, ma magari seduti comodamente a un bar, con un bicchiere di birra, potrei anche svelarti (da amico) cosa c’è dietro i testi di alcune mie canzoni. Ma preferisco non farlo e tenermi la privacy di alcune storie”.

Gli dico che anche Joni Mitchell, una volta, mi ha dato lo stesso tipo di risposta. “Blue è stato l’album più doloroso della mia vita” mi raccontava la cantautrice canadese “è stato una specie di seduta psicanalitica pubblica. A volte, in studio di registrazione, mi veniva da piangere ripensando alle emozioni di ciò che stavo raccontando. è stato troppo doloroso, non rifarò mai più una cosa del genere”.

“La capisco bene” dice Harper “io credo di dare già moltissimo di me attraverso la mia musica. Desidero preservare la mia identità e la mia privacy”.

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Contrariamente al passato, sembra che in questo disco Ben non abbia scritto i brani soltanto durante le sue incessanti (e a volte massacranti) tournée.

“Alcuni pezzi li ho scritti on the road, come ho fatto spesso in passato. Magari iniziavo a scrivere una canzone a San Francisco e poi finivo di farlo, che so, a Santa Fe, New Mexico. Il progetto con i Blind Boys Of Alabama, però, mi ha lasciato un po’ di spazio. E così ho potuto concentrarmi sulla composizione e ricavare anche momenti di scrittura e riflessione specifici. A casa, ad esempio. Ma quando finisco di registrare un album, per me quel progetto è terminato e inizio subito a scrivere nuovi pezzi che desidero sperimentare dal vivo. Questo perché, da una parte, mi incuriosisce vedere la reazione della gente e dall’altra perché voglio analizzare le mie interpretazioni. In questo modo i brani crescono e si sviluppano prendendo a volte pieghe diverse dall’idea originale”.

Gli mostro un bottleneck, il “collo di bottiglia” che i neri usavano (spaccando letteralmente la parte superiore delle bottiglie) per ricavare quel curioso effetto di scivolamento sulle corde e sul manico che è stato definito slide. E la slide guitar è giustamente considerata lo strumento principale di Ben Harper, quello in cui l’artista californiano eccelle.

“È stato il mio primo strumento. Ho avuto, sin da subito, un’attrazione fatale, un istinto particolare, prima ancora di provare a suonare una normale chitarra acustica”.

Una vota Ry Cooder mi ha detto che la chitarra slide è perfettamente adattabile a qualsiasi genere musicale. “Ha un suono liquido” puntualizzava il musicista di Santa Monica “e come qualsiasi liquido riesce a modellarsi intorno a qualunque forma”.

“Wow. quello che ti ha detto Cooder è fantastico” esclama Ben, assolutamente entusiasta della definizione. “A proposito di slide guitar, come ben sai io ho riscoperto le vecchie Weissenborn, chitarre che risalgono ai primi del 900 che questo costruttore straordinario inventò utilizzando il legno hawaiano di koa, decidendo di costruire la cassa di risonanza anche sotto il manico. Adoro questi strumenti: oggi li sento miei. Hanno un suono formidabile, un misto di antico e moderno che continua a stregarmi e a sorprendermi”.

Per sentire la sua Weissenborn c’è un pezzo esemplare in questo album: lo strumentale Sweet Nothing Serenade, tre minuti di struggente poesia sonora. Per vedere da vicino qualche Weissenborn è invece “sufficiente” recarsi a Claremont (un paio d’ore a nord-est di Los Angeles) dove Ben è nato e dove i suoi nonni hanno creato il Folk Music Center & Museum, oggi di proprietà di Ben Harper.

Gli mostro la t-shirt del suo negozio e Ben ride divertito.

“Hai comprato quella in edizione limitata. basta, non hai più bisogno di chiedermi nulla. Se sei stato al Folk Music Center hai già capito tutto di me. Sono cresciuto lì, circondato da questi strumenti meravigliosi e da suoni e ritmi incredibili. Tra un sitar e un banjo bluegrass, un charango e un djambé, un’arpa celtica e un bouzouki, tra un didjeridoo e un set di congas ho davvero trascorso la mia fanciullezza e adolescenza, immerso in un universo sonoro assolutamente affascinante”.

A Claremont, ci sono ancora sua madre (insegnante di musica) e i fratelli Joel, poeta e pittore, e Peter, scultore affermato.

“Non abbiamo mai pensato di mettere in piedi una vera e propria band. anche se siamo una famiglia molto unita e tutto quello che facciamo lo facciamo insieme, compreso suonare, anche se ciò accade assai di rado. Dal punto di vista creativo e professionale ciascuno di noi ha scelto la propria strada. Potrebbe succedere, chissà mai, che troviamo una forma di collaborazione. vedremo”.

A Claremont, ai confini con il deserto del Mojave, ci sono soprattutto le radici musicali di Ben Harper che, come ammette lui stesso, “sono chiaramente percettibili nella mia musica. Io lo so, ne sono orgoglioso e credo che chiunque provenga da quella parte di California meridionale lo sappia. La chitarra slide mescolata con un certo tipo di soul music e con un’attitudine verso le musiche del mondo sono un trademark dell’Inland Empire, quella vasta zona che si estende dal nord-est di Los Angeles, da Claremont appunto, sino al Joshua Tree National Park”.

Claremont (come abbiamo già avuto modo di approfondire sulle pagine di JAM) vanta anche una lunga tradizione musicale della quale il negozio dei nonni di Ben è stato un punto di riferimento importante, almeno quanto il leggendario Nick’s Café, minuscolo ma essenziale music club cittadino, frequentato da tutti gli artisti di Claremont.

“Nick Sandro, il proprietario di quel posto, ha venduto il locale e oggi vive a Chicago. Ma sai che l’ho invitato a suonare il basso e a cantare i cori in un pezzo di Both Sides Of The Gun? Lo puoi ascoltare in Crying Won’t Help You Now”.

Mi basta accennare ai nomi di alcuni suoi concittadini come Chris Darrow (uno dei membri fondatori di band leggendarie come Nitty Gritty Dirt Band, Kaleidoscope ma anche session man di lusso – vedi Sweet Baby James di James Taylor – nonché songwriter attivissimo) o David Lindley (autentico mago degli strumenti a corda e, in qualche modo, “maestro” artistico di Ben) per farlo nuovamente sorridere. Entrambi, Darrow e Lindley, hanno partecipato ai progetti di Ben. “Lindley è presente anche in questo mio ultimo lavoro: suona la tambura alla fine di Better Way”.

Gli parlo anche di Geggy Tah (“I miei amici Greg e Tommy”), band prodotta dalla Luaka Bop di David Byrne che, come racconta Ben, “sono partiti da Claremont. Provavano nella casa dei genitori e per qualche tempo hanno battuto tutti i locali in tutto l’Inland Empire, diventando dei local heroes”.

Tra i tanti progetti, Ben ha dovuto momentaneamente rallentare i lavori della sua etichetta, la Inland Emperor Records che ha pubblicato il cd di Patrick Brayer, “un songwriter fantastico, il Bob Dylan del deserto” dice Harper. “Patrick è un artista di talento, uno scrittore prolifico che ha influenzato moltissimi cantautori di quella zona. Lui è stato anche il primo autore che ho avuto modo di ascoltare e conoscere da vicino. Ci si vedeva quasi tutti i giorni e Pat è stato per me importantissimo: da lui ho imparato a far convivere creatività e disciplina”.

Quando parliamo di Claremont, Ben si mostra sinceramente contento. Pare quasi che abbia una grande nostalgia. “Sono sempre in giro. questo è il momento topico della mia carriera e ho deciso di investire tutto me stesso nella musica. Questo comporta tante gratificazioni ma anche parecchi sacrifici. Mia madre possiede un fantastico appezzamento di terreno sulle montagne vicino a Claremont, vorrei costruirci la mia casa ma non riesco a trovare il tempo di farlo. Così come torno troppo poco spesso a Claremont: vorrei starci di più e in modo più continuativo”.

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Approfitto del fatto che qualche minuto prima mi avesse menzionato l’avventura con i Blind Boys Of Alabama per condividere con lui alcuni ricordi di quella sensazionale band che avevo visto tanti anni fa (quando ancora si facevano chiamare Five Blind Boys From Alabama) in un club sul Sunset Strip. Alla fine del concerto, gli arzilli vecchietti scendevano in platea, stringendo le mani ma soprattutto cantando e coinvolgendo il pubblico in un travolgente rito collettivo.

“Me li posso immaginare” dice Ben. “Stare con loro è stata un’esperienza gratificante e divertentissima. Sono ammirati e riveriti in modo quasi religioso. e poi, insieme, abbiamo vinto due Grammy: una soddisfazione enorme. All’inizio non sapevo neanch’io cosa pensare. Sai, è il premio dell’industria, ha un significato commerciale. ma quando ho avuto in mano il ‘grammofonino’ e ho visto il mio nome inciso sopra ho pensato: cazzo, è fantastico: ho vinto un Grammy! E, ti dirò la verità, non mi è importato molto della categoria: in quel momento, sarei stato contento pure se me l’avessero dato perché avevo fischiettato Dixie meglio di tutti. Poi, ho riflettuto e ho pensato che alla enorme emozione dovevo aggiungere una assoluta gratificazione artistica perché non ho vinto con un disco qualunque ma con un progetto insieme ai Blind Boys Of Alabama che per me ha significato il ricordo delle mie origini, delle mie radici, della musica che ho ascoltato da piccolo nel negozio dei nonni.”.

E anche perché, aggiungo io, il premio arriva nel momento topico della sua carriera. “È vero: la musica è ispirazione ma anche esperienza e io, oggi, credo di essere un musicista assai migliore rispetto a dieci anni fa”.

Uno dei motivi è la costante attenzione per ciò che lo circonda. Ben sa sempre trovare un equilibrio esemplare tra vecchio e nuovo, tra innovazione e tradizione. È capace di ascoltare e apprezzare, senza difficoltà e con lo stesso spirito, i Coldplay o John Coltrane e questa sua apertura mentale si riflette positivamente nel suo modo di fare musica. O, ancora di più, nel suo modo di intendere la musica.

“Credo che si sia sempre più ridotto lo scarto tra la musica che sento dentro di me e quella che produco. Per anni, ho cercato di materializzare le mie sensazioni perché il mio mondo interiore, quello spirituale, è la vera fucina della mia arte. La cosa difficile è portare in superficie e rendere fruibili, all’esterno, sensazioni e vibrazioni che si riescono a percepire ma che a volta si fa fatica a trasmettere. Forse ho trovato la chiave giusta. L’uscita di un nuovo disco mi dà felicità, stimoli, voglia di fare. Non vedo l’ora di partire in tournée e di eseguire i nuovi brani dal vivo. Questa è la mia vita e lo sarà sino a che avrò la forza di farlo”.

Dopo averla guardata per quasi un’ora, finalmente Ben prende in mano la mia Martin D-35 (costruita nel 1969 e, quindi, sua coetanea) e dopo averla accordata con cura regala ai presenti una deliziosa versione tutta acustica della romanticissima Morning Yearning: “Come una rosa d’estate sono una vittima dell’autunno / Ma presto rifiorirò / Perché il tuo amore è il posto più caldo dove si sia mai posato il sole / Mia brama mattutina”.

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