01/04/2010

HENDRIX

Canzoni dell’altro mondo

Non ne abbiamo mai abbastanza e loro lo sanno. Gli anni passano e dalla fine di Jimi sono ormai quaranta, ma con regolarità certosina continuano ad emergere i materiali più vari, che spiovono da Seattle, quartier generale della Experience Hendrix guidata da Janie, la sorellastra che tiene le redini di tutto, con la consulenza del braccio destro e conservatore degli archivi, John McDermott. Il suo lavoro è prezioso quanto puntuale anche in questa uscita, Valleys Of Neptune, 12 canzoni (12 come gli apostoli) che fanno da corona a un progetto di inediti e scoperte a tutto campo. Un panorama che appare superiore alle altre pubblicazioni, a cominciare dalla serie degli official bootleg inseriti nella collana parallela denominata Dagger Records, costola dell’azienda congegnata per inchiodare fino all’ultimo i seguaci più accaniti. Valleys Of Neptune festeggia al meglio il trasloco di tutta la discografia ufficiale da una multinazionale all’altra – prima Universal, oggi Sony – per un passaggio che manderà sul mercato vari altri prodotti, ovviamente siglati con marchio di qualità e l’imprimatur definitivo della famiglia.
Il nuovo cd è frutto di una capillare opera di setaccio e di riordino dei nastri recuperati attraverso complicati processi che, secondo i bene informati, riserveranno anche per il futuro ulteriori sorprese: nei mesi prossimi, ad esempio, verrà finalmente messo a disposizione in dvd il famoso concerto della Royal Albert Hall, intorno a cui si è favoleggiato in tutto questo tempo. Registrato con grandi mezzi e con un suono assolutamente competitivo per l’epoca, è rimasto chiuso e inaccessibile sino a oggi per varie diatribe intorno allo sfruttamento dei diritti: ben vengano la svolta nelle trattative e l’accordo.

Un’analisi di Valleys Of Neptune consente una considerazione di fondo: la leggenda di Jimi regge su mille ragioni, ma al fondo resta una superba musicalità, che anche nelle pieghe più misteriose, nello scandagliare tra i nastri conservati gelosamente e ora ripristinati, conferma la potenza della meraviglia hendrixiana, lo stupore che tuttora e comunque è capace di originare un repertorio dove per la verità tutto è stato ormai rivelato. Non saranno, insomma, gli inediti assoluti del nuovo cd a spostare le sorti del genio e semmai è una formidabile alchimia tra gli elementi che ancora consenta di raccogliersi intorno al fuoco primordiale di un album che promette e mantiene una ulteriore dose di vibrazioni superiori.
La scaletta viene scandita dai luoghi e dalle date di registrazione: in pratica metà dell’album nasce nei Record Plant Studios di New York (5 tracce sono dell’aprile 1969, mentre quella che dà il titolo – la più preziosa, chiacchierata, agognata – è stata pianificata e rimodellata tra il settembre ’69 e il maggio ’70). Altre 5, invece, provengono dagli Olympic Studios di Londra, concentrate in due giorni del febbraio 1969, mentre una, Mr. Bad Luck, è del 5 maggio (chissà se avranno pensato a Napoleone?) 1967, ed è un nobile avanzo delle sessioni di Axis: Bold As Love, 3 minuti secchi, con il tiro veloce, pungente di potenziale singolo. Il tutto per un’ora abbondante di vibrazioni coriacee e lungimiranti.
Il livello sonoro e dei contenuti è comunque di alto profilo, rispettoso della portata della ricorrenza del quarantennale e non andranno delusi gli aficionados, anche a un primo esame della scaletta che fotografa Jimi accompagnato soprattutto dagli Experience prima maniera, Noel Redding e Mitch Mitchell con i tre episodi iniziali appannaggio di Billy Cox al basso, e qualche curiosa incursione qua e là. Per esempio nell’apertura di Stone Free, che evidenzia la partecipazione ai cori di due gloriosi esponenti del giro rock-blues britannico, Andy Fairweather-Low e Roger Chapman al tempo colonna portante dei Family, mentre altrove scoviamo i nomi di collaboratori marginali, il più noto dei quali è il percussionista Juma Sultan salito sul palco anche a Woodstock: in generale trattasi di contributi emendabili, nel caso del blues avvolgente e magnetico Crying Blue Rain, datati 1987, evidentemente resi necessari per arredare quanto lasciato da Jimi in forma poco più che di appunti. A seguire c’è il brano ripreso per ribattezzare l’album intero, Valleys Of Neptune che sin dal titolo rivendica una predilezione per gli ambienti del cosmo e dello spazio di Hendrix che, secondo i compagni d’adolescenza, era molto affascinato dai temi ufologici: il pezzo è la robusta, sferragliante dimostrazione di come si possano ancora rastrellare buone nuove nei cassetti. Affiorata in numerosi ambiti non ufficiali, con versioni sempre diverse e smozzicate, questo è l’esito della ricostruzione e del restauro condotti a termine da due strateghi come McDermott e Eddie Kramer, impagabile ingegnere del suono e memoria del gene hendrixiano. Bleeding Heart è l’omaggio al patrimonio blues e in particolare a uno dei patriarchi della chitarra elettrica, Elmore James, capofila di uno stile ruvido, ulceroso, che tanto ha insegnato ai suoi ideali nipotini rock.
Hear My Train A Comin’ e Red House sono due delle tappe più tipiche del pellegrinaggio hendrixiano e in questo package figurano come i brani più dilatati, rispettivamente 7’29” e 8’20”: due pietre miliari nella storia di Jimi sempre al centro dei suoi lasciti, della sua monumentale produzione. D’abitudine sono, quelle performance, da leggere e interpretare come una sorta di sentinelle, che segnalano umori e stati di forma: qui tra distorsioni, voli e bagliori solistici, c’è quel che si può ancora pretendere da canzoni stranote, autentiche password per accedere al suo mondo. Se ci si sposta invece sul terreno delle riprese, scintillante e imperiosa è la Sunshine Of Your Love dei Cream che secondo la vulgata fu escogitata e orientata da Clapton proprio come un tributo al segno e allo spirito chitarristico di Hendrix, verso cui Eric nutriva un misto di ammirazione e idolatria, in una miscela di sentimenti sorti dopo lo spaesamento seguito alla conoscenza diretta, dal vivo, di Jimi in un club londinese: un po’ come accaduto con vari pezzi altrui (su tutti All Along The Watchtower, Dylan, ribaltata sino a renderla maestosa e irriconoscibile), anche in questi 7 minuti scarsi scorre una linfa purissima, ben oltre l’istituto della cover. E se Lover Man è un interessante passo obbligato per annusare come in studio si possa materializzare un brano più di frequente officiato dal vivo, Ship Passing Through The Night è uno di quegli esempi su cui Hendrix ha più lavorato e rimuginato, senza mai sembrare completamente appagato: un pezzo sospeso, con una patina di irrisolto, qui comunque restituito in un’edizione calda e tonificata.
Sullo stato d’animo che attraversa questa e altre canzoni, viene in soccorso una delle dichiarazioni di Janie, che accompagnano Valleys Of Neptune: «Mio fratello si sentiva a casa solo quando era in studio e questo disco offre uno sguardo nel profondo del processo di registrazione, dimostrando come fosse un impareggiabile innovatore».
Utile in questa prospettiva è la piega data a un classicissimo quale Fire, ovvero uno dei parametri fondanti della vicenda hendrixiana, fin da Are You Experienced?: versione sgranata e fremente, si distingue soprattutto per i vocalizzi di Noel Redding, effettivamente devianti e insoliti.
Per terminare in bellezza, quasi un ponte ipotetico, avvisaglia di quel che poteva essere del futuro di Jimi, voilà Lullaby For The Summer: siamo in territori fusion, tra rock e jazz, con un piglio realmente personale e originalissimo, anche al cospetto della tipica sintassi hendrixiana. È un fronte altrimenti poco esplorato, 4 minuti strumentali che sembrano anche aver potuto influenzare il percorso imminente di altri chitarristi: ad esempio il Jeff Beck degli anni 70 sopra a tutti.

Ecco allora la domanda che molti si sono posti e su cui si sono sbizzarriti biografi, studiosi, semplici fan: dove stava andando Hendrix? Cosa aveva in animo di suonare? Come avrebbe proceduto nella composizione?
Abbiamo molti indizi, in tal senso, magari contraddittori, ma tra gli stralci di alcune interviste, i reportage giornalistici dell’epoca e un puzzle di testimonianze postume proviamo a delineare un quadro in proposito.
Nel settembre 1969, per esempio, a un giornalista inglese, Ritchie Yorke, Jimi rilascia un’intervista che chiarisce il mood che sta attraversando: «D’ora in poi ho intenzione di usare gente sempre diversa per le mie session: i nomi non hanno importanza, non vi direbbero nulla comunque. Quello che mi rode è che esiste gente che fa la fame, musicisti due volte più bravi dei grossi nomi. Voglio cercare di fare qualcosa in questo senso. Il tuo nome non conta un accidente: è il tuo talento, è il feeling che conta… Non posso prendermi un anno di vacanza, anche se sono molto stanco. Perdo molto tempo cercando di staccarmi dalle cose, ma non posso smettere di pensare alla musica. È nella mia mente in ogni secondo del giorno. Non posso combatterla, mi ci adatto. I critici mi danno davvero il mal di pancia. È come sparare a un disco volante che cerca di atterrare, senza dare agli occupanti la possibilità di presentarsi. Non c’è bisogno di etichette. Basta gustare quel che accade».
Intorno a lui ruotava tutto vorticosamente, come e più della sua musica. Si sa per certo di attriti con il manager Michael Jeffery, sulle strategie, ma anche sui bilanci, con fiumi di denaro che finivano in strani conti alle Bahamas. E poi nel suo entourage, così attento a sfruttare quel filone commerciale irripetibile, con una serie di concerti a raffica pagati cifre record (125 mila dollari il 20 giugno 1969, per il festival californiano Newport ‘69), si guarda con sospetto e preoccupazione all’avvicinamento di Jimi alle Black Panthers, confermata da contatti, esplicite prese di posizione per la causa, esibizioni di beneficenza, adesione e raccolta fondi. Un percorso interrotto sul nascere e di cui non si potevano immaginare gli sviluppi, esattamente come l’iniziale flirt con l’universo del jazz: riguardo le Pantere Nere si sa che gli organi di controllo e i servizi segreti americani avevano “attenzionato” Hendrix, che appare in diversi rapporti, parte dei quali sono stati portati alla luce, rimanendone altri secretati. A un tratto, leggendo bene la sua biografia, si sente aria di cospirazione, la volontà di incastrarlo, di screditarlo agli occhi del grande pubblico e in particolare della comunità nera da cui si sente attratto da più punti di vista: a un certo punto l’appartenenza è un richiamo forte e in un concerto ad Harlem, nel cuore della New York nera, quando ancora il quartiere era di fatto precluso ai bianchi, di là da venire speculazioni edilizie e immobiliari, Jimi chiuse suonando a tutto volume Voodoo Chile, per indicare quella sua bandiera personale come l’inno di Harlem.  
Quanto al jazz, invece, non ci fu tempo e modo per rendere più organico quel tipo di reciproco rispetto, certi “appostamenti” che avvicinarono e condussero Hendrix a un passo dal suonare e dal concretizzare progetti con Miles Davis, e altre anime belle di quel mondo. Voleva che la sua storia potesse «procedere verso un nuovo livello spirituale tramite la musica»: e dunque cambiare, cercare altre sponde era una necessità.
Ma più in generale Jimi aveva deciso di cambiare strada: si sentiva sfibrato, esausto e sicuramente anche sfruttato per fini economici che andavano regolarmente a vantaggio di altri: le sue finanze erano smunte, quelle di Jeffery e della pletora di furbastri che lo avevano circondato, prosperavano. Non poteva non accorgersene e una chiave per uscirne era anche spezzare le catene di quella che soffriva come una specie di routine e lo rendeva inquieto, sempre più insofferente: l’infelicità gli mordeva i pensieri e la depressione si faceva sentire con una discreta insistenza.
Per reagire esistevano vari modi: da una parte c’era da valutare il prestigio e l’autorevolezza della Band Of Gypsys, con un pezzo su tutti, a proiettare sul pubblico una certa visione del mondo: quella Machine Gun che Jimi aveva messo a punto con Buddy Miles per denunciare l’oppressione della polizia e, a spettro più ampio, l’intervento e la guerra in VietNam. Fu quello il modo per entrare nel nuovo decennio, suonando allo stremo delle forze, attaccando fino all’ultimo respiro, nei concerti di capodanno del Fillmore East, poi divenuti lp: Band Of Gypsys, appunto.
La traiettoria umana e artistica di Hendrix si sarebbe spezzata di lì a poco e di speculazioni ne sarebbero state ordite in quantità, insieme a tutte le congetture del caso: su quale sarebbe stato, ad esempio, il suo futuro. Che oggi, forse, si gode dalle valli di Nettuno. Sta di fatto che l’industria non ha perso occasione di vestire i più diversi prodotti con l’aura e la memoria del Mito: e dunque insieme a queste prospettive nel campo del nuovo, il mercato si prepara a essere invaso da riedizioni speciali di quattro titoli. La scaletta dei brani rimane invariata e dunque troveremo le scalette d’origine in Are You Experienced?, Axis: Bold As Love, Electric Ladyland e First Rays Of The New Rising Sun a cui, per ingolosire ulteriormente il popolo hendrixiano e non, verrà aggiunto un dvd, ovviamente diverso per ogni titolo. Trattasi di quattro brevi filmati, documentari diretti e compilati da Bob Smeaton, che si era occupato già di consimili, recenti operazioni con e per i Beatles. Qualche frammento rapido di Hendrix dal vivo lascia il posto a interventi e testimonianze di Eddie Kramer, il deus ex machina del caso, e poi di Chas Chandler, Noel Redding, Mitch Mitchell e Billy Cox i quali ribadiscono cose spesso già viste nei making di quei dischi, sul “dietro le quinte” del suono e della cosmogonia musicale di Hendrix: interessante solo per chi non ne avesse già letto o sentito dire. E comunque, per chi è un po’ ubriaco, addicted di materia hendrixiana, è sempre festa quando arriva qualcosa del nostro: insomma, va bene, va bene così.

Tra i vari fermenti e annunci che introducono al settembre 2010, quando cade il quarantennale della scomparsa, non bisogna dimenticare di citare un altro capitolo che si profila all’orizzonte: il disco che da tempo si dice dovrebbe uscire, con le session ritrovate tra Hendrix e Stephen Stills. Correva il 1970 e nel primo album solista di Stephen Stills compare un brano, Old Times, Good Times, che segnala l’incontro con Jimi in sala di registrazione. Il ritrovamento di quei nastri con tutto il contorno di inediti, miracoloso e improvviso, risale, almeno per la diffusione della notizia, al luglio del 2008 e da allora il progetto risulta dormiente: però siamo sicuri che qualcosa accadrà nei prossimi mesi. Chi ha ascoltato, magari nei frammenti giunti attraverso i bootleg, parla di ritagli e lunghe sedute di improvvisazione che è difficile poter definire canzoni: ma per ingolosirci basta molto meno… O no?

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