07/06/2007

OLTRE LA LEGGENDA

Bob Marley

Il calendario dice che il prossimo 11 maggio ricorrerà il ventennale della morte di Bob Marley. Notizie fresche di stampa affermano che la Island si prepara a ristamparne il catalogo in versione rimasterizzata con alcune bonus track: a quanto pare il primo album ad essere ripubblicato sarà Live At The Lyceum. Ma, al di là di qualsiasi motivo d’attualità,negli ultimi 20 anni Bob Marley non ha mai smesso di essere una leggenda. La sua storia umana ha appassionato milioni di fan. La sua musica esercita ancora un fascino del tutto particolare. In questa cover story abbiamo cercato di raccontare Marley in modo più completo possibile, evitando di affidarci a gossip e leggende. Ne raccontiamo anche l’epocale concerto a San Siro, la famiglia e l’eredità. E visto che Marley è praticamente sinonimo di reggae, parliamo della musica giamaicana per eccellenza, della sua evoluzione, dei dischi più importanti, dell’impatto che continua ad avere in Italia e nel mondo.

Sono trascorsi vent’anni dalla morte di colui che è stato definito la “prima e più grande rockstar del Terzo Mondo” e la figura di Bob Marley, nel corso del tempo, si è ancor più ingigantita, assumendo sempre più contorni mitologici e la sua vicenda, artistica e umana, si è colorata di sfumature leggendarie.

Anche presso le generazioni più giovani la sua faccia e il suo nome sono ancora oggi un’icona sociopolitica al pari di quella di Che Guevara, il suo messaggio ha assunto i caratteri dell’universalità e, non ultima, la sua musica è sopravvissuta alle mode proprio in virtù del fatto che in essa coesistono tutti gli elementi di una personalità fortissima, intrisa di spiritualità e, soprattutto, armata di una coerenza inattaccabile.

Mai come per Marley si può parlare della musica come di un mezzo. Un mezzo per diffondere idee, risvegliare coscienze, propagandare una visione religiosa, diffondere un sogno, dar corpo a un’utopia. Quando si parla di Marley non si può non far riferimento alla Giamaica rurale degli anni 60, alla dottrina Rastafari, al panafricanismo, alle tragiche vicende politiche che hanno insanguinato la sua isola nei turbolenti anni 70, alla nascita e alla diffusione di un genere musicale autoctono (il reggae) che è il risultato di un’evoluzione complessa e costante di cui lo stesso Marley è stato protagonista, portavoce, ambasciatore, fautore e ispiratore.

Oggi la figura di Marley viene spesso ridotta a pochi, obsoleti stereotipi: da un lato la leggerezza di una musica che per i più superficiali tratteggia l’esatta rappresentazione di un illusorio paradiso terrestre per un turismo idiota (spiaggia, sole, mare, donne e spinelli); per altri non è altro che la mera riproposizione di un messaggio all’insegna del “peace & love” in salsa tropicalista.

Nulla di più fuorviante e semplicistico. Quella di Bob Marley è stata una delle figure più complesse e affascinanti mai emerse dalla galassia rock (nel senso più lato), un personaggio dalle mille sfaccettature e non privo di contraddizioni, che ha saputo imporsi all’attenzione planetaria non solo in virtù di una musica nuova (almeno per il grande pubblico), gradevole e ipnotica, orecchiabile e intrisa di misticismo, ma soprattutto perché tutta la sua vicenda, le sue scelte, i suoi dischi, le sue prese di posizione, sono sempre state avvalorate da una credibilità e da una coerenza che non ha eguali nella storia del rock.

Marley era prima di tutto un grande artista, un performer eccezionale, un musicista straordinario (non nel senso di virtuoso) e, nondimeno, un predicatore integerrimo, un abile comunicatore, un leader, un trascinatore di folle, un pifferaio magico attorno alla cui figura hanno gravitato personaggi spesso poco trasparenti, molte volte inetti, talora addirittura meschini.

Marley aveva un carisma tale da poter convocare una conferenza stampa per dichiarare col sorriso sulle labbra la sospensione di una tournée a causa di una nevicata improvvisa interpretata come un cattivo segno premonitore divino (il fatto è accaduto veramente nel corso del tour inglese del ‘73). Allo stesso modo poteva sfornare una canzone come Jah Live all’indomani della morte (mai accettata dai Rasta) di Hailé Selassie per confortare la sua comunità religiosa o, con ugual naturalezza, costringere i due principali antagonisti della vita politica giamaicana a stringersi la mano sul palco e promettersi pace e lealtà davanti a decine di migliaia di spettatori.

Ovunque si recasse, grazie al potere della sua musica e alla forza del suo messaggio, Marley era un ambasciatore. Ed era credibile sia come tale, sia come entertainer, senza contraddizione.

La santificazione

È pur vero che dal 1981 ad oggi si è assistito a un lento, ma costante processo di santificazione della sua figura, perpetrato con forza dalla moglie Rita e dalla nutrita famiglia dei Marley Jr. (Bob ha lasciato undici figli, avuti da sette donne diverse, e tutti legalmente riconosciuti) che nel corso del tempo ha quasi voluto ‘cancellare’ dalla memoria collettiva tutti quegli episodi che in un qualche modo ne potessero intorpidire l’immagine.

Forse non tutti sanno (o ricordano) che nel dicembre 1976 Marley fu addirittura vittima di un attentato di matrice politica dal quale uscì vivo solo miracolosamente. E che dire dei pestaggi regolarmente perpetrati dagli scagnozzi del suo entourage nei confronti dei più influenti dj radiofonici giamaicani affinché nei primi mesi del 1975 trasmettessero Natty Dread?

Nel 1995 Don Taylor, il controverso manager che seguì la carriera di Marley dal 1975 al 1980, diede alle stampe (prima di morire per tumore dopo pochi mesi) la sua versione dei fatti sulla vicenda Marley in un libro intitolato Marley And Me – So Much Things To Say: My Life As Bob Marley’s Manager e il ritratto che ne esce del grande cantante giamaicano non è certo dei più edificanti. Del resto la testimonianza di Taylor può avere un valore relativo se si considera che fu accusato di truffa dallo stesso Bob e da lui licenziato in modo burrascoso.

Parlare di Marley oggi significa anche aprire gli occhi sull’enorme influenza che ha avuto sulla coscienza collettiva della comunità musicale afroamericana, africana e perfino europea. Marley soffrì moltissimo la mancata penetrazione capillare della sua musica e del suo messaggio presso le comunità nere americane: addirittura arrivò a scrivere canzoni studiandole appositamente per far breccia sul mercato R&B statunitense. Prima con pezzi come Roots Rock Reggae, poi con Could You Be Loved, un brano che fu approntato con il benestare dei più influenti deejay neri americani. Basterà dire che su suggerimento di questi l’andatura della canzone fu letteralmente accelerata in fase di missaggio affinché il brano avesse un maggiore appeal nelle radio e nei dancefloor.

Soltanto oggi si può affermare che il messaggio e la musica di Marley siano stati parzialmente accettati dalla comunità afroamericana statunitense (anche se i messaggi, i contenuti e gli atteggiamenti propagandati dal gansta rap dimostrerebbero proprio il contrario): è solo in questo senso che si può spiegare, e può avere una qualche ragione d’esistere, un disco come Chant Down Babylon, l’orrendo pasticcio di remix e ‘duetti col morto’ uscito per la Island nel 1999 sotto la supervisione del figlio Stephen Marley (uno dei Melody Makers) e con la massiccia partecipazione del bel mondo dell’hip-hop odierno più edulcorato (da Lauryn Hill a MC Lyte, da Busta Rhymes a Erykah Badu, da Chuck D ai Lost Boyz).

Ciò che Marley non ha fatto in tempo a vedere in vita è Get Up Stand Up scelta come inno di Amnesty International, la fine dell’apartheid in Sudafrica, una campagna elettorale senza massacri in Giamaica, le lotte fratricide che tutt’ora insanguinano molti paesi africani, la sua casa/quartier generale di Kingston trasformata in una Disneyland del reggae (con tanto di ristorante etiope) dalla moglie Rita o la sua tomba/mausoleo diventata meta e oggetto di bieca speculazione turistica e molte altre cose di strettissima attualità.

Marley si considerava un messagero di Jah, un uomo con una missione. Talora la sua vitalità e la sua creatività (in vita ha pubblicato 10 album in sette anni, effettuando lunghissime tournée ogni anno, di cui almeno cinque di dimensioni planetarie!) sono state il frutto di un’attività talmente febbrile da dare quasi l’impressione che Bob fosse in qualche modo consapevole del poco tempo a sua disposizione. Ma nonostante le nefandezze legali e discografiche perpetrate dopo la sua scomparsa, ciò che più conforta è che, nella sua essenza, la figura e i contenuti chiave del messaggio arrivano ancora oggi a milioni di persone esattamente come quando era in vita.
Merito indubbio della sua musica. Immortale, universale, inattaccabile.

The Studio One Years

Gli inizi sono stentati, ma altresì precoci: nel febbraio 1962 Robert Nesta Marley, nato nelle campagne di Nine Miles vicino a St. Ann, il 6 febbraio 1945 da una fugace relazione tra una donna giamaicana di colore (Cedella Booker) e un capitano dell’esercito inglese, si presenta ai Federal Studios di Kingston dove il produttore Leslie Kong (già noto per aver prodotto un 45 giri di un giovane promettente cantante giamaicano chiamato Jimmy Cliff) gli fa registrare, accompagnato da un’orchestrina ska, due canzoni che Marley gli ha appena canticchiato, Judge Not e Do You Still Love Me?. Cinque ore dopo Robert Nesta si reincammina verso il quartiere-ghetto di Trenchtown, nel quale si è da poco trasferito con la madre, con venti sterline in tasca e due copie del suo primo 45 giri per la Beverley’s Records, la compagnia discografica di Kong. Per un errore di stampa, l’etichetta sul disco riporta il nome Robert Morley. Il disco passa quasi inosservato, ma poco dopo Kong immette sul mercato locale un altro singolo inciso nel corso della medesima seduta: anche One Cup Of Coffee uscirà in un numero limitato di copie col nome dell’autore storpiato in Bobby Martell.

Nel giro di pochi mesi Marley affina il repertorio di un complessino vocale formato con alcuni amici ‘di cortile’ sul modello dei gruppi di colore americani ascoltati alla radio. Con i preziosi consigli di amici più esperti come Desmond Dekker e Joe Higgs, nascono The Wailing Wailers. La formazione comprende cinque cantanti: Marley, Neville ‘Bunny’ Livingston, fratellastro acquisito di Bob (la madre di Marley, vedova dal 1955, proprio in questo periodo dà alla luce un figlio avuto da una relazione con il padre vedovo di Neville), Winston Hubert McIntosh, (assumerà il nome d’arte Peter Tosh), Junior Braithwaite e Beverly Kelso. Proprio Joe Higgs decide di presentare i suoi ‘protetti’ a Clement ‘Coxsone’ Dodd, uno dei produttori più noti dell’isola nonché titolare dello studio di incisione più attrezzato e prolifico, lo Studio One. Pur non particolarmente impressionato, Dodd decide di offrire loro un contratto: l’accordo prevede un’esclusiva per cinque anni e una ricompensa pari a venti sterline (da dividere in cinque) per ogni brano pubblicato.

Alcune sedute d’incisione fruttano una manciata di 45 giri nei quali i Wailers (al momento un gruppo squisitamente vocale) sono accompagnati dagli Skatalites, un ensemble di veri professionisti diretti da Ernest Ranglin ai quali talora si aggiunge anche il geniale trombonista Don Drummond. I’m Still Waiting, It Hurts To Be Alone, I Am Going Home, Do You Remember sono i primi timidissimi successi presso i sound system dell’isola. Marley inizia a farsi chiamare semplicemente Bob e, con qualche disappunto del gruppo, viene identificato da Dodd come il leader, in quanto è l’autore più prolifico e il cantante solista della maggior parte dei brani.

Già nel febbraio ‘64 Simmer Down raggiunge la vetta delle classifiche di vendita locali (venderà in totale 70mila copie, una cifra strabiliante per il ristretto mercato giamaicano) e i Wailers diventano il gruppo più popolare dell’isola. Lo stile del gruppo è una strana e affascinante mistura tra gospel, ska, twist e lente ballate doo wop in cui di volta in volta i singoli membri si alternano alla voce solista, con il controcanto degli altri. Dopo alcuni assestamenti di formazione (prima si riducono a un trio composto da Bob, Bunny e Peter, poi arriverà anche Rita Anderson, futura signora Marley) tra il ‘64 e il ‘66 vengono pubblicati moltissimi altri singoli di successo (le tracce originali riemergeranno sul mercato internazionale soltanto molti anni dopo in alcune raccolte antologiche; la più esaustiva è il doppio cd One Love At Studio One della Heartbeat).

Le composizioni di questo periodo tendono a riflettere sempre più la cruda realtà della vita nel ghetto e dei rude boys (ovvero i ragazzacci di strada del ghetto, in parte comuni delinquenti, in parte eroi, protagonisti di una vita pericolosa e spesso violenta fatta di espedienti) e il gruppo sembra abbandonare progressivamente le tematiche reputate eccessivamente frivole in favore di brani dai toni più incisivi e dal linguaggio più graffiante. Il buon successo di brani come Rude Boy, Rule Dem Rudie e Jailhouse contribuisce a renderli i portavoce musicali delle istanze del ghetto e del ruvido ska giamaicano che si sta ormai affermando nell’isola.

Verso la fine del 1965, l’enorme successo di One Love, un brano intriso dei principi della filosofia Rasta (e musicalmente largamente ispirato a People Get Ready di Curtis Mayfield) e di Love And Affection (una delle prime incisioni del gruppo con un registratore a due piste) spingono Dodd a pubblicare The Wailing Wailers, un album che raccoglie dodici tra i maggiori loro successi e che suggella un periodo d’oro.

Dopo aver sposato Rita nel 1966, Bob emigra a Wilmington, Stati Uniti, una cittadina industriale del Delaware dove si è trasferita la madre. Per otto mesi Bob lavora alla catena di montaggio di uno stabilimento della Chrysler mettendo da parte una discreta somma di denaro che al suo ritorno decide di investire aprendo un negozio di dischi e fondando l’etichetta Wail’N’Soul’M. L’assenza di Marley (che comunque è costantemente tenuto informato sull’attività del gruppo) viene tenuta nascosta al pubblico e il nome dei Wailers continua a circolare con successo grazie a vari 45 in cui le redini del gruppo sono affidate di volta in volta a Tosh, a Wailer o al temporaneo sostituto di Bob, Constantine ‘Vision’ Walker.

Dal rocksteady al reggae

Al suo rientro a Kingston Marley si trova immerso in un’atmosfera di fervore mistico fomentato dalla visita di Hailé Selassie e si avvicina al gruppo Rastafari delle Dodici Tribù d’Israele. Il Rastafarianesimo è un credo religioso che in questo periodo sta facendo proseliti in Giamaica: si fonda sulle teorie del poeta e predicatore Marcus Garvey il quale negli anni Venti, partendo dallo studio della Bibbia, profetizzò l’avvento in Africa di un grande leader nero capace di ricondurre nella terra dei propri avi tutti i discendenti degli schiavi africani sparsi per il mondo. Il Messia (Jah) venne in seguito identificato dai seguaci di Garvey nell’imperatore d’Etiopia Haile Selassie I, discendente della Tribù di Giuda, il cui nome prima dell’incoronazione era Ras Tafari Makonnen.

È questo un momento di grandi cambiamenti: anche lo scanzonato ritmo ska che per anni aveva imperversato nell’isola si è ormai tramutato in una nuova forma ritmica più tagliente e cadenzata denominata rocksteady. Lo scarso successo commerciale dei singoli approntati per la Wail’N’Soul’M mette subito in crisi la neonata etichetta e i continui problemi con la giustizia (vari arresti si susseguono per possesso di marijuana e altri futili motivi) sembrano minare irreversibilmente l’attività del gruppo. Conosciuto il produttore Danny Sims, Bob firma per la sua Cayman Music nella speranza di vedersi almeno garantite le royalties dei suoi brani, tuttavia ciò che accade discograficamente in questo periodo rimane tutt’oggi estremamente confuso e oggetto di controversia.

Pare che Marley (con il saltuario aiuto degli altri Wailers) abbia registrato per la JAD Records (di cui Sims è co-proprietario) una gran quantità di brani tra il 1968 e il 1972. Oggi Sims sostiene addirittura che nei suoi archivi giacciano più di 200 canzoni inedite; in realtà tali registrazioni sembrano essere solo semplici provini e spogli demotape. Dopo la morte di Marley la JAD Records pubblicherà diverse raccolte di brani incisi dai Wailers con accompagnamenti strumentali aggiunti in seguito. Sims sostiene che fin dal principio aveva stabilito con Marley che quelle registrazioni, effettuate con pochi mezzi a Kingston, sarebbero state completate negli Usa con postproduzioni apportate da session men statunitensi; al contrario gli eredi di Marley sostengono che Sims abbia biecamente sfruttato commercialmente la scomparsa di Marley.

Effettivamente le incisioni JAD sono talmente sfigurate da risultare addirittura irritanti alle orecchie degli appassionati, infarcite di ridicole batterie elettroniche e appesantite da goffi arrangiamenti disco-dance. Alcuni brani di questo periodo sono rintracciabili nei dischi postumi Chances Are (1981), Bob, Peter, Bunny & Rita (1985) e Soul Almighty – The Formative Years Vol. 1 (1996). Ascoltando il materiale JAD pare quasi che, a partire dal 1968, Sims avesse cercato di indurre Marley ad abbandonare, nelle nuove canzoni, i temi della filosofia Rasta a favore di argomenti più leggeri, adottando uno stile doo wop e R&B da Top 40 americana.

In questi anni Marley sembra firmare contratti discografici con chiunque: ancora con il produttore Leslie Kong gli Wailers incidono una manciata di 45 giri pubblicati dall’etichetta Beverley’s di Kong che verranno più volte ristampati senza il consenso degli Wailers sotto vari titoli (The Best Of Bob Marley & The Wailers, Shake Down, etc.) e che hanno il pregio indiscusso di testimoniare il momento del delicato passaggio dal rocksteady al reggae nella musica di Marley.

Dopo un nuovo breve soggiorno negli Usa, Bob, Peter, Bunny e Rita decidono di tentare un decisivo e radicale salto di qualità affidandosi a Lee ‘Scratch’ Perry, un genialoide produttore che l’anno prima con The Return Of Django, uno strumentale degli Upsetters, aveva scalato le classifiche inglesi e gettato le basi del reggae, che di lì a poco avrebbe soppiantato il rocksteady.

Perry mette gli Wailers duramente al lavoro, consigliando a Marley un orientamento musicale e vocale più spiccatamente rock e affiancando loro la sezione ritmica degli Upsetters formata dai fratelli Carlton (batteria) e Aston ‘Familyman’ Barrett (basso). Il gruppo comincia a sfornare un successo dopo l’altro con brani tutt’oggi reputati da molti uno dei momenti più importanti dell’evoluzione della musica giamaicana (Duppy Conqueror, Soul Rebel, It’s Alright, 400 Years, Soul Almighty i primi successi).

Nell’estate del 1970 Perry assembla il primo album a nome Bob Marley & The Wailers per la sua Upsetter Records intitolandolo Soul Rebels e riuscendo perfino ad ottenere un contratto di distribuzione inglese con la Trojan Records. Il disco vende benissimo in patria e molto al di sopra delle aspettative anche in Inghilterra dove, nonostante la scarsissima programmazione radiofonica, ottiene riscontri entusiastici presso le comunità di immigrati caraibici. Sempre nel corso del 1970 vengono pubblicati a nome The Bob Marley Singers un paio di 45 giri dai contenuti di ispirazione biblica che saranno poi ristampati negli anni 80 in alcune raccolte curate dalla Trojan (In The Beginning, The Early Years 1969-1973) venendo spesso erroneamente accreditati alle produzioni di Lee Perry.

Incoraggiato dallo straordinario successo di Soul Rebels, Perry compila immediatamente un’altra raccolta di brani scelti tra l’imponente quantità di registrazioni che i Wailers stanno realizzando. Soul Revolution è, come la precedente, una vincente raccolta di brani che immortalano un’epoca fondamentale del reggae nonché un particolare stato di grazia compositivo di Marley.

Tra il 1970 e il 1971 Bob Marley & The Wailers producono una mole enorme di materiale (ora disponibile nella serie di cofanetti The Complete Bob Marley & The Wailers 1967-1972) tra cui il primo album della storia interamente dub Soul Revolution II (contiene gli stessi brani di Soul Revolution, ma sotto forma di strumentali remissati da Perry in versione dub). Parallelamente esce anche il primo singolo per la Tuff Gong (la nuova etichetta degli Wailers) Trenchtown Rock, che rimarrà in vetta alle classifiche giamaicane dei 45 giri per ben cinque mesi, consentendo al gruppo di continuare a pubblicare numerosi altri singoli.

È di questo periodo anche la collaborazione con Johnny Nash che incide alcune canzoni di Bob nel suo nuovo album I Can See Clearly Now. Durante una sfortunata permanenza a Londra Sims fa incidere agli Wailers alcuni brani per la CBS, da cui viene tratto un 45 giri, Reggae On Broadway, che per la totale mancanza di promozione viene completamente ignorato da pubblico e critica.

Marley Superstar

L’incontro dei Wailers con il boss della Island Records Chris Blackwell è ormai leggendario: Blackwell offre loro quattromila sterline di anticipo per tornare in Giamaica e incidere un lp. Quando Marley torna a Londra per presentare a Blackwell i nastri di Catch A Fire trova ad attenderlo una questione spinosa: sia Sims che la CBS reclamano i propri diritti su Marley in virtù di contratti precedentemente stipulati. Blackwell ha il suo bel da fare per trovare un accordo che svincoli Marley e il resto del gruppo: alla fine della controversia Sims viene liquidato con 5mila sterline e la CBS con 9mila dollari più la garanzia di incassare il due per cento sugli utili dei primi sei album. Anche se, discograficamente, tutto ciò che Marley farà da qui in poi sarà di proprietà della Island (e della Tuff Gong), la compagnia editoriale di Sims (Cayman Music) continuerà a beneficiare di percentuali sui profitti e a far valere i propri diritti sulla produzione di Marley per diversi anni.

Ciò che accade dal 1973 in poi è ampiamente sotto i riflettori: l’abilità di Blackwell nell’imporre gli Wailers come the next big thing della scena rock e lo straordinario livello della produzione di Marley in questi anni è tale da imporlo fin da subito, ma sempre con crescenti riscontri prima sul mercato inglese e, dal 1975 in poi, in tutto il mondo.

Catch A Fire è folgorante: un disco in cui convivono canzoni di grandissimo impatto (Concrete Jungle, Kinky Reggae, Stir It Up) e un sound che mai si era sentito prima. L’album (non amatissimo da Marley e dagli altri Wailers, perché imbastardito dalla patina troppo ‘psichedelic rock’ voluta da Blackwell) si rivela in realtà un lasciapassare perfetto per far breccia sul mercato bianco. Il successivo Burnin’, registrato e pubblicato a pochissimi mesi di distanza, ha per contro un suono più intransigente. Oggi si direbbe più roots. Un disco più radicale che canzoni come Burnin’ And Lootin’ e, soprattutto, Get Up Stand Up (scritta a quattro mani da Marley con Tosh) e I Shot The Sheriff contribuiscono a rendere ancora più spigoloso per le drastiche invettive contro il sistema. Proprio I Shot The Sheriff viene notata da Eric Clapton che ne incide una versione di successo (inclusa in 461 Ocean Boulevard), portando la musica di Marley al grande pubblico internazionale.

Scatta la reggaemania: gente come Paul Simon e perfino Paul McCartney si recano ad incidere in Giamaica e il fenomeno Marley comincia a farsi strada non solo tra gli addetti ai lavori. Il repentino e contemporaneo abbandono di Peter Tosh e Bunny Wailer (entrambi ormai schiacciati dalla figura del leader e desiderosi di ritagliarsi appropriati spazi solisti) è amichevole, ma mette Marley in una certa difficoltà. Per le incisioni di Natty Dread deve riorganizzare completamente i Wailers e reinventarsi un suono. Assoldate le I-Threes (il trio di coriste di cui fa parte anche Rita) e accaparratosi i servigi di un giovane promettente chitarrista di colore come Al Anderson, Marley sforna un disco scioccante: Lively Up Yourself, Rebel Music, Revolution, Them Belly Full e una prima versione di No Woman No Cry mettono a nudo tutto il talento di un artista deciso a giocare al rilancio e sempre più in grado di calare le sue carte migliori.

Oggi unanimemente reputato una pietra miliare del reggae, Natty Dread sarebbe forse rimasto un disco ad esclusivo uso e consumo degli appassionati se, nell’estate del 1975, Chris Blackwell non avesse avuto un altro dei suoi colpi di genio: la registrazione e l’immediata pubblicazione di Wailers Live!, un concerto al Lyceum di Londra nel quale tutta la forza di Marley e del suo gruppo si sprigiona con prepotenza. Sono le nuove versioni dal vivo di Trenchtown Rock, Lively Up Yourself, I Shot The Sheriff a imporsi come dei superclassici, per non parlare del rallentamento che subisce No Woman No Cry (che in questa versione diventerà l’inno che tutti conoscono) o della debordante energia profusa in una Get Up Stand Up da brividi.

Il successivo album in studio rappresentò per Marley la possibilità di accaparrarsi i favori di un nuovo pubblico allargatosi anche alla media borghesia bianca. Rispetto ai suoi predecessori in studio, lo spirito generale di Rastaman Vibration appare come più addolcito e meno battagliero. Ai fan della prima ora procura una delusione per la relativa perdita d’energia ma riascoltato a distanza di vent’anni mostra chiaramente le prime avvisaglie di un’evoluzione verso le sonorità più morbide e avvolgenti che porteranno al capolavoro Exodus. Fortemente caratterizzato da una sempre più esplicita devozione a Rastafari e da prese di posizione piuttosto critiche nei confronti della realtà giamaicana (Rat Race, ai tempi censurata dalle radio locali per il suo celebre verso “i Rasta non lavorano per la CIA”), nel suo complesso Rastaman Vibration risulta qualitativamente altalenante.

Ormai Marley è una personalità estremamente influente sulla vita sociale e politica giamaicana e con una canzone come Rat Race si inimica alcune delle fazioni politiche in lotta per le elezioni nazionali. La campagna elettorale è violentissima e lo stesso Marley rimane vittima di un attentato alla vigilia della sua partecipazione a un concerto di riappacificazione.

La nuova condizione di esiliato a Londra conseguente all’attentato sembra indurre Marley in un vero e proprio vortice creativo. Rintanatosi in incognito agli Island Studios, tra febbraio e maggio del ‘77 concepisce e registra canzoni che forniranno materiale per ben due album. Da molti reputato il punto più alto della carriera di Marley solo per la gran quantità di singoli di successo in esso contenuto, Exodus è davvero un album straordinario sotto diversi punti di vista, non ultimo la creazione di un suono perfetto sia in termini di radiofonicità, sia di orecchiabilità anche presso un pubblico cui il reggae non è famigliare.

Alla base di tutto il concetto di esodo: sia quello cui Marley è costretto dalla natia Giamaica, sia il cosiddetto Movimento del popolo di Jah che dovrebbe riportare in Africa di tutti i discendenti degli africani sparsi per il mondo come schiavi. Dalla prima all’ultima nota il disco è pervaso da un’unitarietà, da una concentrazione e da una tensione emotiva continue; anche il missaggio finale contribuisce a dare questa impressione concatenando volutamente i brani in un’unica sequenza interrotta solo dall’inevitabile cambio di facciata. Una sequenza di canzoni memorabile: Natural Mystic, la stessa Exodus, Jamming, Waiting In Vain, One Love/People Get Ready, solo per menzionare le più note.

Perfettamente equilibrato nei diversi elementi che lo costituiscono (impegno politico, misticismo, amore, gioiosità, religiosità), Exodus è l’album-manifesto di Marley di fronte al mondo e la sua conquista definitiva di esso con un linguaggio musicale alla portata di tutti. Concepito nel corso delle medesime session, Kaya, a ben guardare, non ha certamente la tensione e la profondità del suo predecessore, ma è da sfatare una volta per tutte l’idea che si tratti di un disco di scarti. Semplicemente ci presenta un Marley più vicino alle ‘vibrazioni positive’ della seconda parte di Exodus, che non all’enigmatico e magico misticismo che caratterizzavano la prima facciata di quel capolavoro. È un disco imperniato essenzialmente sui temi dell’amore (Is This Love) e contraddistinto da un continuo oscillare tra vibrazioni positive e oscuri presagi.

Il ritorno in Giamaica avviene nell’aprile ‘78 in occasione del celebre One Love Concert dove la partecipazione di Marley fa da elemento catalizzatore alla celebre stretta di mano dei due leader politici Seaga e Manley, fino a quel momento divisi da un sanguinoso antagonismo. Marley è una superstar in tutto il mondo, i suoi concerti attirano folle oceaniche e buona testimonianza (benché inferiore al precedente Live!) dell’atmosfera rovente dei suoi show è il doppio dal vivo Babylon By Bus, registrato nel corso del tour mondiale del ‘78, nell’occasione del quale si fa promotore e testimonial di numerose campagne benefiche, tra cui l’Amandla Concert a favore della liberazione di Nelson Mandela (dieci anni prima del Mandela Day!) e diverse iniziative dell’ONU. Il primo viaggio africano affrontato nell’agosto ‘78, seppur breve, scuoterà profondamente la sensibilità di Bob, e avrà forti ripercussioni sui suoi lavori futuri.

Concepito come la prima parte di una trilogia di album da completarsi in tre anni, Survival è anche il primo disco interamente approntato ai nuovissimi Tuff Gong Studios fatti costruire al 56 di Hope Road (l’ex casa di Blackwell, ora diventato il quartier generale delle attività di Marley) affinché Bob potesse lavorare in assoluta tranquillità, attorniato da persone fidate in uno studio altamente professionale di sua proprietà.

Sotto tutti i punti di vista Survival è l’album più complesso, completo e unitario mai realizzato da Marley; il suono è apparentemente più giamaicano, ma in realtà si tratta di un’incisione curatissima, pressoché perfetta negli arrangiamenti e nella calibratura di sonorità che pur appartenendo al reggae, risentono anche di forti echi africani. A tutt’oggi una delle più importanti opere dell’universo reggae anche in virtù del fatto che, per la prima volta, Marley sembra estraniarsi quasi completamente dalla questione giamaicana, rivolgendo la propria attenzione a quella terra dei padri che in questi anni sta vivendo un delicato momento di passaggio storico. La nascita di molti nuovi stati africani in apparenza finalmente liberi dalle dominazioni coloniali è vissuta dalla comunità Rasta, e da Marley in particolare, come un primo vero riscatto del popolo nero e una primo importante passo verso la creazione di un continente libero. A tal proposito la vicenda dell’ex Rhodesia, colonia inglese dilaniata da conflitti interni ma in procinto di diventare il libero Zimbabwe, viene celebrata come un esempio da seguire per un nuovo panafricanismo.

Survival mostra un Marley combattivo e tenace: lotta con parole e musica contro i suoi nemici personali e politici, contro la fame e le asprezze della vita delle popolazioni più povere, contro il malefico sistema capitalistico e, ancora inconsapevolemente, contro la malattia che, proprio in questo periodo, comincia lentamente a consumarlo.

Un secondo rocambolesco viaggio in Africa viene approntato quando Bob Marley & The Wailers sono invitati per le celebrazioni dell’indipendenza dello Zimbabwe, di poche settimane precedenti alla pubblicazione di Uprising. Secondo capitolo di una trilogia iniziata con Survival, Uprising è ancora un album dai toni decisamente seri. Sarà anche l’ultimo che Bob vedrà pubblicato. Si riscontra con facilità una drammaticità latente in tutte le dieci canzoni che lo compongono: la voce appare più stanca che in precedenza e un velato senso di aspirazione alla redenzione, alla sublimazione soprannaturale (Bob continuerà a rifiutare l’idea della morte, convinto dell’immortalità dello spirito) sembra affiorare qua e là sotto forma di una triste rassegnazione cui Bob non aveva abituato i suoi estimatori.

Diverse vicissitudini sembra abbiano accompagnato la nascita di questo disco: la prima versione consegnatagli non soddisfò per nulla Blackwell, il quale si convinse a pubblicarlo solo dopo che fu ‘ammorbidito’ con le aggiunte di Could You Be Loved e Redemption Song. Qualcuno sostiene che inizialmente Bob avrebbe addirittura inciso tutte le canzoni di Uprising in completa solitudine con il solo accompagnamento della chitarra acustica; in questa forma rimarrà soltanto Redemption Song (che però è stata aggiunta solo all’ultimo momento). Resta una grande curiosità nei confronti di una simile incisione che, qualora esistesse veramente, varrebbe indubbiamente una pubblicazione postuma.

L’Uprising World Tour fa tappa per la prima volta anche in Italia e proprio allo stadio San Siro di Milano si infrange ogni record di partecipazione di pubblico a uno show di Marley con circa 100mila presenze. Lo show è entusiasmante e spesso riportato dalle cronache come l’apice della sua carriera, ma seppur dotato di una grande forza fisica e interiore, il Marley visto a San Siro il 27 giugno 1980 è già una persona gravemente malata.

La malattia

Le prime avvisaglie della malattia si hanno nell’estate del 1978 quando una vecchia ferita al piede destro riportata nel corso di una partita di calcio (assieme alla musica, alle donne e alla marijuana una delle più grandi passioni di Marley) si infetta costringendolo a un periodo di riposo forzato. Il rifiuto dell’amputazione dell’alluce ferito (i più intransigenti seguaci della dottrina Rasta non consentono che venga intaccata la loro l’integrità corporea, rifiutando quindi di sottoporsi a interventi chirurgici, ma anche di tagliarsi barba e capelli, da cui i caratteristici dreadlocks) è secondo molti la causa principale del diffondersi delle cellule cancerose nell’organismo di Marley. Dopo due anni di estenuante lavoro sia in sala d’incisione (Survival, Uprising e il postumo Confrontation i dischi concepiti e realizzati in questo arco temporale) sia in tournée (due tour che hanno lambito ogni continente del globo, Africa e Australia incluse), il fisico di Marley collassa. Succede il 21 settembre 1980 nel Central Park di New York: i medici americani diagnosticano una metastasi estesa a cervello e polmoni e gli danno poche settimane di vita. La notizia viene a lungo nascosta ai media e l’entourage di Marley assolda addirittura un ufficio stampa affinché i giornalisti vengano depistati sulle reali condizioni di salute del cantante. Tutti gli impegni vengono annullati, compreso il tour americano in corso e un’altra tournée primaverile prevista con Stevie Wonder, grande estimatore di Marley (come testimonia anche la sua Master Blaster) e deciso ad aiutarlo a sfondare presso il pubblico di colore. Il mistero si dissolve quando un intraprendente paparazzo lo scova mentre passeggia tra le nevi di uno sperduto paesino della Baviera: Marley è in cura presso la clinica di un anziano dottore (un ex ufficiale nazista) che accetta solo casi definiti inguaribili dalla medicina tradizionale e le cui cure e trattamenti per il cancro non sono riconosciuti dalla medicina ufficiale. Una volta resa di pubblico dominio la gravità della malattia, le notizie su Marley trapelano col contagocce, le poche fotografie rubate mostrano l’agghiacciante decadimento fisico del cantante che perde fino a 40 chili di peso, oltre ai caratteristici dreadlocks. E’ un lento calvario. L’11 maggio 1981, alle 11:30, Robert Nesta Marley muore al Cedars Of Lebanon Hospital di Miami. L’aereo che il giorno prima lo stava riportando a casa, nella natia odiata/amata Giamaica fa scalo a Miami, ma Bob non è in grado di proseguire il viaggio. Le sue condizioni sono critiche e il cantante, assistito dalla moglie e dalla madre, si spegne dopo alcune ore di agonia. Il giorno dopo le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo danno grande risalto alla notizia della scomparsa del “trentaseienne re del reggae”, “la voce dei diseredati”. La RAI interrompe addirittura le trasmissioni pomeridiane per trasmettere un ampio stralcio di Live At The Rainbow, il più bel concerto di Marley di cui sia oggi disponibile commercialmente una documentazione filmata. La Giamaica si ferma per lutto nazionale; vengono indetti i funerali di stato (poco prima della morte Marley era stato insignito di una prestigiosa onorificenza governativa per meriti economici e culturali). Alla cerimonia funebre, celebrata alla National Arena di Kingston dall’arciverscovo della Chiesa Ortodossa Etiope, intervengono personalità politiche, religiose e dello spettacolo. Il feretro di Marley viene portato attraverso l’isola in corteo tra due ali di folla commossa e tumulato in un mausoleo fatto costruire appositamente a Nine Miles, vicino a St. Ann’s Bay, a pochi passi dalla baracca in cui Marley nacque trentasei anni prima.

Marley dopo Marley

Da quel tristissimo 11 maggio 1981 è successo di tutto: interminabili beghe legali, alcune pubblicazioni postume di un certo rilievo (moltissime altre di puro sciacallaggio discografico), diverse morti violente sospette (nell’87 l’assassinio di Peter Tosh e del batterista dei Wailers Carlton Barrett, e in tempi più recenti quello di Constantine Walker che militò negli Wailers per un breve periodo nella seconda metà degli anni 60), il basso profilo mantenuto dal fratellastro Bunny Wailer (nonostante abbia pubblicato a suo nome dei veri e propri capolavori e sia sempre stato acclamato dalla critica come l’unico erede spirituale di Bob), il successo di Ziggy Marley & The Melody Makers, le carnevalate organizzate dalla Famiglia Marley ogni qualvolta vi sia il pretesto di un anniversario o di una celebrazione. Tra i dischi postumi di un cero rilievo va senza dubbio ricordato Confrontation, un bel disco che non sfigura affatto accanto al resto della di-scografia, offrendo la possibilità di accedere ad alcune perle nascoste negli archivi, a un paio di canzoni pubblicate precedentemente solo su rari singoli giamaicani e anche ad almeno una canzone della quale difficilmente Marley avrebbe acconsentito la pubblicazione. L’album arriva nei negozi solo nel 1983, ma Marley già ne aveva parlato in vita come il terzo capitolo della trilogia iniziata con Survival. Evidentemente è un disco incompleto, ma di ottimo livello (Buffalo Soldier diventerà l’ennesimo hit). Non si può tacere di Legend, una raccolta dei maggiori successi del periodo Island pubblicata nel 1984 che a tutt’oggi è uno dei tre dischi più venduti della storia sul mercato europeo, quello che in gergo discografico si dice un eternal seller, un album che continua imperterrito a vendere regolarmente anche ad oltre sedici anni dalla sua pubblicazione. Non stessa fortuna hanno avuto Rebel Music (una raccolta dell’86 con brani dai contenuti più politicizzati) e Natural Mystic, ideale seguito di Legend uscito nel ‘97. Questa raccolta è riuscita a mandare ancora in classifica Keep On Moving, un brano completamente risuonato in chiave dance che dell’originale conserva solo la traccia vocale di Bob. Svariate operazioni analoghe sono state perpetrate negli anni ad opera di etichette aventi diritti sulla produzione del periodo JAD, e così, periodicamente, nel corso degli anni 90 si riaffacciano in classifiche riedizioni in chiave dance curate da vari deejay di brani come Sun Is Shining, What Goes Around Comes Around e altri. Di tutt’altro spessore Songs Of Freedom, strepitoso box set in 4 cd che abbraccia tutta la carriera di Marley offrendo numerosi inediti e brani rari. Completa il quadro delle pubblicazioni postume di maggior rilievo Talking Blues, bella raccolta con brani inediti dal vivo e outtake di studio risalenti al periodo 1973/75.

L’eredità

Dopo una lunga diatriba legale, nel 1982 Rita assume la direzione della Tuff Gong; nello stesso periodo la madre di Bob Cedella Booker si autoproclama nel corso di un’intervista “regina madre del reggae”, poi pubblica un dimenticabile 45 giri intitolato Stay Alive. Intanto gli Wailers vengono liquidati individualmente dall’ex avvocato di Bob (tale David Steinberg, ora legale di Rita) con assegni variabili tra i 18 e i 42mila dollari. Accettando, i singoli membri del gruppo si impegnano a rinunciare a qualsiasi recriminazione futura sui diritti delle incisioni o sul patrimonio dell’eredità in genere. Da allora i Wailers non vedranno più un soldo e dopo un paio di opachi album (uno dei quali, I.D., vincerà però un Grammy nel 1989; da ricordare anche una collaborazione col reggaeman africano Alpha Blondy) si perderanno nel mero revival continuando a esibirsi nel circuito concertistico minore. Nel 1985 Danny Sims cita in tribunale l’Eredità Marley (rappresentata da Rita e ammontante a circa 30 milioni di dollari) per il risarcimento dei proventi non corrisposti alla Cayman Music tra il 1973 e il 1976 per i diritti di alcune canzoni. Sims sostiene che Bob non rispettò i termini del contratto che lo legavano a lui intestando molte delle proprie canzoni di quel periodo alla moglie, a pseudonimi o ad amici del ghetto come Vincent Ford, Hugh Peart, Leghorn Cogil, Alan Cole e Willy San Francisco (è questo il caso di brani come, ad esempio, No Woman No Cry, Rebel Music, Natty Dread, Positive Vibration, Them Belly Full, Roots, Rock, Reggae, Crazy Baldhead e altre). Nel corso del procedimento giudiziario che ne segue Rita (accusata di illecito anche dai Wailers e da altri ex collaboratori del marito) è anche accusata di falso e frode (viene appurato che ha falsificato la firma del marito in molti documenti) e solo nel 1987 la controversia giunge al termine consentendole di rientrare in possesso dei beni e delle società facenti parte dell’Eredità in qualità di amministratrice unica. Mentre i figli avuti da Rita (i componenti di Ziggy Marley & The Melody Makers) sono già avviati a un’altalenante carriera discografica (ma anche molti degli altri figli sono nell’ambiente musicale; uno di essi ha sposato Lauryn Hill), solo nel 1994 si celebra l’ingresso di Bob Marley nella prestigiosa Rock And Roll Hall Of Fame Foundation, un simbolico riconoscimento dell’industria discografica americana per il contributo e l’importante ruolo svolto dal personaggio nell’evoluzione e nello sviluppo del rock’n’roll. Da almeno un lustro circola periodicamente la notizia secondo cui una grossa casa di produzione cinematografica hollywoodiana avrebbe in cantiere un film sulla vita di Marley la cui sceneggiatura (supervisionata da Rita) sarebbe basata ampiamente sulla biografia di Timothy White, Catch A Fire, a tutt’oggi una delle pubblicazioni più attendibili sulla vicenda di Marley. Oggi sono innumerevoli gli artisti che, in un modo o nell’altro, dichiarano di aver assimilato la lezione di Marley e sporadicamente emerge qualche nuovo talento che le case discografiche o una certa critica un po’ a corto di idee non manca di presentare come il “nuovo Bob Marley”. Ascoltando la sua musica e ripercorrendo la sua vicenda non si può che constatare (oggi come allora) quanto Marley sia stato grande, unico e irripetibile. E il rimpianto è ancora più grande se si pensa che oggi avrebbe compiuto solo 56 anni. His legend lives on.

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