DUE MITI A CONFRONTO
È stato Platone (nel 380 a.C., vedi Crizia e Timeo) a parlare per primo di un’isola favolosa, nella quale si era sviluppata una civiltà all’avanguardia. Talento creativo, qualità tecnologiche e intelligenza scientifica si erano unite dando vita a una terra da sogno situata, da qualche parte, nell’Oceano Atlantico. Dice ancora la leggenda, che quest’isola meravigliosa scomparve misteriosamente una notte a causa di un diluvio che colpì la terra per punire la malvagità dei suoi abitanti. Il nome di quel posto incantato era Atlantide, il cui mito è vivo più che mai. Basti pensare che, durante una prospezione oceanografica, il 14 maggio del 2001 nelle profondità del mare di Cuba, sono state avvistate delle immense e anomale strutture sottomarine che coprivano un’area di 20 chilometri quadrati e che si discostavano chiaramente sia dall’ambiente circostante, sia dalle conformazioni naturali più comuni e caratteristiche del mar di Cuba. Questa scoperta ha fatto gridare al miracolo parecchi studiosi: per alcuni di loro, infatti, quelle erano le rovine della scomparsa Atlantide.
Quando, parlando con lui un paio di anni fa, a proposito del suo fortunatissimo album Supernatural, Carlos Santana ha paragonato San Francisco proprio ad Atlantide sono rimasto subito colpito. Specie pensando a quel periodo d’oro, tra il 1965 e il 1969, in cui la city on the Bay ha davvero prodotto una forma di civiltà socio-culturale e artistica che ha cambiato il mondo. In effetti, ci sono un sacco di analogie tra San Francisco e il mito di Atlantide. Compreso il fatto che ormai da anni gli scienziati hanno previsto che, dopo il terrificante terremoto che nel 1906 ha distrutto la città, un altro sisma gigantesco (il temutissimo Big One) spaccherà in due la California facendola scomparire nell’Oceano.
“Paura del terremoto? È più rischioso passeggiare di sera nel Central Park di New York o di giorno a East Los Angeles”, mi disse una volta Phil Lesh, bassista dei Grateful Dead, band epocale del San Francisco Sound. “Se vivi nella Bay Area”, confermava sempre Santana, “ti dimentichi subito del terremoto: è l’unico aspetto negativo di una delle zone più belle del mondo.” Non a caso, il grande scrittore Billy Graham era solito dire: “Quando mi trovo a San Francisco mi scordo di pregare; ho la sensazione di trovarmi già in paradiso”.
Ve ne potete convincere anche voi nel momento in cui avete la fortuna di attraversare il Golden Gate, il leggendario ponte arancione a campata unica che unisce la parte ovest della città alla deliziosa contea di Marin. Oggi, il pedaggio costa 5 dollari e rispettando il limite di velocità di 45 miglia (circa 65 chilometri all’ora) ci si impiega circa un minuto e mezzo a percorrerlo tutto. Ma, garantisco, sono i 5 dollari meglio spesi della vostra vita e uno dei minuti e mezzo più emozionanti che vi sia mai capitato di trascorrere. Specie quando si percorre il ponte da nord e si entra in città: sulla sinistra appare la baia in tutto il suo splendore, punteggiata da Alcatraz e da altri minuscoli isolotti e attraversata ad est dal Bay Bridge (il cui tratto terminale precipitò in mare a causa dell’ultimo grosso terremoto, quello che ha colpito la città il 17 ottobre 1989). Sulla destra, l’apertura verso l’Oceano Pacifico e le sue acque temperate. Sullo sfondo, lo skyline della città con l’inconfondibile sagoma della piramide della Transamerica.
Un consiglio: quando attraversate il Golden Gate, mettete in sottofondo la musica alla quale associate di più la città di San Francisco. Può essere un pezzo jazz di Dave Brubeck o il folk-rock di Scott MacKenzie e dei Mama’s And Papa’s. Il rock psichedelico di Grateful Dead o Jefferson Airplane o il blues di un cittadino adottato come John Lee Hooker. Il pop-rock radiofonico di Huey Lewis, il soul psichedelico di Sly And The Family Stone, l’heavy dei Metallica, l’art rock dei Residents o il punk dei Green Day o dei Dead Kennedys. È questione di gusti: certo è che nella musica e nell’attitudine di tutti i nomi sopra menzionati si perpetua lo spirito di San Francisco.
——————————————————————————–
THE GOLDEN TOWN
È completamente diversa dalle altre città americane. Ma anche dalle metropoli europee: qui non ci sono il Colosseo o il Partenone a testimoniare un grande passato. A ricordarne le origini ci sono picconi, pepite d’oro, binari della ferrovia. San Francisco è una città giovane: dopo esser stata una minuscola Missione spagnola, intorno alla metà del 1800 si è costituita come polo minerario. O meglio, come una città situata a pochi giorni di distanza dalle miniere d’oro della California che attiravano qui, da vari angoli del pianeta, personaggi un po’ pazzi allettati dalle prospettive di ricchezza.
“Non c’erano aristocratici e neppure famiglie particolarmente rinomate”, mi fa notare Joel Selvin, “il primo ceppo famigliare che a San Francisco si è consolidato come il più importante della città è quello dell’inventore dei blue jeans, Levi Strauss. Anche lui, di fatto, un minatore. Il padre di Wally Haas, di colui, cioè, che per un certo periodo è stato il manager dei Sons Of Champlin, era un nipote di Levi Strauss. Di fatto, sino ad oggi, ci sono solo quattro generazioni di nativi di San Francisco. Quindi, queste persone che non facevano parte dell’aristocrazia e che si trovavano al limite estremo del mondo occidentale, creano una città in cui il termine ‘nuovo’ diventa una regola di vita.”
La civiltà occidentale, dalla sua nascita, si è sempre spostata, come dice il nome, verso ovest. Partendo dalla Mesopotamia e terminando il suo percorso, nel ventesimo secolo, proprio in California (paradossalmente, proseguendo da qui verso ovest si ritorna ad est, in Oriente). “Ecco spiegato”, sottolinea Selvin, “come mai la California rappresenta (e non solo per gli americani) la meta, la destinazione finale.”
Seguendo queste logiche, non deve stupire più di tanto il fatto che qui siano nate, ad esempio, l’industria del cinema o il surf, i computer e l’informatica ma anche Napster. Addirittura il vino americano. In definitiva, in California è nata l’innovazione.
“E San Francisco è stata, sin dall’inizio, il laboratorio sperimentale di tutte queste invenzioni”, dice con un pizzico d’orgoglio Joel Selvin.
Ha ragione.
San Francisco vanta, da sempre, una tradizione di rispetto e adorazione per l’eccentrico; una tendenza, seppure meno di una volta, viva e vegeta ancora oggi. Una delle figure più leggendarie, della San Francisco di fine Ottocento, era un tizio inglese (Joshua Abraham Norton) che si faceva chiamare Norton l’Imperatore. Aveva due cani, Scroccone e Lazzaro, e girava sempre agghindato con un’elegante uniforme, un’enorme spada e un copricapo vistoso. Si era ‘autoincoronato’ Imperatore di San Francisco (prendendoci gusto si proclamerà, successivamente, anche Imperatore di tutti gli Usa). “La gente di San Francisco lo adorava”, ricorda Selvin, “ascoltava i suoi discorsi, lo applaudiva. Questo è un esempio che ti fa capire l’attitudine e lo spirito di chi vive qui. Tanto che, prima ancora che la città diventasse la capitale mondiale della musica e della controcultura (con l’avvento della filosofia hippy) qui c’erano i beatniks. Un movimento strettamente legato allo spirito artistico, creativo e culturalmente alternativo di San Francisco tanto che ancora oggi, in fondo a Grant Street, nella zona di North Beach, ci sono gli eredi dei vecchi beat che parlano di poesia, arte e letteratura, magari degustando un espresso ai tavolini dei bar di quello che per tutti è il quartiere ‘italiano’ della città.”
La maggior parte delle persone che oggi vivono a San Francisco, vengono da altre parti d’America o del mondo. Quasi tutti sono arrivati (e vi si sono stabiliti) dopo essere stati per un bel po’ in viaggio: on the road, proprio come il romanzo di Jack Kerouac che, in qualche modo dunque, è responsabile della fama di San Francisco.
“Nessuno ha scelto questa città per caso”, ci tiene però a sottolineare Selvin, “anche perché, se ci si pensa bene, San Francisco non è ciò che sono le altre metropoli americane: non è grande (49 miglia quadrate con meno di 800mila abitanti) non ha risorse agricole, non ha industrie, non è un centro di potere finanziario. È pure una città esteticamente bellissima. Piena di deliziose case vittoriane costruite ai primi del Novecento dopo il grande terremoto; senza, di fatto, ghetti o zone pericolose. E, soprattutto, vanta una grande cultura. Tanto che se, dal punto di vista dell’estensione geografica e commerciale, l’area di San Francisco è la dodicesima degli Stati Uniti, dal punto di vista culturale è sicuramente tra le prime tre. Anzi, per me, è al primo posto.”
Per molti, i suoi abitanti sono considerati una razza a parte. Perché, come ha detto una volta Robin Williams, “San Francisco è una riserva di uomini in estinzione”.
——————————————————————————–
LO SPIRITO DI SAN FRANCISCO
“Lo spirito della città è presente in un sacco di musiche nate a San Francisco”, spiega Joel Selvin, “anche se in modo diverso rispetto, ad esempio, a New Orleans. Là, ci sono ritmi precisi, idee musicali specifiche. Con, alla base, una ricca tradizione culturale (legata alle diverse fusioni etniche) che influenza in modo diretto le pur diverse espressioni musicali che provengono dalla ‘città della luna crescente’. Qui a San Francisco, lo spirito della metropoli può essere incorporato da musiche profondamente diverse tra loro, sia stilisticamente che come ispirazione e cultura nonché come periodo storico: Grateful Dead, Metallica, Chris Isaak, Counting Crows. In queste quattro espressioni artistiche, ad esempio, io ritrovo lo spirito di San Francisco. Che, per me, significa consapevole rifiuto verso tutto ciò che è legato alle convenzioni; ma anche visione del mondo da outsider, gusto per l’eccentrico, attenzione per la qualità delle cose. Senza avere come unico riferimento il successo commerciale.”
San Francisco è l’opposto di Los Angeles dove l’industria della musica e dell’entertainment da sempre detta leggi rigidissime. Dove la musica è un prodotto da vendere al pubblico e dove gli artisti sono solo il mezzo per raggiungere il mercato.
“È sempre stato così”, conferma Paul Kantner, nativo di San Francisco e fondatore insieme a Marty Balin dei Jefferson Airplane. “Nessuno”, mi dice Kantner, “è mai riuscito ad importare in città le cose (belle o brutte) che caratterizzano le altre metropoli americane. Questo vale in modo particolare per la musica o per le altre forme d’arte: qui a San Francisco non interessano lo star system hollywodiano o newyorkese. La gente ha un’attitudine diversa rispetto al resto degli Stati Uniti: è libera, tollerante, aperta, ricettiva. Il ‘nuovo’ è sempre di casa a San Francisco”.
“Quando, 35 anni fa”, continua Kantner, “si parlava di San Francisco Sound, in realtà s’intendeva una scena più che un genere musicale. I gruppi erano assai diversi tra loro e il suono dei Jefferson Airplane non aveva nulla a che vedere con quello dei Grateful Dead. Che a loro volta non erano per niente simili ai Quicksilver Messenger Service o ai Santana. Per non parlare di Beau Brummels, Creedence Clearwater Revival, Steve Miller Band, Moby Grape, It’s A Beautiful Day o dei vecchi Charlatans: tutte realtà profondamente disomogenee dal punto di vista stilistico/musicale eppure unite da una comune ideologia di vita. Questa attitudine, in qualche modo, è rimasta. O per lo meno, lo spirito della città non è cambiato. Se un artista ha una proposta valida e onesta, meglio se coraggiosa e innovativa, a San Francisco troverà sempre un pubblico pronto ad ascoltarlo.”
Questa visione, agli antipodi rispetto a quella di L.A., New York o Nashville, permette ai musicisti, che incorporano il vero spirito di San Francisco, non solo di perseguire strade artistiche avventurose ma addirittura di non tenere minimamente in considerazione gli obiettivi commerciali nell’elaborazione delle loro proposte artistiche. E questo scatena la creatività, libera il talento.
Anche quando non si tratta di musica: pensiamo a Ferlinghetti e ai poeti della beat generation che hanno dato, insieme al rock’n’roll, una pesante spallata all’America conservatrice e razzista degli anni 50; a Robin Williams che, nella comicità e nel cinema, è stato innovativo e influente tanto quanto lo sono stati i Grateful Dead nel rock; ai tizi della Apple che hanno rivoluzionato il mondo dei computer; al creatore di Napster che ha cambiato le modalità di fruizione della musica. Tutte queste formidabili innovazioni non potevano avere origine da altre parti: esse rappresentano l’essenza sperimentale di San Francisco.
“Nessun compromesso: questo è lo spirito di San Francisco. Nessuna furbizia, nessun trucco per accattivarsi la simpatia di un pubblico più vasto. Non dico che solo i Grateful Dead, i Metallica, Chris Isaak o i Counting Crows rappresentano lo spirito di San Francisco”, ci tiene a specificare Joel Selvin. “Mi viene in mente un tizio che si chiama Zed e che era un outsider nel periodo del punk-rock. Apriva i concerti di diversi gruppi in parecchi locali della città. Il suo spettacolo era il seguente: sul palco portava una serie di bottiglie di plastica legate tra loro con una corda, le riempiva con diverse quantità d’acqua. E le suonava!!! Ricordo una volta che lo vidi insieme a un amico che mi disse: ‘Riesco a sentire una melodia.’. Ed era sincero! È evidente che uno come Zed non poteva avere airplay radiofonico. Eppure, a San Francisco, era un nome.
“Mi viene in mente un altro; un certo Winston Tong, un artista asiatico-americano che per un certo periodo ha anche fatto parte di una band sperimentale (MX-80 Sound) che incideva per la label dei Residents. Era una sorta di poeta pop, assolutamente eccentrico e inusuale. Neanche lui veniva trasmesso dalle radio. Forse, artisti come Zed e Winston Tong rappresentano lo spirito di San Francisco meglio dei Grateful Dead. Ma non sono conosciuti. Loro sono davvero la quintessenza della non-commercialità, dello strano, dell’artisticamente coraggioso.”
“San Francisco, ancora oggi, è piena di attrattive”, sostiene Country Joe McDonald, californiano di nascita, residente da decenni a Berkeley (nella parte orientale della baia), uno degli eroi di Woodstock ’69. “Questa è una città bellissima con una delle baie più incantevoli del mondo. Ed è da sempre un luogo culturalmente attivo. Sono pochi quelli che detestano San Francisco. In genere, chi la visita finisce spesso per restarci. È, da un lato, la perfetta incarnazione del sogno californiano e dall’altro la Mecca del capitalismo. Per questo può essere un paradiso o, al tempo stesso, il peggiore degli inferni. Perché, come cantava Woody Guthrie: ‘La California è il giardino dell’Eden / Un paradiso da ammirare e nel quale è ideale vivere / Ma che tu ci creda o meno / Non la troverai così fantastica / Se non hai i soldi’). Ma, a dir la verità, se il sogno californiano (nella sua accezione migliore) fosse davvero morto, il mondo sarebbe un luogo assai più triste.”
“Gli ingredienti dello stile di vita di San Francisco incoraggiano queste attitudini e ne nutrono in continuazione lo spirito”, afferma Chet Helms, il riconosciuto padre degli hippy, l’uomo che scoprì Janis Joplin e fondò la scena musicale della città creando la Avalon Ballroom. “Qui a San Francisco tutti cerchiamo di essere e di vivere a modo nostro e non seguendo le regole imposte dagli altri.”
——————————————————————————–
IL CODICE DEI FIGLI DEI FIORI
È curioso. Eppure tutti gli ‘storici’ del rock tendono a identificare come momento zero della scena musicale di San Francisco la serie di concerti tenuti dai Charlatans al Red Dog Saloon di Virginia City, Nevada, nell’estate del 1965. Abbigliamento da vecchio West, strumenti elettrici, musica radicata nella tradizione ma con notevoli capacità visionarie (il loro album mai pubblicato per la Kama Sutra, dicono, sia uno dei più affascinanti tesori perduti degli anni 60), i Charlatans erano delle icone di Haight-Ashbury, il quartiere vittoriano che in quei giorni stava diventando l’epicentro della nuova cultura. E nelle cui enormi case di due/tre piani (semi-abbandonate e, di conseguenza con affitti bassissimi) potevano comodamente starci anche ‘comuni’ di dieci, quindici persone. Come quella al 710 di Ashbury Street, che per un paio d’anni (dal ’65 al ’67) è stato il quartier generale dei Grateful Dead.
Si disse che i Charlatans al Red Dog Saloon suonarono (male) completamente offuscati dagli effetti delle pasticche di Lsd. Era quella la nuova droga (allora legale) inventata negli anni 40 dallo scienziato svizzero Albert Hofmann. Che aveva ricreato in laboratorio una sostanza chimica in grado di produrre quegli effetti allucinogeni che popolazioni indigene del Sud America e di altre zone remote del mondo provavano ingerendo alcune particolarissime sostanze naturali (come i funghi peyote). Scopo: quello di ampliare le potenzialità della mente, espandere le capacità percettive, aumentare la consapevolezza del mondo interno ed esterno. Le pasticche di Lsd enfatizzavano la percezione sensoriale: i colori diventavano sgargianti, i suoni intensi ed avvolgenti, i contorni sfumati. Furono Ken Kesey (un personaggio stravagante che nel ’62 pubblicò il romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo, grazie al quale divenne famoso) e Timothy Leary i due guru di quella scena che, ispirandosi agli effetti dell’Lsd, venne assai propriamente definita psichedelica.
Ken Kesey e la sua colorata comune (i Merry Pranksters) invece di stabilirsi nelle case vittoriane di Haight-Ashbury (la loro base operativa si trovava a La Honda, a sud della città) avevano svuotato uno school bus, lo avevano dipinto con colori vivaci e al posto della targhetta con la destinazione finale ci avevano scritto “Furthur” e cioè oltre, più in là: quasi a voler significare i non definiti confini del viaggio visto come metafora della ricerca umana (per la cronaca, quello di Ken Kesey è lo stesso bus che ha ispirato il Magical Mystery Tour di beatlesiana memoria o il Magic Bus degli Who).
Girando, Kesey e i Prankster davano vita agli acid test: vere e proprie sperimentazioni lisergiche con pastiglie di Lsd distribuite gratuitamente. Sul palco, la musica dei Grateful Dead, il gruppo più connesso (anche dal punto di vista stilistico) alla scena psichedelica. La musica di Jerry Garcia, fuori dai canoni della canzone, con sonorità acide, contorni indefiniti, contenuti visionari e sognanti era la colonna sonora perfetta di quella situazione.
A tutto questo, vanno aggiunte le connessioni inter-culturali, di quella comunità (che in realtà era formata da non più di due/trecento persone, una sorta di famiglia allargata): poesia, letteratura, arti visive, addirittura abbigliamento e cucina nonché cinema e teatro furono alla base della nuova cultura psichedelica. Che era colorata, pura e profumata come i fiori (per questo gli adepti vennero chiamati flower children, figli dei fiori). E che faceva tendenza (l’aggettivo hip che in inglese significa proprio “una cosa bella e di moda” venne sostantivato dando origine al termine hippy). “È stata un’epoca formidabile”, ricorda oggi Paul Kantner, “un favoloso periodo di rinascimento politico, religioso e sociale. Anni pieni di gioia e di positività. Specie se confrontati con i decenni successivi, bui e pessimisti.”
Tutto ruotava intorno ad un concetto semplice: “Peace and Love”. “Un principio ancora oggi attualissimo”, sottolinea Country Joe McDonald, “e che negli anni 60 è stato davvero potente. Al di là della sua portata sociale. I movimenti per i diritti dei lavoratori, le lotte per le rivendicazioni razziali, per la protezione dei più deboli, per l’emancipazione femminile sono precedenti alla filosofia hippy. Che, comunque, ha sempre basato la sua forza sul divertimento. Quella è stata la grande, straordinaria novità. Perché non farlo? Perché la gente non si può divertire facendo l’amore, ascoltando la musica che gli piace, urlando ‘FUCK’ in faccia alle grandi corporation o al sistema?”
In quel fertile terreno socio-culturale, le arti si svilupparono in modo stupefacente. E la musica, più di tutte, diventò il principale collante ideologico. Anche lì, la regola migliore era quella di non avere regole. Anche se, sotto sotto, venne stretto un patto (non esplicito), una sorta di codice d’onore della cultura hippy.
“Jefferson Airplane e Grateful Dead sono stati per anni complementari”, racconta Joel Selvin, “ho visto moltissimi, concerti delle due band insieme: sempre, la serata si trasformava in qualcosa di fantastico. Anche stilisticamente, i due gruppi avevano caratteristiche diverse. Ma c’era una cosa in particolare che li differenziava e che, alla fine, ha creato un solco profondo tra queste due entità artistiche. Per capirlo, bisogna focalizzare l’attenzione su un concetto fondamentale che è stato alla base di tutto il movimento hippy e che (in qualche modo) è ancora oggi vivo tra coloro che credono negli ideali della Summer Of Love. Un ‘codice’ di integrità artistica, di onestà culturale, di sincerità espressiva. Un ‘patto’ stipulato inconsciamente tra i protagonisti del San Francisco Sound che stava a significare il rifiuto dei valori dell’America borghese, l’opposizione alle politiche e al modo di pensare dell’establishment. E che voleva dire abbracciare le nuove filosofie di pace, amore e fratellanza. Avendo come obiettivo una nuova forma di società.”
“La domanda è dunque questa”, prosegue Selvin, “chi, tra i principali protagonisti musicali di quel periodo, è stato davvero, sino in fondo fedele al ‘codice’? Chi non l’ha mai tradito? Non certamente gli Airplane; in particolare Grace Slick e Paul Kantner che hanno trasformato la band in una colossale operazione commerciale. Persino Jack Casady e Jorma Kaukonen che pure hanno formato gli Hot Tuna proprio per ritrovare un’entità musicale più genuina. Ma senza rinunciare (per un certo periodo) ai soldi dei Jefferson Airplane: spiacenti, ma per questo (anche loro) sono stati squalificati. Nemmeno i Quicksilver che pure sono stati fedeli al codice anche quando Gary Duncan ha lasciato la band. Ma Duncan è tornato con Dino Valenti con l’idea di far soldi e, ahimè, anche loro sono stati squalificati. Chi è dunque rimasto fedele al ‘codice’?”
“Certamente, i ragazzi che facevano parte della band di Santana, una piccola ‘comune’ di autentici figli dei fiori. Così pure Peter Albin e Big Brother & The Holding Company. Ma non la pur grandissima Janis Joplin che ad un certo punto, dopo i fasti del Monterey Pop Festival del giugno ’67, ha detto loro: ‘Ehi ragazzi, io sono la STAR. Che ci faccio qui con voi? Ho bisogno di musicisti più bravi!’. Spiacente, Janis: squalificata. I Grateful Dead non hanno mai, nemmeno per un secondo, infranto quel ‘codice’. Pur rischiando, in diversi periodi, di fare la fame. Nel 1975, quando la band si ritirò per alcuni mesi dalle scene, il batterista Bill Kreutzman non poté neppure permettersi l’acquisto di un piccolo appartamento.”
“Oggi”, chiarisce sempre Joel Selvin, “sono tutti milionari. Ma non lo hanno cercato. Non hanno mai finalizzato la loro musica e la loro attitudine al denaro o alla fama. Venticinque anni dopo, a partire dalla fine degli anni 80, la loro popolarità è cresciuta a dismisura. Sono stati ricompensati dal pubblico per la loro fedeltà. Per il loro rispetto e per la loro purezza di intenti.”
——————————————————————————–
L’ESTATE DELL’AMORE
“Ancora oggi”, continua Selvin, “quello dei Grateful Dead è un marchio preziosissimo il cui valore va abbondantemente oltre i meriti dei singoli musicisti. Credo che tutto ciò si debba alla saggezza di Jerry Garcia: tutti i Dead sono (sempre stati) persone intelligenti ma Jerry era diverso. Jerry voleva davvero diventare quello che poi è diventato: un leader, solo apparentemente, inconsapevole. Non è stato infatti un capo banda nell’accezione comune: lui era un leader passivo tanto che gli altri passavano il tempo ad immaginare quello che lui avrebbe detto o avrebbe pensato. Si è sempre circondato di gente che accettava questo suo ruolo. I Jefferson Airplane erano una band probabilmente migliore dei Dead. Così come i Santana o i Creedence Clearwater Revival. Ma i Dead hanno sempre rispettato il ‘codice’ e questa è stata la loro vera sfida: non quella di scalare le classifiche o di diventare ricchi e famosi. Piuttosto di vivere in modo diverso e di modificare regole e comportamenti dei giovani.”
Ideali questi che hanno avuto il momento di massima esposizione nel giugno del 1967. A Monterey (un’ora e mezza di auto a sud di San Francisco) John Phillips dei Mama’s & Papa’s con l’aiuto di Lou Adler organizzò il primo festival della storia del pop-rock. Su quel palco, allestito nei Fairgrounds, sono salite tutte le band di San Francisco ma anche Jimi Hendrix, The Who, Otis Redding, Simon & Garfunkel, persino Ravi Shankar. È stata la consacrazione di una musica e di una filosofia di vita pronta a cambiare il mondo. Ma per qualcuno è stata anche la fine di quella che verrà poi chiamata l’estate dell’amore, “The Summer Of Love”.
Da quel momento, a San Francisco cominciarono a confluire legioni di veri o presunti hippies da ogni angolo degli Usa. Tutto il mondo guardava alla città della Baia. E camicie a fiori, pantaloni di velluto a zampa d’elefante così come il segno della pace (le due dita a forma di V) diventarono una moda. A Haight-Ashbury (ormai abbandonata dai musicisti e dagli hippy della prima ora) circolavano più eroina e speed che marijuana o Lsd. Tanto che qualcuno, parafrasando la canzone di Scott MacKenzie, cominciò a dire che “a San Franciso più che arrivare con un fiore tra i capelli, era meglio portarsi una P38 in tasca”.
“L’estate dell’amore non è forse mai esistita. O comunque chi l’ha vissuta non l’ha percepita come tale”, ci tiene però a precisare Joel Selvin.
“Quanto è durata?”, si chiede Paul Kantner. “Pochi giorni: ma è stato perfetto.”
“L’importante”, mi ricordava Jerry Garcia nell’unica volta che sono riuscito a scambiare due parole con lui, “è aver aperto una porta. Un piccolo spiraglio che ha fatto luce nel buio del mondo: da allora è cambiato tutto.”
Due anni dopo, dall’altra parte degli States, nel corso di un’altra estate caldissima, a Woodstock il sogno dei figli dei fiori raggiunge il proprio apice. Ma si trasforma presto in un incubo: gli anni 60 e i suoi fantastici ideali si concludono (nel dicembre di quello stesso anno, il 1969) nel dramma del festival di Altamont. Ma soprattutto naufragano nella consapevolezza che i giovani teenager (per l’industria della musica, della moda e dello spettacolo) sono ormai diventati un enorme mercato da sfruttare.
——————————————————————————–
SAN FRANCISCO OGGI
“All’epoca del ‘sogno californiano’ dall’altra parte dell’America, sulla East Coast, c’erano Andy Warhol e i Velvet Underground”, ricorda Country Joe. “Oggi ci sono i talebani, gli integralisti islamici. Ma c’è anche il resto del mondo in cui la gente è assai più povera e disperata di quella che vive in California. Almeno quattro quinti del pianeta non nutrono speranze; ci sono miliardi di individui con aspettative di vita bassissime. I cui destini (finora) non interessano a nessuno, perché non rappresentano un mercato. Spesso non ce ne rendiamo conto perché in quei Paesi ci sono regimi dittatoriali che impediscono la libertà d’espressione. Qui, uno può andare alla notte degli Oscar, salire sul palco e urlare ‘Vaffanculo. questa guerra è una vergogna’. Nel resto del mondo c’è gente pronta ad assassinare Britney Spears solo perché rappresenta la faccia più commerciale e becera dell’industria americana.”
San Francisco ancora oggi può essere considerata una città-faro, per gli Stati Uniti e per il mondo. Haight-Ashbury, però, si è trasformato un quartiere ‘turistico’ in cui trovate sempre qualcuno fermo a fotografare la casa che fu dei Grateful Dead al 710 di Ashbury (gli attuali proprietari hanno provato a venderla qualche anno fa per 990mila dollari ma nessun potenziale acquirente si è fatto vivo.). Così come spesso ci sono turisti pronti a immortalare il celeberrimo cartello all’incrocio delle due strade. Per la cronaca, ad uno dei quattro angoli, c’è oggi uno dei punti vendita della famosa catena di gelatai ecologisti Ben & Jerry’s.
The Haight è piena di negozi, brulicanti di curiosi, che vendono t-shirt con gli eroi dell’epoca (Jimi, Janis, Jerry Garcia, ecc.) o riproduzioni di memorabilia varie. Per gli appassionati di musica, in fondo a Haight Street (proprio al confine con il Golden Gate Park) c’è il gigantesco negozio Amoeba’s Records, vero paradiso di chi vuol comprare cd nuovi e usati.
La città, dal punto di vista estetico, non è molto diversa rispetto agli anni 60. Anche perché un rigido piano urbanistico ne impedisce lo sfruttamento selvaggio. Solo alcune zone (come la celebre SoMa, il quartiere industriale a South di Market Street – il vialone che taglia in due la città, da est a ovest) sono state trasformate; oggi a SoMa ci sono locali di musica, gallerie d’arte, showroom di stilisti e architetti. Castro è sempre il quartiere dei gay, vera e propria capitale mondiale dell’universo omosessuale, Union Square il centro città e il punto di partenza per lo shopping e Fisherman’s Wharf e Ghirardelli Square sono il paradiso dei turisti.
La musica ha ancora un ruolo centrale: le mode si susseguono, dalla new age degli anni 80 si è passati al neoswing dei 90. Perché San Francisco è sempre la prima ad accogliere le novità, a dare spazio a chi osa, a consacrare i talenti coraggiosi.
“La scena musicale (come la si intendeva negli anni 60 e 70) non esiste più”, ci spiega Joel Selvin. “Ma non esiste più neanche quell’America. Né tanto meno la cultura che l’aveva generata. La scena cittadina è molto cambiata. Anche quella musicale. Seppure la città non è cresciuta e non si è modificata moltissimo, ci sono tante differenze rispetto al passato. Una volta i giovani musicisti si muovevano e suonavano nei mille club della Bay Area. Oggi questi club sono, per la maggior parte, spariti. E più che suonare in giro, i gruppi e gli artisti preferiscono fare esperienza nei piccoli studi di registrazione dove sperimentano le loro proposte. Con l’avvento delle tecnologie digitali, i costi di registrazione si sono abbassati moltissimo tanto che molti dei vecchi, grandi studios sono falliti. Oggi, chiunque da qualsiasi parte può attrezzare un piccolo studio e registrare ottimi prodotti.”
“In un certo senso”, continua Selvin, “questo è il modo in cui sono cresciuti i Counting Crows o i Third Eye Blind. Un po’ meno i Train, che hanno girato gli States aprendo, per anni, i concerti di gruppi più famosi (dai Blues Traveler agli stessi Counting Crows) sino a quando hanno consolidato il loro nome. Proprio un loro concerto (tutto esaurito) al Fillmore di San Francisco li ha consacrati: il successo di Drops Of Jupiter è seguito di lì a pochi mesi.”
Non tutti, qui a San Francisco, hanno scordato quel famoso ‘codice’ artistico che aveva animato i musicisti degli anni 60. Anzi, molti continuano a seguirlo con coerenza.
“Anche oggi”, sostiene Joel Selvin, “c’è chi è fedele al ‘codice’: i già menzionati Metallica e Chris Isaak ma anche il rock post-industriale, artistico e pericoloso di Mark Pauline e dei suoi Survival Research Laboratories. A un certo livello, tutto questo viene percepito dal pubblico. E ti spiega il revival delle cosiddette jam band, di quei gruppi cioè che nello stile e nello spirito perpetuano il mito dei Grateful Dead. E non (con buona pace del mio amico Paul Kantner) dei Jefferson Airplane o di Janis Joplin che, come abbiamo visto, quel ‘codice’ lo avevano tradito. Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’immagine. L’immagine di questi artisti è esattamente quello che loro sono. Quello che esprimono. Se poi il pubblico lo percepisce completamente, meglio. Ma non sempre questo è importante. Quanti hanno mai capito completamente l’arte di Frank Zappa?”
La città, dopo la sbornia della new economy (la Silicon Valley è a meno di un’ora di automobile) sta vivendo una forte recessione. Come il resto degli Usa. La gente ha meno soldi e, con una guerra (non ancora del tutto metabolizzata) alle spalle, non se la sente di spendere. Così, si mormora che uno dei jazz club storici (il Pearl’s di North Beach) forse chiuderà i battenti. Anche se, nel porto di Oakland (nella ristrutturata Jack London Square) un ristorante giapponese (lo Yoshi’s) è diventato il più bel jazz club d’America. O che, lungo Market Street, ci siano posticini in cui apprezzare (ad esempio) il retro-swing della suadente Lavay Smith e dei suoi Red Hot Skillet Lickers. O, ancora, che Fillmore e Avalon (che ha appena riaperto i battenti, vedi box a pag. 40) siano attivi proprio nei loro luoghi storici. E che la bellissima Great American Music Hall, abbandonati blues, folk e country, ospiti con continuità le più interessanti proposte di rock alternativo. Sempre scegliendo con gusto eccellente.
Perché la città di San Francisco riesce comunque a sopravvivere. Facendo persino fronte compatto davanti alla crescente miopia dell’industria discografica.
“Mi è capitato spesso di discutere le scelte dei discografici nelle major”, conclude Joel Selvin. “Negli Stati Uniti oggi esistono solo pochi ‘modelli di riferimento’ che interessano alle case discografiche: se il tuo demo non corrisponde a quegli standard non viene neppure ascoltato. Questa ristrettezza di vedute produce come risultato una vera e propria povertà culturale. E questo è in contrasto con lo spirito della città di San Francisco che continua imperterrita a produrre e proporre cose artisticamente contro corrente ma anche di grande interesse e spessore culturale.”
Insomma, l’intuizione suggestiva di Carlos Santana non è solo frutto di fantasia, di spirito romantico o di smisurato amore per la città: San Francisco è davvero l’Atlantide del rock.
O, più semplicemente, come sostiene Paul Kantner, San Francisco non è altro che “49 miglia quadrate completamente circondate dalla realtà”.