30/10/2013

I concerti della vita di James Taylor

In marzo ha portato le sue canzoni sul palco di sedici teatri italiani. A noi ha raccontato i dieci concerti più importanti della carriera

Nel 1971, il critico inglese Barney Hoskins scrive: «James Taylor è l’artista che sale sul palco nel modo più naturale e spontaneo possibile. Alcuni pensano sia un atteggiamento studiato, io credo semplicemente che quello sia il suo modo di essere».
«Sono sempre stato timido», commenta James mentre sorseggia un caffè in uno dei più eleganti hotel di Milano. «E poi, è vero, non ho mai posto particolare attenzione al mio modo di stare sul palco. Per me l’importante è essere preparati: musicalmente e fisicamente. Ma anche essere presenti, attenti alle esigenze del pubblico. Fare musica dal vivo è la cosa che mi piace di più perché so che, per la gente, assistere a un concerto è un’esperienza unica e irripetibile».
JT non è spontaneo e naturale solamente quando si trova on stage: è amabile e disponibile sempre. Persino di fronte al microfono dell’intervistatore. Il 12 marzo ha compiuto 64 anni ma conserva l’entusiasmo e la passione dei giorni migliori. Elegante e gentile, James (come, una volta, mi disse Ivano Fossati) somiglia alla sua musica. Lui lo sa benissimo e, forse anche per questo, accetta una piccola sfida: commentare i 10 momenti musicali che hanno segnato la sua fantastica carriera.
Era l’estate del 1963, James aveva 15 anni e a Martha’s Vineyard suonicchiava con un amico destinato a farsi un nome: Danny “Kootch” Kortchmar. «Lo avevo conosciuto due anni prima: ci divertivamo come pazzi. Nel luglio del ’63 siamo saliti per la prima volta su un palco. Era uno di quei piccoli club in cui, una sera la settimana, si offre il microfono ad artisti sconosciuti. Dopo qualche esibizione, abbiamo vinto un contest per songwriter allo Unicorn, locale gemello della più celebre coffee house di Boston: ci è valso il primo ingaggio e quello successivo al Café Mosca».
Tre anni, dopo, nell’estate del ’66, James Taylor è ancora insieme a Kortchmar: la band si chiama The Flying Machine e suona in un club del Greenwich Village, il Night Owl Cafe. «Joe Marra era il gestore del locale di McDougal Street. Per otto mesi siamo stati la house band, dopo aver sostituito Turtles e Lovin’ Spoonful. Lì è nata Rainy Day Man».
Da luglio a ottobre del ’68, James è a Londra: negli studi di Abbey Road registra il suo primo album. «Ma non ricordo concerti particolari in quel periodo», ammette. Ricorda invece benissimo l’estate del 1969: non partecipa al Festival di Woodstock ma si esibisce per la prima volta al Troubadour di West Hollywood per sei sere di fila e al Festival di Newport. «Già… Newport 1969, ero sul palco proprio quando Neil Armstrong ha messo piede sulla luna. Conservo ancora il compenso: un assegno da 200 dollari che non era stato firmato e che non ho mai potuto incassare. È stato uno dei concerti più importanti della mia vita. Pochi giorni dopo ho avuto un incidente in moto: mi sono rotto mani e piedi, sono stato a letto per cinque mesi».
Esattamente un anno dopo, nell’ottobre 1970, James viene chiamato dalla sua girlfriend dell’epoca (Joni Mitchell) per un concerto in Canada: a Vancouver si svolge un evento i cui proventi servono a finanziare un’organizzazione ecologista che si chiamerà Greenpeace. «C’era un sacco di gente… un luogo più grande di quelli cui ero abituato. Ricordo di aver avuto un sacco di problemi con l’accordatura della chitarra. In quel periodo, io e Joni ci divertivamo molto: è stato un anno bellissimo».
Nel settembre del 1979, JT è presente a un altro importante benefit concert che si svolge al Madison Square Garden di New York: dopo l’incidente nella centrale di Three Mile Island, in America si diffonde la cosiddetta “Sindrome cinese”, la fobia di un’apocalisse nucleare. Diversi artisti fondano la M.U.S.E. e danno vita a una serie di concerti che passano alla storia come No Nukes. «Un amico, John Hall, cantautore poi diventato deputato del Congresso, mi ha chiamato. Io ero più interessato a combattere gli armamenti nucleari ma poi tanti si sono uniti a noi, Jackson Browne, Bonnie Raitt, CSN, Bruce Springsteen e Carly Simon, insomma quelli che io chiamo… i soliti sospetti…».
Gennaio, 1985. A Rio de Janeiro si svolge la prima edizione di Rock In Rio un megaconcerto da 300 mila spettatori. JT è invitato a dividere il palco con rock band come Queen, AC/DC o Yes. Per lui è un’esperienza di vita. «Dopo 20 anni di dipendenza da eroina e metadone ho smesso con le droghe nel 1984. Quell’anno, per me, è stato durissimo. Facevo fatica a vivere; l’unica cosa che mi faceva star bene era la ginnastica perché quando finivo mi sentivo stanco morto e riuscivo a dormire. Artisticamente ero in declino. Quando mi hanno offerto il Rock In Rio non sapevo neppure cosa sarebbe stato. Mi piacevano Jobim o Milton Nascimento, Caetano o Chico Buarque, ma ignoravo di avere un pubblico affezionato laggiù. Sono rimasto di stucco quando la gente cantava le mie canzoni. Tornato a casa ero un altro uomo: rinato. Rio è stato un momento fondamentale della mia vita».
Nel giugno del 1990 James Taylor è headliner del più importante bluegrass festival d’America: a Telluride, nel cuore delle Montagne Rocciose del Colorado. «Che band, che musicisti… Mark O’ Connor, Jerry Douglas, straordinari: per qualche mese abbiamo girato gli U.S.A. con la JT Acoustic Band. Indimenticabile».
Nell’ottobre 2004 si aggrega al Vote For Change e suona con le Dixie Chicks («Belle, brave e coraggiose, un esempio da imitare: tra noi si è creata subito una formidabile sintonia artistica»). Quattro anni dopo, partecipa ai free concerts per Obama («Lo rifarei e voterò ancora per lui»).
Nel novembre del 2007, al Troubadour, JT e Carole King decidono di riunirsi per cinque serate speciali. Tornano sulla scena del crimine con i loro amici di sempre: Russ Kunkel alla batteria, Lee Sklar al basso, Danny “Kootch” alla chitarra. «Qualche anno fa, Carole mi ha detto che se volevo fare qualcosa con lei mi sarei dovuto affrettare perché lei non sapeva per quanto tempo ancora sarebbe stata in grado di salire su un palco… Quindi ho scoperto che il Troubadour compiva cinquant’anni: ho chiamato lei, Peter Asher e la band e ho chiesto: vogliamo provarci?».
Quando vedo la custodia con la sua chitarra acustica anch’io ci provo.
«Posso?», gli chiedo.
«Certo», fa lui porgendomi la bellissima sei corde di J. Olson.
Anche questo è James Taylor: too nice to be true…

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!