01/12/2011

BOBO RONDELLI

PREGHIERA DI UN CANTASTORIE

Bobo Rondelli è L’uomo che aveva picchiato la testa, o almeno così l’ha descritto l’amico Paolo Virzì nel film documentario dedicatogli nel 2009. Descrizione che si rifà a un brano inciso nel periodo in cui il cantautore livornese militava negli Ottavo Padiglione, e che ancora oggi sembra sintetizzare il suo personalissimo approccio alla vita.
Bobo Rondelli non è mai stato tipo da sottostare alle regole imposte dalla società, tanto meno a quelle dell’industria musicale. Ha sempre fatto a modo suo, sbagliando anche, e pagando a caro prezzo gli errori commessi. Ma è proprio questo a fare di lui un cantastorie con la “c” maiuscola. Dopo mille vicissitudini umane e artistiche, Rondelli è riuscito a rinascere dalle proprie ceneri, forte della propria fragilità, sempre pronto a sondare i più oscuri e remoti angoli della vita, e a lasciarsi travolgere dalle misteriose e ingovernabili leggi del cuore.
Il cantastorie è nudo, felice di esserlo, e non ha paura di mostrare, verso dopo verso, la sua vera natura.
Hai descritto Per amor del cielo (2009) come «un tentativo di uscire dal Pianeta Mater da cui tutti noi discendiamo». Cosa mi dici del nuovo album?
«È un tentativo di ritorno alle acque sicure del Pianeta Mater [ride]. In fin dei conti un uomo, senza una donna accanto, è a rischio follia…».
L’amore era uno dei temi centrali di Per amor del cielo. Però si trattava di un amore che ti aveva messo al tappeto… Nel documentario di Virzì ti eri messo a nudo, parlando anche dei problemi con tua moglie…
«Il nuovo disco, invece, è un tentativo di ricostruire. L’ora dell’ormai è il momento in cui le somme sono state tirate e si ricomincia a vivere. È un passaggio quasi più doloroso della fine di un rapporto. L’amore spesso inizia con il paradiso, si passa dal limbo e si finisce all’inferno, per poi magari ricominciare con un altro paradiso. In questo disco vengono descritti un po’ tutti questi passaggi. Alla fine, soffrire per amore è anche bello… è una sofferenza costruttiva. Quando si chiude una storia ed è troppo tardi per riparare agli errori commessi, allora devi per forza rinascere. Si prova anche una certa gloria, ci si sente come baciati, carezzati dalla fortuna. Una volta vidi un cane sotto casa, sembrava depresso. Si avvicinò e pensai di aver incontrato un’anima malinconica come la mia. Credevo fosse in cerca di un posto in cui stare. Così lo caricai in macchina e lo portai in un ristorante, dove avevo trovato una persona disposta ad adottarlo. Il cane, però, scappò quasi subito, percorse chilometri da solo e me lo ritrovai un’altra volta sotto casa. Alla fine ho scoperto che lì c’era una cagnetta di cui si era innamorato. Succede lo stesso agli uomini, e questo dà un po’ l’idea di come può ridurre l’amore… si può diventare anche molto compassionevoli».
Hai bisogno di soffrire per scrivere?
«A dire il vero sì, purtroppo accumulo sofferenze e poi “verso il mio sangue”… In fondo il Cristo, visto come personaggio e come uomo, su un palco è imbattibile… è una rappresentazione potentissima».
Nel nuovo album, invece, sembra che tu abbia fatto pace con l’amore, con la vita e con te stesso. Mi riferisco a canzoni come Per amarti o La giostra…
«Il possesso non è amore. Col tempo, si arriva a una forma d’amore più elevata, quella di cui ha scritto Khalil Gibran. Sarà anche una questione ormonale [ride], a vent’anni si è più impulsivi, impetuosi».
In brani come Canto di un padre o Bambina mia auguri ai tuoi figli di trovare, un giorno, quella serenità che tu non sei ancora riuscito a raggiungere. Significa che stai diventando grande?
«Quando ci sono di mezzo i figli, la fine di un rapporto è ancora più dolorosa. È facile fare i ribelli sulla propria pelle, ma quando si tratta dei figli è tutta un’altra cosa… si diventa ansiosi e si cerca di essere sempre al corrente di tutto ciò che fanno».
In Sporco denaro, invece, sei riuscito a condensare in pochi versi ciò che probabilmente pensa la gran parte della gente in questo triste momento storico e politico. Mi racconti com’è nata quella canzone? Tra l’altro l’arrangiamento realizzato con l’aiuto dell’Orchestrina la rende una sorta di marcia, di inno popolare…
«È una canzone di strada, che esprime con parole semplici l’estremo bisogno, ora più che mai, di distribuire maggiormente le ricchezze se vogliamo salvarci da noi stessi e dalla natura. A posteriori, mi sembra una canzone dal mood un po’ vysotskijano. Tra l’altro, adesso giro anche per le strade della città con l’Orchestrina, andiamo nei mercati, facciamo blitz nei teatri, suoniamo per i bambini fuori dagli ospedali. Su YouTube ci sono anche dei video di quando abbiamo improvvisato un “bunga bunga musicale” sulle note di Minnie The Moocher di Cab Calloway… l’idea era mettere in scena una specie di funerale, quello che si terrà il giorno in cui un certo signore si deciderà a togliersi dalle scatole [Il desiderio di Bobo Rondelli verrà esaudito circa un mese dopo questa intervista, il 12 novembre 2011]».
Il disco è stato registrato presso lo studio dell’associazione culturale SpazioZero di Livorno. Di recente, però, il comune ha intimato lo sgombero dei locali…
«Hanno promesso un altro spazio, ma non è ancora successo niente… Per il momento si sono presi una stanza in affitto. Cominciava ad essere un punto di riferimento importante per i musicisti livornesi. È uno studio di registrazione a basso costo, gestito da gente con una certa esperienza come Antonio Castiello, che ha prodotto L’ora dell’ormai. Livorno è sempre stata una città aperta, una fucina di talenti… per esempio c’è la Caciuk Orchestra che raduna musicisti senegalesi, una violinista russa, un bassista cambogiano, ed è capitanata da Dimitri Grechi Espinoza che ha arrangiato il mio disco ed è autore del brano Livorno Nocturne. Nella Caciuk Orchestra poi ci sono dei bravissimi percussionisti africani che fanno balli formidabili… l’uomo ha perso molto eliminando la danza dalla propria quotidianità; la fisicità ha a che fare con la libertà, invece nella nostra società il corpo è spesso fonte di vergogna».
Livorno Nocturne e Angelo azzurro mi sono sembrate fin da subito strettamente connesse. La prima sembra la confessione di uno dei fantasmi di cui canti, quelli che popolano la Terrazza Mascagni. La seconda, invece, sembra una preghiera di redenzione, che può recitare solo chi si è spettinato l’anima addentrandosi nelle viscere della Livorno by night…
«Le ho messe vicine apposta e mi fa piacere che tu l’abbia notato. Le due canzoni sono unite da un legame di bettola, per così dire. Angelo Azzurro è un po’ un’idea dostoevskijana… mi piacerebbe anche poter dire che i versi mi sono stati suggeriti in sogno da Casanova… non è vero, ma sarebbe una storia interessante».
La poesia sembra essere una specie di fiume sotterraneo che scorre in tutti i tuoi dischi. Questa volta hai omaggiato Franco Loi (Sì a me delle donne) e Giorgio Caproni (L’albero).
«Con Franco Loi c’è stato un incontro via etere… ero in macchina, diretto al Castello Pasquini di Castiglioncello (LI). La radio non aveva una buona ricezione, però mi ha colpito la voce di questo signore che stavano intervistando su Radio Rai… aveva una voce tutta sua, sembrava il respiro di un’anima. Parlava di poesia, di Dante e altri argomenti affascinanti. Una volta arrivato, ho chiesto informazioni su di lui e mi hanno detto che la settimana dopo sarebbe arrivato a Castello Pasquini. Così l’ho incontrato e siamo diventati amici. È un signore dell’età di mia madre, che ne ha vissute di tutti i colori… per me è un po’ una figura paterna. Per lui anche il calzolaio è un poeta, oppure chi al bar ti sa fare un buon caffè. Franco ha una concezione pura della poesia, scrive in dialetto per fare in modo che l’anima venga contaminata il meno possibile dalla lingua, riuscendo così a esprimersi attraverso i suoni della terra. Il suo slang milanese è molto affascinante, ha un suono, una dolcezza quasi sudamericana. Franco riesce a farmi piangere. Hai presente la Preghiera del clown di Totò? [«C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri»] Con certe canzoni sono riuscito a far piangere la gente, e avevo bisogno di qualcuno che riuscisse a far piangere me. Che poi, alla fine, piangere significa riuscire a sciogliere il ghiaccio che hai dentro. Se non piangi mai, va a finire che sto ghiaccio t’affetta l’anima».
E Giorgio Caproni?
«Essendo deceduto, abbiamo fatto richiesta alla figlia, che è stata molto felice di diffondere l’opera del padre anche attraverso la forma canzone. L’albero fonde A Rina, una poesia molto breve dedicata alla sorella, con un frammento di Ultima preghiera, un componimento più lungo dedicato alla madre. Ho unito le due parti per fare il mio personale omaggio a Giorgio Caproni».
È molto bello il modo in cui l’hai messa in musica, e lo splendido dobro di Roberto Luti è la ciliegina sulla torta…
«Quella di Luti è una presenza discreta ma inconfondibile. Roberto non è un semplice musicista, è un pittore che dipinge con la slide».
Tutti gli arrangiamenti sono molto eleganti. Avevi già in testa un suono preciso?
«Credo che L’ora dell’ormai sia un lavoro più musicale e meno verboso… Suono spesso dal vivo con i musicisti che hanno collaborato al disco, quindi avevamo già un nostro sound. Ogni volta che il budget lo permette, porto con me l’Orchestrina. Mi piace condividere il palco con altri musicisti; ed è bello che, grazie a un concerto, un dato numero di persone scopra che a Livorno c’è per esempio un grande artista come Roberto Luti. Ma anche tutti gli altri sono musicisti potenti e hanno alle spalle esperienze mostruose… il trombonista Tony Cattaneo (Roy Paci & Aretuska, Mau Mau), il violinista Steve Lunardi (Tristan Honsinger); Beppe Scardino (sax baritono) e Simone Padovani (batteria, percussioni) sono collaboratori di lunga data del trombonista Gianluca Petrella; Daniele Paoletti (rullante, piatti) ha suonato con il sassofonista Tim Berne. E poi la contrabbassista Silvia Bolognesi e il tastierista Fabio Marchiori. Infine Dimitri Grechi Espinoza (sax alto), che guida il Dinamitri Jazz Folklore; ha girato tutta l’Europa e collaborato con il poeta e scrittore afroamericano Amiri Baraka o con il clarinettista Tony Scott. Insomma, il più scarso sono io [ride]. Sono un canzonettaro, innamorato anche del rock’n’roll».
E tu, con chi vorresti collaborare?
«Se proprio dovessi dirti uno col quale mi piacerebbe fare una suonata, anche di due minuti… beh, sarebbe bello accompagnare Paul McCartney in Blackbird, oppure in Jenny Wren».
Ci sono delle influenze particolari in questo nuovo disco?
«Alle volte si ritrova una certa musicalità alla Don Backy, e poi Celentano, Tenco… C’è un percorso di ricerca che guarda alla tradizione della canzone d’autore italiana».
Vieni spesso paragonato a Piero Ciampi. Cosa hanno significato per te le sue canzoni?
«La musica di Ciampi fa sicuramente parte delle mie influenze, soprattutto per quel linguaggio crudo e per la sua capacità di mettersi completamente a nudo nelle canzoni».
Questo sembra essere anche un tuo segno distintivo…
«Sì, è anche la città che lo richiede in un certo senso, perché c’è sempre bisogno di qualcuno che si faccia portavoce di certe istanze libertarie caratteristiche del luogo. È significativo che una formazione come la Caciuk Orchestra si sia formata a Livorno, perché c’è il mare, che è un antico portatore di gente, culture, suoni, danze. L’altro giorno qualcuno mi ha detto di apprezzare il modo in cui scherzo sul palco per poi cantare una canzone come Gigi balla, che racconta una storia struggente cogliendoti di sorpresa come un pugno nello stomaco. Cerco di non prendermi troppo sul serio… ho quasi 50 anni, non sono arrivato da nessuna parte e credo che il pubblico avverta questa “non tensione”, questa voglia di buttarsi un po’ via sul palco e, alle volte, fare anche brutte figure. L’ultima volta mi sono spogliato e il giorno dopo, in città non si parlava d’altro, persino il giornale locale ha scritto: “Bobo canta nudo sul palco”. Era solo uno scherzo, niente di scandaloso».
Ti definisci un canzonettaro… cosa attira la tua curiosità di cantastorie?
«Ultimamente, per esempio, faccio delle girate in bicicletta. Ho una bici normale ma mi lancio in certe salite… I ciclisti seri mi lasciano indietro come niente, però io sudo, e girando in bici mi vengono degli spunti per le canzoni. Come diceva Don Backy, la canzone è un concetto. Quando ha scritto L’immensità sentiva il bisogno di sentirsi abbracciato, e quella canzone nasce da un semplice concetto di sei parole: “Nessuno al mondo è mai solo”. Adoro scrivere anche storie buffe, e mi piacerebbe tornare alle canzoni tragicomiche. È bello far ridere la gente… a volte basta semplicemente raccontare com’è andata la tua giornata, tipo la disgrazia del giorno, e non c’è neanche bisogno di preparare un testo. Se vogliamo, fare il cantastorie è un po’ un viaggio spirituale, anche se poi, in fin dei conti, un meccanico che lavora tutto il giorno in officina, una persona onesta, che guadagna poco, forse è molto più spirituale…».
Dicevi che con questo album hai tirato un po’ le somme, hai fatto un bilancio della tua vita fino ad oggi… A quali conclusioni sei arrivato?
«Sono arrivato al punto in cui è necessario iniziare a stare meglio, e non smettere di sperare, in tutti sensi… Anche per quanto riguarda questa crisi di cui tutti i telegiornali parlano. Ormai è diventata la televisione dell’orrore. In questo clima da dopoguerra la gente dovrebbe tornare ai valori semplici di una volta, ricominciare a stare insieme, condividere, ricostruire. Da bambino sentivo dire che in Russia vestivano tutti nello stesso modo. Ora la gente spende un sacco di soldi per fare la stessa cosa… ma con abiti firmati».

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!