22/03/2007

Francesco De Gregori

Mascherato anonimo

“Bob Dylan fa cinque serate a New York? Beh, allora dobbiamo andarci”, esclama lui. Quando leggerete queste righe Robert Zimmerman avrà completato una delle sue più lunghe residenze musicali nell’intimità di un piccolo teatro della Grande Mela (il Beacon) e forse il vostro reporter e il “principe” dei cantautori italiani ve ne faranno un resoconto.

Intanto siamo nella hall di uno dei più begli alberghi milanesi, il giorno dopo un (raro) showcase che Francesco De Gregori ha tenuto ai Magazzini Generali per presentare Pezzi, il suo primo album di canzoni in studio in quattro anni. Da due giorni si sta sottoponendo a un serrato fuoco di fila di interviste: ieri una decina di quotidiani, oggi i mensili musicali più importanti.

Quando mi vede, mentre ancora sta finendo la precedente intervista, mi saluta calorosamente: probabilmente per lui parlare con il sottoscritto è finalmente un momento di break sospirato. Di fatto più che fare una vera e propria intervista cazzeggiamo quasi tutto il tempo sparlando della nostra comune passione Bob Dylan: “Se mi è piaciuto Chronicles? Ma secondo te a noi due poteva non piacere? L’ho letto naturalmente nella versione originale in inglese”, dirà a un certo punto. Va bene così: Pezzi è il suo disco più dylaniano di sempre.

“Vai in Africa, Celestino assomiglia a Everything Is Broken di Dylan? Certamente (ne canticchia qualche verso, nda). Ormai non nascondo i debiti musicali, non me ne frega più niente. Non è una ammissione di colpevolezza, la colpa non c’entra”. Nonostante nel nuovo disco canti di un mondo che va a pezzi senza offrire alcuna certezza consolatoria, l’uomo De Gregori non mi è mai sembrato così sicuro di sé e così certo delle sue affermazioni come durante questo incontro.

Sono tante le tracce dylaniane disseminate qua e là nell’album: Numeri sparsi, sia nelle liriche che nel taglio bluesy e nei riff chitarristici ha un po’ le cadenze di Slow Train, Tempo reale ha la stessa irruenza che mette Dylan nelle rese dal vivo della sua Highway 61 Revisited e infine Parole a memoria ha, nell’intervallo tra una strofa e l’altra, il piglio di Knockin’ On Heaven’s Door.

Oltre a questo, in Pezzi c’è un’unitarietà di suono e di immagini liriche che coincidono totalmente con la visione apocalittica di Bob Dylan di un mondo sul baratro cui il cantante non vuole (o non sa) offrire alcun rimedio: “Il mio” dice quando glielo faccio osservare “è uno stato d’animo infastidito da questo mondo. Mi sento come il personaggio che Dylan cantava nel finale di Hard Rain: starò in piedi sul mare prima di cominciare ad affondare, conosco bene la mia canzone, fate quel cazzo che vi pare, fate esplodere le vostre bombe atomiche, ma io sto qui e queste cose ve le canto comunque. Non so se è una costruzione mentale perché mi piace tanto imitarlo, ma non credo proprio. Vedere il modo in cui oggi la politica viene recitata, come un teatro, tutta questa cialtroneria. Provo fastidio più che preoccupazione. Sono preoccupato per i giovani ma io. alla mia età cosa vuoi che mi freghi più”.

Non solo: “Mi sono un po’ stufato di questo modo in cui la sinistra mi ha sempre compattato. Non mi nascondo se qualcuno mi chiede per chi voto: in una società normale si risponde a una domanda del genere e io dico che voto a sinistra. Ma da questa cosa è venuta fuori l’etichetta De Gregori-cantautore-di-sinistra. Nelle mie canzoni ci sono magari a volte dei contenuti politici ma mai partitici. Su un equivoco come questo è nata la contestazione che non potevo scrivere Buonanotte fiorellino perché non essendo una canzone di sinistra allora era una canzone di destra”.

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Più che le sorti del mondo, a De Gregori oggi interessa maggiormente il sound della sua band. Ci tiene molto a sapere come era l’effetto musicale della sera precedente: “Com’era il suono? Che dici? Il tuo collega prima mi stava chiedendo qual è la cosa che come musicista mi piacerebbe ancora poter realizzare e mentre me lo chiedeva l’ho capito per la prima volta: sentire la mia band, io che canto dentro mentre stiamo suonando. È una cosa tecnicamente impossibile, come fare andare l’acqua in salita. Puoi registrare e risentire ma non è quello il suono, puoi anche ripassare il suono in un lettore e farlo uscire dalle casse del system, ma psicologicamente cambia l’effetto. Mi interessa sapere qual è il suono che si percepisce tra gli ascoltatori”.

Gli dico che ieri sera, con quell’impatto chitarristico e lui immerso in quel magma che sputava versi di rabbia e di dolore, le sue canzoni trasmettevano veramente un senso di epicità: “È questo che passa? Se è così ne sono felice. Perché è questo quello che voglio fare. Io vengo da un mondo sonoro fatto di delicatezze, chitarrine sfiorate”. Per arrivare a questo, un fatto che non ha precedenti tra i cosiddetti cantautori italiani di scuola classica, un mondo a cui da sempre Francesco appartiene, c’è voluta una lunga strada, spesso criticata, e caratterizzata da una sorta di Never Ending Tour personalissimo e tanti (per certa gente troppi) dischi dal vivo: “Tutti gli album live e tutti i concerti che ho fatto sono serviti a costruire questo suono con questa band. L’ho detto scherzando ieri sera ma io ci credo: sono il cantante della band, questi non sono dei musicisti che accompagnano il cantautore famoso”.

Pezzi è un disco a suo modo innovativo e sicuramente coraggioso per chi sogna rock in Italia (“Numeri da scaricare è molto difficile da suonare” commenta, ” per via della mancanza di batteria. Ritmicamente non funziona se non ti senti al massimo delle capacità; e poi avevo un po’ di titubanza a fare una cosa così smaccatamente blues che può suonare ridicola in bocca a un italiano”). De Gregori l’ha capito, non c’è più il rischio di errori madornali (leggi “finto rock”) come fu nel caso di Prendere e lasciare.

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C’è una eccezione, naturalmente, e cioè la bellissima Le lacrime di Nemo – L’esplosione – La fine, che entra nella galleria di classici di scuola tipicamente melodica italiana che il cantautore ha regalato negli anni, come La donna cannone o Il cuoco di Salò: “Queste sono canzoni nate sul pianoforte con la memoria alla musica che ascoltava mia madre alla radio quando ero piccolo. Le opere soprattutto, non le piacevano le canzoni napoletane, e tale musica mi è rimasta impressa. Su Nemo ci ho lavorato parecchio, non tanto sull’impianto ma sulle armonie, accordi di cui ignoro il nome ma che di volta in volta cambiavo. Ho poi dovuto lavorare parecchio con il pianista per spiegargli come doveva suonarla. Io suono il piano non da pianista, premo molto poco i tasti mentre chi studia il pianoforte deve fare il contrario. Quel particolare titolo è chiaramente influenzato dal modo in cui Salgari o Verne in apertura dei capitoli dei loro romanzi facevano la scansione dei momenti importanti”.

De Gregori ha contribuito a valorizzare la grande musica italiana anche nel caso del fortunato disco in coppia con Giovanna Marini, Il fischio del vapore: “Penso che dal punto di vista discografico quell’episodio rimanga lì, non credo ci sarà un seguito. Ho prodotto due dischi suoi: uno con la band e canzoni di Giovanna, Buongiorno buonasera, e uno piuttosto di nicchia in cui lei canta le passioni della Pasqua, canti religiosi fatti a polifonia vocale a quartetto. Molto bello ma scarsamente vendibile. Con Il fischio del vapore mi aspettavo un po’ di successo, ma non così tanto. Sai quando si è sbloccata la situazione delle vendite? Quando siamo andati al programma di Gianni Morandi un sabato sera. Uno dei rari casi, forse l’unico della mia vita professionale, in cui sono andato in televisione al sabato sera e il lunedì mattina mi chiama la Sony e mi dice: invece di vendere le solite mille copie oggi ne abbiamo vendute 12mila. Morandi fu molto bravo a gestire la cosa”.

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Nel booklet del disco c’è una foto con almeno una ventina di chitarre di tutti i tipi in bella mostra su un tappeto: “E quelle non sono nemmeno tutte quelle che abbiamo usato. Sono due terzi, tutte non ci stavano”, dice entusiasta De Gregori.

Così come c’è una ancor più bella foto di Marco Rosini, il bravissimo mandolinista che dà a tutto il disco un tocco di classe in più, scomparso improvvisamente il 30 dicembre scorso a soli 40 anni (vedi box in questa pagina). “Un altro mandolinista non ho avuto il coraggio di prenderlo. Allora ho preso la pedal steel che è anche quella uno strumento non solo da Grand Ole Opry. Il mandolino è uno strumento che a torto è considerato tipico della musica country, invece si fonde bene con qualsiasi sonorità. Uno che ne ha fatto un ottimo uso nella musica rock è stato Rod Stewart, vedi la sua Mandolin Wind”.

Marco Rosini ha fatto anche di più per De Gregori. Ha contribuito a una delle sue più belle cover di sempre, Come il giorno, versione italiana della dylaniana I Shall Be Released: “Era il pezzo preferito di Marco. Quando lui sentì la mia traduzione di If You See Her, Say Hello mi suggerì di tradurre anche I Shall Be Released. Il mandante è stato lui. Un pomeriggio mentre eravamo in tournée cominciai a buttare giù la traduzione. Poi l’abbiamo suonata pensando entrambi alle tante versioni fatte da Dylan dal vivo. Ho visto che sul qualche sito dylaniano hanno criticato la mia traduzione, ma versi come ‘Any day now any day now I shall be released’ sono intraducibili”.

Come il giorno è invece una versione azzeccatissima, non solo liricamente ma anche musicalmente, in cui la bad di De Gregori mostra tutto il suo altissimo livello, riproducendo le intricate trame sonore del Bob Dylan live.

A proposito di cover dylaniane, è impossibile non chiedergli dell’inclusione nella colonna sonora di Masked & Anonymous, della sua Se la vedi dille ciao, un’altrettanto splendida resa di If You See Her, Say Hello: “Un giorno dalla Sony mi chiedono l’utilizzo di questo brano. Io pensavo fosse uno scherzo. Mi dicono: guarda che Bob Dylan vuole mettere nel suo disco la tua versione di If You See Her. Mah. Invece dopo un po’ mi arriva questo disco con su addirittura uno sticker per il mercato europeo col mio nome. Un bel colpo al cuore, capirai. Pensa che il film non l’ho neanche visto”.

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E così Francesco De Gregori, cantante in una band, sta per tornare on the road, la sua amata strada. A partire da maggio terrà alcuni concerti nei palasport. In un’intervista di dieci anni fa gli chiedevo perché non fa più uno dei suoi pezzi più belli di sempre, Informazioni di Vincent. Glielo chiedo di nuovo: “Ok, accetto richieste. Ero a sentire mio fratello una sera e c’era questo ragazzino proprio piccolo che mi dice: perché non fai mai Capo d’Africa? Che cazzo ne sai tu che non eri neanche nato quando l’ho scritta, volevo dirgli. Però poi ci siamo messi a provarla e la faremo nel nuovo tour. Proverò a fare anche Vincent. Hai ragione, è un pezzo che si presta bene musicalmente. Vorrei mettere su se ci riesco 50 canzoni, 30 o 40 già ce l’ho e su queste 50 divertirmi ogni sera a cambiare”.

Parlando di tournée, qualche tempo fa aveva detto: “Il tour con Mannoia, Ron e Daniele lo considero un’esperienza chiusa. Quello con Lucio Dalla entra nella storia della musica”. Davvero? “Storicamente la tournée con Dalla voleva dire tornare a suonare nei grandi spazi, un ritorno alla dimensione live in Italia dopo una stagione infelice. Fu uno spartiacque. E poi c’era questa imprevedibilità nel suonare assieme: lui, un musicista sporco di jazz e umanamente ambiguo, e io che a quel tempo ero una figura esile. Era una miscela molto esplosiva. Il tour dei quattro invece è stato soprattutto il tour con Pino Daniele, una persona che stimo molto musicalmente e umanamente. Ma per il resto era una specie di rappresentazione dei nostri greatest hits, a volte suonavamo tutti insieme con risultati un po’ così. È stato un bel modo di passare l’estate ma niente di più”.

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Mentre ci salutiamo do un’occhiata di sfuggita ai tanti quotidiani sparsi sul tavolo che riportano le interviste che Francesco ha concesso il giorno prima. Spiccano una serie di dichiarazioni al vetriolo su Bruce Springsteen. Ridacchia: “Mi sono fatto nemica mezza Italia con le mie dichiarazioni su Springsteen. Non deve fare il folksinger, non è capace. Non sa neanche suonare l’armonica a bocca, non è quello il modo in cui va suonata l’armonica folk secondo me”. Francesco De Gregori, cantante in una band, incazzato con tutti e tutto. Fantastico. L’ultima chicca: “La figura di Dylan nella cultura americana è centrale, in Italia un comico scrive un libro e diventa un intellettuale. Io posso scrivere tutti i cuochi di Salò che voglio ma mi sento sempre dire: ma perché non vai a Sanremo, te la tiri eh?”. Vai in Africa, Celestino.

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