26/01/2009

MARLENE KUNTZ

«Il nostro passato prossimo»

Al tempo eravamo dei pischellini. Era appena uscito il nostro primo album, Catartica. Eravamo contenti e onorati quando abbiamo saputo che un artista del calibro di Giovanni Lindo Ferretti voleva inserire la nostra Lieve in un disco ufficiale dei Csi. È stato proprio lui a sceglierla. Non posso che averne un ricordo ottimo». Le parole di Cristiano Godano, in occasione dell’uscita del Best Of che raccoglie il meglio dei Marlene Kuntz, tradiscono l’emozione di quel momento cruciale nel quale il Consorzio Produttori Indipendenti ha prodotto e promosso il gruppo piemontese nel mondo della discografia indipendente. Era da tempo che i Marlene cercavano un’etichetta: «Avevamo inviato anche una demo alla Vox Pop di Giacomo Spazio, dove lavoravano Manuel Agnelli (Afterhours) e Mauro Ermanno Giovanardi (La Crus); ci siamo sentiti rispondere che i nostri suoni erano buoni, ma dovevamo cambiare il cantato».

Facciamo un passo indietro, un passo lungo 20 anni: era il 1989 quando Luca Bergia chiedeva a Cristiano se voleva unirsi a un trio formato da chitarra, basso e batteria «che suonava assieme da una decina di mesi senza il riferimento preciso di una voce. Si trovavano, suonavano, ma non avevano la capacità di creare una canzone proprio perché non avevano un cantante. Io» continua Cristiano «ero reduce da un’esperienza fallimentare con un’altra band che si chiamava Jack On Fire! e che, in provincia, aveva avuto una sua piccola gloria locale: chiunque si interessava di musica sapeva che esistevano i Jack On Fire! e che avevano un cantante di nome Cristiano Godano. Quando il mio gruppo s’è sciolto Luca, il batterista, mi ha incontrato cercando l’occasione giusta e s’è fatto avanti. Sapevamo entrambi chi eravamo, anch’io li avevo già visti svariate volte; così mi ha riferito che stavano cercando una voce. La cosa è nata in modo naturale e da subito siamo diventati una realtà che o si amava o si detestava, difficilmente lasciava indifferenti». È buffo ascoltare gli aneddoti che si nascondono dietro a quel disco passato alla storia per avere un fiore rosso sgargiante in copertina e l’incazzatura più nera tra le tracce. «Eravamo fastidiosi, provocatori. Cercavamo di riprodurre sonorità che per l’Italia dell’epoca risultavano essere originali: avevamo in testa i Sonic Youth e gli Einstürzende Neubauten. Con il pubblico tenevamo un approccio serioso e intellettuale e non caciarone, surreale e goliardico come i Butthole Surfers, altro punto di riferimento artistico. All’epoca era facile fare casino, essere irruenti e arrembanti».
L’incontro con Maroccolo, definito come «premessa per una storia di amore e di amicizia che tuttora mantiene inalterate, se non addirittura migliorate, le caratteristiche di partenza», la crescita del gruppo con la conseguente maturità artistica e personale, le dinamiche all’interno della band e i rapporti con gli altri artisti della scena italiana e internazionale: ascoltare i vissuti e i pensieri di Cristiano lascia affascinati. Il loro modo di essere in questi vent’anni è cambiato molto: se prima davanti a una ragazza silenziosamente la mandavano a cagare lasciandola senza sapere come stare – parafrasando Festa mesta – ora si lasciano stregare e rapire dalla sua giovane saggezza e dall’eleganza di ogni sua intenzione, come viene raccontato in Musa. Atteggiamenti diametralmente opposti, le cui differenze sono sottolineate dalla musica formata da chitarre lancinanti nel primo caso e dal pianoforte di Paolo Conte nel secondo. «Nella giovinezza ci sono urgenze di un certo tipo e le si possono far coincidere con la necessità di spaccare il mondo senza nemmeno riflettere troppo, ma questa energia non è facile da mantenere e, col tempo, si mescola e si trasforma in altro; nel nostro caso s’è trasformata in bisogno di creare qualcosa di bello. Non abbiamo più quella energia vulcanica sempre in procinto di esplodere, ma abbiamo un desiderio di pari intensità che ci fa dire: ok, adesso andiamo in sala prove, abbiamo voglia di fare un altro disco. E da quel momento ci mettiamo al lavoro. L’importante è trovare un motivo di stimolo. Questo è quello che accade a qualsiasi gruppo che dopo sette album continua a suonare; è veramente ingenua la persona che crede che i musicisti dopo vari decenni abbiano una urgenza paragonabile a quella di quando erano adolescenti. Io spero che questa credenza stupida possa appartenere a un ventenne, ma se la trovo in un quarantenne ho la certezza che questo non ha capito come funziona e per me quella persona non ha valore».

Ora come allora i testi dei Marlene nascono dalla penna di Cristiano, stimolata dalle realtà quotidiane, dalle emozioni che queste sanno suscitare e dai pensieri che innescano: «Da scrittore posso essere davvero colpito da qualsiasi cosa. Quando sono da solo con me stesso e vivo un’esperienza creativa in perfetta solitudine, molti piccoli elementi della vita si possono trasformare in canzone. Un artista che fa quello nella vita ha una sensibilità pronta e qualsiasi suggestione può diventare oggetto di narrazione; sta al talento di ognuno l’utilizzare certi dati piuttosto che altri. Alcuni scrittori riescono a raccontare benissimo il mondo esterno e, se fanno una passeggiata in un bosco, sanno trasferire le emozioni che un certo paesaggio o un certo cielo gli ha procurato con una dimensione poetica sacrosanta. Io sono uno scrittore di testi che è stimolato da altre occasioni e non ho mai parlato di canti di uccelli in un bosco, ma magari un giorno lo farò». Descrive, poi, come ha imparato a comporre le liriche, da autodidatta, lottando contro le parole per tirare fuori un risultato che fosse sia musicale sia denso di significato; la sua palestra sono stati i ritmi e le misure imposti dalle canzoni dei Marlene, gli stessi nei quali si dovevano incastrare le frasi. «Sono tanti i pezzi sui quali ho sudato intere giornate. Per me il ritornello è il momento più difficile e lo è ancora di più se arioso e richiede poche parole: hai presente il classico ritornellone con quattro o cinque vocaboli e grandi vocali? Ecco, quello. Devi frenare l’istinto che ti spinge a pensare a verbi tronchi, magari al futuro, che ormai sono abusati, cose tipo “mi amerà” o “andrà”. La composizione non la considero chiusa se non è come dico io, non sono una persona che si accontenta; d’altronde Leonard Cohen, uno dei più grandi scrittori di testi che la storia del rock conosca, ha sempre dichiarato che certe canzoni stavano nei suoi taccuini anche due o tre mesi, finché non era pienamente soddisfatto di quanto aveva ideato».

Domanda imprescindibile nel momento in cui esce questo Best Of è il rapporto che hanno i Marlene con le cover visto che la raccolta contiene, oltre all’inedito Il pregiudizio, anche Impressioni di settembre, Non gioco più e La libertà, portate al successo nella prima metà degli anni 70 rispettivamente da Pfm, Mina e Giorgio Gaber. Cristiano, da grande fan di Nick Cave qual è, cita subito l’abitudine del musicista australiano di infilare nei suoi dischi ufficiali brani rivisitati, poi racconta la piacevolezza della sfida che il trio ha ingaggiato volendo metter mano a questi cult del nostro paese, in special modo al brano della band milanese in quanto è tra le musiche che hanno segnato la sua gioventù, lo ha amato ed è nelle sue corde. Su Il pregiudizio, invece, racconta che «è il classico testo di riflessione nel quale ogni tanto mi capita di finire e di impantanarmi. Quando rifletto con piglio filosofico comincio a chiedermi i vari perché, i pro e i contro; mi rendo conto che questo atteggiamento non mi porta mai a una soluzione ma a constatare che la realtà è complicata. D’altronde sono uno che diffida delle certezze».

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