15/05/2007

David Byrne

Grown Backwards – Nonesuch/Warner

David Byrne m’ha convinto: alle prossime elezioni voterò destra. M’ha convinto con una canzone intitolata Empire (Impero), un ipotetico inno repubblicano gonfio e fiero che parafrasa The Times They Are A-Changin’. Se in quella canzone Dylan ammoniva deputati e senatori a “dare ascolto alla chiamata” e in sostanza a non bloccare l’onda del cambiamento, Byrne dà la sveglia a “giovani artisti e scrittori” di sinistra affinché comprendano che “ciò che è giusto per gli affari, è giusto per tutti noi”, principio base del liberismo sfrenato. Non sono state le parole a convincermi, però. M’ha convinto la musica, arrangiata da Carla Bley e suonata da un pezzo della sua big band (tra cui Steve Swallow e Karen Mantler): così solenne e fiera, imperiosa nella sua compostezza, con favolosi richiami militareschi dei fiati.

Naturalmente Empire è una canzone sottilmente ironica, così come ironica era la mia dichiarazione programmatica di voto. Però ci dice qualcosa sul credo politico di Byrne e sulla sua capacità di affrontare da un punto di vista originale un argomento abusato (l’America imperialista costruita sui valori del lavoro e della potenza, tsè, l’ho già sentita questa). Ma credo ci dica ancora di più sul potere che ha la musica di dare eloquenza a un concetto e profondità emotiva a un testo. Proprio alle emozioni punta spudoratamente Byrne con Grown Backwards, disco non a caso scritto a partire dalle melodie e arrangiato facendo a meno delle convenzioni della musica pop: poche chitarre e tastiere, una gran quantità di archi, fiati, percussioni. In un’epoca in cui su un disco di quindici pezzi ce ne sono solamente tre o quattro melodicamente azzeccati, Byrne se ne esce con una dozzina di arie favolose. Alla sua età è un lusso, chiedetelo ai cinquantenni che si dannano l’anima per trovare una buona canzone e in mancanza di meglio continuano a suonare quel che avevano scritto a vent’anni. L’ironia e la leggerezza con cui sono affrontati i brani assicurano all’album soavità e piacevolezza. La scelta di evitare le strutture del blues, che stanno poi alla base del rock, dona a Grown Backwards un’aura senza tempo: ascoltarlo fra cinque anni non sarà un dolore, ma un piacere, e fra dieci anni non sarà fuori moda.

Ora, non basta arrangiare qualche canzone melodiosa con viola, violino e violoncello per dire di aver fatto qualcosa di bello. Bisogna saperci fare. E in questo, Byrne, il produttore Patrick Dillett e Stephen Barber, che ha curato gli arrangiamenti, hanno dimostrato di possedere una raffinatezza fuori dal comune e un gusto spiccato per la cura dei particolari strumentali, oltre naturalmente alla capacità di circondarsi di musicisti talmente bravi da fornire personalità alle canzoni senza farlo notare, in grado di utilizzare gli strumenti ad arco in modo moderno e creativo.

Una serie di deliziose canzoni pop costituiscono la struttura portante dell’album. Se l’iniziale Glass, Concrete & Stone stabilisce il tono del lavoro col piacevole supporto armonico del violoncello (Jane Scarpantoni) e ritmico della marimba (Mauro Refosco), brani melodiosi come She Only Sleeps (con l’accompagnamento degli irriconoscibili Morcheeba senza Skye), Tiny Apocalypse, il sogno ad occhi aperti di Pirates, l’ironica Civilization, l’irresistibile Glad dimostrano la capacità di Byrne di essere leggero ma non stupido. Deliziano i Rhodes di Tiny Apocalypse, gli archi da musical di The Other Side Of This Life, la fisarmonica di Civilization e il theremin di Astronaut: tutto concorre a fare di Grown Backwards un album di cui è bello andare a scoprire i particolari.

Pur essendo nati in contesti diversi (Austin, Glasgow, Londra, vari studi di New York) e suonati da decine di musicisti di varia estrazione, i pezzi costituiscono un insieme coerente. Persino la trasformazione in canzoni di due arie d’opera come la sublime Au fond du temple saint di Bizet, con la maiuscola partecipazione vocale di Rufus Wainwright, e Un dì felice, eterea di Verdi trovano la giusta collocazione e non stonano affatto – nemmeno David stona, nonostante in quei due pezzi sia al limite delle sue capacità vocali che, si sa, non sono portentose. Non abbiamo invece ascoltato la nuova versione di dieci minuti di Lazy posta in chiusura come bonus track. È trasfigurata e resa addirittura straordinaria The Man Who Loved Beer dei Lambchop, altra prova tangibile del talento di Byrne.

Nell’arte rischia grosso chi cambia continuamente posizione pur di non restare fermo nello stesso posto. Accentuando il carattere melodico del precedente Into The Eyeball e dando alle canzoni una veste più sofisticata e rigorosa, David Byrne non ha sbagliato. Ha dimostrato d’essere un’artista sensibile e una delle ultime teste pensanti del pop mondiale.

(L’album esce il 12 marzo.)

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Voto: 8
Perché: scava col talento – di Byrne e dei suoi collaboratori – una terza via tra musica sofisticata e canzone leggera.

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