28/10/2013

L’intellettuale del rock

Lou Reed ci ha lasciati. Ai tempi di “The Raven” lo descrivevamo così…

A molti avrà fatto un certo effetto sentire associare il nome di Lou Reed, il rock’n’roll animal per eccellenza, a quello del poeta e scrittore Edgar Allan Poe. Il nuovo album The Raven, uscito il 28 gennaio in un’edizione limitata di due cd, contiene canzoni e recitati che il 60enne newyorchese ha ripreso e riadattato dalle poesie e dai racconti dello scrittore.

Non c’è da sorprendersi invece, se l’immagine attuale di Reed è quella di un raffinato intellettuale newyorchese che può permettersi di sorvolare con estrema noncuranza i suoi viaggi sul “lato selvaggio”, coniugando finalmente con maturità la sua innata predisposizione al rock sanguigno con l’amore per la letteratura. D’altronde la dicotomia tra rock’n’roll animal e passione intellettuale è sempre stata un punto cardine dell’intera carriera di Lou Reed, che ha percorso tutti i suoi dischi, dai primi con i Velvet Underground fino ad arrivare al penultimo Ecstasy. Probabilmente il tutto è da far risalire all’incontro con il poeta Delmore Schwartz, suo insegnante di letteratura all’università, al quale Reed ha dedicato più di una canzone e che è ha rappresentato una forte influenza sulle sue scelte stilistiche. Schwartz ha incarnato per Reed l’eroe letterario per eccellenza, con la sua personalità instabile e le sue crisi maniaco-depressive che lo avrebbero portato all’autodistruzione. L’opera forse più rappresentativa di Schwartz è la raccolta di racconti Nei sogni cominciano le responsabilità il cui linguaggio antiretorico e asciutto ha offerto a Reed l’esempio del realismo letterario al quale aspirava.

“Trovai il racconto davvero formidabile”, ha detto Reed a tale proposito, “poter fare tutto ciò in poche pagine usando le parole più semplici, e creare qualcosa di incredibilmente efficace. Si poteva ottenere lo stesso risultato senza avere a disposizione il più grande vocabolario del mondo. È così che volevo scrivere, con parole semplici che suscitassero emozioni, e accompagnarle con i miei tre accordi.”

Quella a cavallo tra gli anni 50 e gli anni 60 è stata una stagione di grosso fermento letterario e artistico, e molti erano gli scrittori che si cimentavano con nuove tecniche letterarie. Reed rimane folgorato soprattutto da Chandler e Selby. Malgrado siano rimasti confinati alla letteratura di genere giallo, i romanzi di Raymond Chandler hanno dato un grande contributo alla prosa americana svecchiandola dai manierismi; l’uso di uno stile di scrittura evocativa e ‘visuale’, l’utilizzo accorto di immagini alternate di luce e ombra, il punto di vista assolutamente e perennemente soggettivo e distaccato del detective Marlowe si possono ritrovare in molte canzoni di Reed degli anni Settanta. Il chandleriano disincanto rassegnato e ironico di Sweet Jane o di A Gift ne sono solo l’esempio più lampante. A tal proposito Reed ha dichiarato: “Chandler scrive: ‘Quella bionda era attraente come un labbro spaccato’. Difficile far di meglio. Poi si mette a parlare dell’unghia di un pollice, gli viene in mente che quell’unghia sembra l’orlo di un cubetto di ghiaccio. E, bum, ce l’hai davanti agli occhi. È proprio quello che cerco di fare anch’io. Provo a descrivere in poche parole un’immagine dal forte impatto visivo, in modo che si possa subito ritrarla mentalmente”.

Anche come modello umano, Chandler si avvicinava pericolosamente alla figura di Schwartz, con il suo abuso di alcol e droga e un tentato suicidio, e all’altro modello letterario di Reed: Huber Selby Jr.

Forse Selby, più di tutti, incarna lo stile scabroso, crudo, coinciso che Reed ha utilizzato nelle sue canzoni proprio perché lo scrittore, come il rocker, ha descritto l’umanità metropolitana che lo circondava, quella dei bassifondi, quella degradata. Reed ha fatto tesoro della naturalezza asettica e della tecnica linguistica innovativa ed efficace con il quale Selby descrive i comportamenti bestiali e crudeli dei personaggi del suo romanzo più famoso, Ultima fermata Brooklyn: le pagine sono spesso prive di una struttura sintattica tradizionale, e l’utilizzo di un linguaggio osceno e di espressioni gergali dalla grafia identica alla pronuncia fonetica fanno del libro una lettura dirompente ed entusiasmante, che descrive perfettamente, senza compromessi stilistici, il brutale mondo dei bassifondi newyorchesi.

Ogni volta che Reed ha poggiato la penna su un foglio per operare quel processo di sintesi e di condensazione che impone la forma canzone, è riuscito a rendere immagini precise e potenti ad ogni strofa, utilizzando le tecniche dei suoi maestri. La canzone Sister Ray, uno dei cavalli di battaglia dei Velvet Underground, che nelle esecuzioni live veniva portata anche alla lunghezza estenuante di 40 minuti, sembra derivare proprio da una lettura attenta e partecipe dei racconti del libro di Selby: i suoi transessuali, omosessuali, drogati e marinai che si lasciano andare ad un’orgia ricordano da vicino i personaggi di La regina è morta. E forse sarà un caso, ma sicuramente interessante, il fatto che nello stesso racconto il malinconico travestito Georgette, in un ambiente assurdo e sordido, tiri fuori The Raven di Edgar Allan Poe e si abbandoni alla sua declamazione in un clima decadente e orgiastico, come una fuga dalla cruda realtà che lo circonda.

È facile immaginare come la ricercata e frenetica intellettualità di Reed si sia sposata bene con la placida e profonda cultura di John Cale e, in seguito, con l’approccio minimalista e iperrealista di Andy Warhol, fondendosi in una vera e propria ‘bomba’ innovativa chiamata Velvet Underground. I testi scabrosi e particolari di Reed, accompagnati da una corrosiva ritmica rock, si amalgamano agli arrangiamenti di Cale in un modo che, all’epoca, lasciava sconcertati. Cale suonava la viola amplificata, eredità dei suoi studi con il compositore di musica seriale LaMonte Young, e aveva modificato lo strumento in modo che avesse il ponte appiattito e far sì che l’archetto potesse sfiorare le corde, tutte accordate sulla stessa nota, contemporaneamente. Questo particolare sistema, battezzato da Young “Just intonation system”, dava alla musica dei Velvet Underground un caratteristico suono di accompagnamento prolungato sulla stessa tonalità, detto bordone, sulla quale gli altri membri improvvisavano. L’anima sperimentale del gruppo si affina e prende corpo tra il giugno e il luglio del 1965, durante le prove nel piccolo e squallido appartamento che Cale aveva a Ludlow Street, Manhattan. È lì che il nucleo primordiale del gruppo che cambiò la storia del rock si forma, è lì che il nome cambia da Warlock a Velvet Underground (preso dal titolo di un libro giallo di Michael Leigh che riportava in copertina una frusta e dei lunghi stivali di pelle) ed è sempre lì che i due incidono i primi demo delle canzoni, tra cui la splendida Venus In Furs. La canzone è senz’altro rappresentativa della musicalità innovativa e affascinante e delle tematiche scabrose del gruppo: il titolo è preso dall’omonimo romanzo di Leopold Von Sacher-Masoch (dal quale deriva il termine ‘masochismo’) e trattava, appunto, di un rapporto sado-maso. La citazione letteraria, all’epoca, sfuggì a molti, ma di certo non il significato della canzone.

L’apporto fondamentale di Sterling Morrison alla chitarra e del ritmo scarno e minimalista della batterista Maureen Tucker aiutano a creare una miscela esplosiva che non manca di essere notata da un osservatore attento quale Andy Warhol. L’esponente di spicco della pop art ha in mente, all’epoca, di creare una vera e propria performance multimediale costituita dall’esecuzione, in contemporanea, di numerosi eventi artistici: proiezioni di suoi film, musica dal vivo, danza, fotografi e ballerini tra il pubblico, e complessi effetti di luci. Secondo la teoria di Warhol, la sua è una regia passiva ed è il pubblico con le sue reazioni la parte attiva dell’opera d’arte. Per lo spettacolo che ha in mente, a Warhol manca un gruppo musicale provocatorio capace di scatenare reazioni contrastanti nell’ascoltatore: è naturale che rimanga folgorato dai Velvet Underground, scritturandoli prima per il nuovo spettacolo Up Tight (in seguito rinominato Exploding Plastic Inevitable), e facendoli entrare a far parte a tutti gli effetti della famigerata Factory, il suo laboratorio artistico.

La natura minatoria della contrapposizione tra cultura ‘alta’ e cultura di massa di Andy Warhol e della Factory è uno dei maggiori punti in comune tra l’artista pop e Lou Reed. I soggetti preferiti da Warhol per le sue opere sono oggetti prodotti in serie ma che vengono investiti dai mass media di un simbolismo che va al di là del significato dell’oggetto stesso; il suo quadro è rappresentazione non dell’oggetto ma della sua trasformazione in icona, portando alla ribalta la venerazione della merce attraverso un gusto estetizzante glamour. Walk On The Wild Side, una della canzoni più famose in assoluto di Lou Reed, mette in pratica proprio questo concetto warholiano di superficie per creare personaggi e immagini che hanno un impatto iconografico immediato e simbolico, attingendo a piene mani dall’eterogeneo universo di figure umane della Factory per renderle ‘simbolo’ di una popolazione di disadattati ed emarginati: dal travestito Holly Woodlawn al marchettaro Joe D’Alessandro, dallo spacciatore Sugar Plum Fairy alla tossicomane Candy Darling.

Il laboratorio artistico offriva senza dubbio una libertà totale e un ambiente tollerante nella quale si ritrovavano giovani artisti, gente di strada, tossici, omosessuali, travestiti e musicisti rock. Il fascino esercitato sul giovane Lou dagli emarginati e dagli esclusi è stata la risposta all’amara sensazione di estraneità che lo ha sempre accompagnato, all’impressione di non essere del tutto normale; fatto probabilmente scaturito dai trattamenti di elettroshock, allora una terapia molto usata negli Stati Uniti, ai quali i genitori lo costrinsero a sottoporsi negli anni Cinquanta per curarne quelli che consideravano disturbi di personalità (tendenze omosessuali, amore per il rock, scatti d’ira, uso di stupefacenti).

Nel 1967 il connubio Warhol-Velvet Underground si trasforma nella produzione del primo disco The Velvet Underground And Nico. Nico, altra figura importante della Factory, è imposta da Warhol come figura in aperto contrasto all’arroganza e alla brutalità della musica del gruppo; biondissima, splendida, vestita di bianco e dall’aspetto austero, Nico impreziosisce l’album, con la pronuncia teutonica (era ungherese) di un’ambiguità ancora maggiore cantando brani come Femme Fatale, che Reed scrisse per lei durante la loro breve relazione, e All Tomorrow’s Parties. Inizialmente anche il brano d’apertura Sunday Morning avrebbe dovuto essere inciso da Nico, ma Reed si oppose testardamente interpretandola in prima persona, utilizzando poi la tecnica del pitch in fase di missaggio per alzarne la tonalità.

La produzione di Warhol si limita a ‘pagare’, dando carta bianca al gruppo e raccomandandosi di non scendere a compromessi e di “lasciare tutte la parolacce” in fase di registrazione. Il risultato è un disco unico, elettrizzante, che ha influenzato decine e decine di musicisti negli anni a venire, a cominciare da David Bowie (uno dei primi fan, che paga tributo ai Velvet eseguendo alcuni brani dal vivo nei primi anni Settanta). È il 1967, l’estate dell’amore. Ma il disco racconta tutt’altra storia: dalla delicata paranoia di Sunday Morning alla cruda cronaca di I’m Waiting for The Man, storia di droga e spacciatori, all’ipnotica e malata Venus In Furs fino a Heroin, descrizione degli effetti della droga. Tutte le tematiche più scabrose per l’epoca raccolte in un solo album e raccontate con la narrazione apparentemente impersonale e deliberatamente distaccata di Reed.

Non sorprende che le canzoni furono bandite dalle radio e il disco fu un flop clamoroso, fatto dovuto anche a problemi di distribuzione. Mentre la copertina è creata da Warhol e rappresenta una banana gialla, su sfondo bianco, sbucciabile e che molti interpretano come una metafora sessuale, il retro è composto da una foto scattata durante una serata dell’Exploding Plastic Inevitabile nella quale, alle spalle del gruppo, campeggia il volto di un attore di un film di Warhol che veniva proiettato. Dietro denuncia dell’attore, l’etichetta discografica dovette ritirare il disco e ristamparlo ritoccando la foto. La collaborazione con Warhol finisce subito dopo quando Reed, insoddisfatto delle capacità manageriale in ambito musicale dell’artista pop, lo licenzia.

Se il successivo White Light/White Heat porta la sperimentazione dei Velvet Underground ancora oltre, sfocia anche nell’abbandono del gruppo da parte di John Cale per dissapori con Lou. Sicuramente è questo il primo punto di svolta di Lou Reed; dopo l’abbandono di Cale i Velvet Underground diventano sempre più una backing band di Lou Reed e i due dischi successivi soffrono della mancanza del talento di Cale, sostituito dal giovane bassista Doug Yule. Ne soffrono, è vero, ma risultano comunque due lavori assolutamente sbalorditivi e di altissimo livello. Il talento di Reed si affina e il quarto e ultimo album Loaded, il primo a riscuotere successo, colleziona alcune delle canzoni commercialmente più riuscite dei Velvet Underground ma segna anche l’abbandono dei Velvet Underground da parte di Lou Reed che, stressato dalle pressioni e deluso nelle aspettative, si prenderà una pausa di quasi un anno dal mondo artistico. Molte della canzoni dell’album sono cantate da Doug Yule, a causa di una malattia che colpì Reed durante le session di registrazione.

Malgrado l’abbandono di Warhol come manager, l’artista è stato senza ombra di dubbio una delle figura più importanti per Reed e Cale, tanto che vent’anni dopo, in seguito alla sua morte, si ritrovano insieme per incidere un intenso e meraviglioso omaggio al loro amico e mentore: Songs for Drella.

Quelli a cavallo degli anni 90 sono senza dubbio gli album nei quali Reed ha tracciato un bilancio di vita e di maturità artistica. New York, Songs For Drella e Magic And Loss compongono sicuramente una trilogia intensa ed esaltante di una ritrovata vitalità artistica e intellettuale, a completo riscatto del periodo degli anni Ottanta, costellato di album mediocri. Tutti e tre gli album, sebbene musicalmente diversi, sono una riflessione sugli amici perduti, sul tempo trascorso, sul cambiamento avvenuto.

Uscito nel 1990, e accompagnato da un video che riprende il concerto filmato un anno prima, Songs For Drella ripercorre poeticamente la figura dell’artista e dell’uomo attraverso canzoni essenziali e a tratti toccanti, basate su chitarra, pianoforte e viola. Durante lo spettacolo, in chiaro riferimento all’Exploding Plastic Inevitable, venivano proiettate immagini e foto di Warhol.

Se Songs For Drella è sicuramente un album intellettuale e poco commerciale, non è da meno Magic And Loss, sicuramente uno degli album più intensi di Lou Reed composto in seguito alla perdita di due cari amici: il musicista Doc Pomus e ‘Rotten’ Rita. Nelle quattordici tracce dell’album scorre il mistero della morte, la perdita, la malattia, la fragilità dell’esistenza. Materia del genere sarebbe risultata macabra e scontata per molti altri artisti, ma Reed la trasforma in un lavoro fortemente poetico e doloroso, profondamente umano, che fa scorrere sulla pelle le emozioni e la paura dell’inutilità di fronte a un male che non può essere compreso. L’abilità di riuscire a trovare la giusta armonia tra ansia, coraggio e sarcasmo, e la comprensione finale che la morte è parte essenziale della vita, fa di questo album un piccolo capolavoro di poesia. La grandissima cura che Lou Reed ha messo in questo materiale è evidente in tutti gli arrangiamenti, e Magic And Loss contiene alcuni dei suoi testi più intensi, emozionanti e intelligenti come scrittore.

Perché il 60enne newyorchese rimane sempre, più che un musicista, uno scrittore e un poeta. Ha tenuto a ribadirlo anche a Venezia lo scorso giugno, in occasione della prima mondiale del minitour Words & Music portato in Italia con la sua compagna Laurie Anderson: “Ginsberg e gli altri erano scrittori puri, mentre noi utilizziamo la musica per accompagnare i testi”. E lo spettacolo di Lou e Laurie si basava proprio su questo: smettere per una volta i panni del rocker e concentrarsi sul potere poetico dei testi, denudarli della facile veicolazione del ritmo popolare e trasformarli in reading con accompagnamenti minimalisti incentrati soprattutto sullo splendido violino elettrificato della Anderson, da sempre un’avanguardista. Il lavoro di intellettualizzazione operato dai due è stato forse un colpo duro per tutti gli amanti del sano, robusto rock’n’roll à la Lou Reed, ma ha dimostrato per l’ennesima volta che, dopo quasi quarant’anni di onorata carriera, sa ancora reinventarsi e giocare duro. Ad una persona del pubblico che a Venezia si è alzata in piedi urlando “rock’n’roll!”, Lou ha risposto seccamente: “Questo è un reading. O non sapete leggere?”.

D’altronde non dovrebbe destare stupore se a farlo sia stato proprio Reed, se conosciamo quanto la poesia e la cultura siano da sempre state la trama robusta intrecciata alla sua musica, come dimostra l’album New York.

Nel 1989 quel capolavoro cinico di New York restituì dignità artistica a un Lou Reed fiaccato da quasi un decennio di dischi scarsi (gli anni Ottanta sono stati, per quasi tutti i grandi artisti del passato, una via crucis). Dopo aver raccontato per anni e anni le strade della sua città, finalmente Lou ci si immerge completamente, raccontandone il cambiamento e utilizzando le sue tecniche cinematografiche al meglio delle possibilità. L’Aids, il razzismo, la droga, la figura di Andy Warhol che si aggira come un fantasma per i vicoli della città offrono uno squarcio disincantato ma ricco di amore per una città che è diventata spietata. Sono sequenze di un film, piccoli quadri e fermo immagini di personaggi simbolici, come ci aveva abituato sin dagli esordi e come era già riuscito perfettamente in quello che ad oggi è il suo capolavoro solista: Berlin, del 1973.

Ad appena un anno di distanza dal suo album più famoso, quel Transformer che il Re Mida David Bowie, in veste di produttore, aveva contribuito a lanciare in cima a tutte le classifiche con hit come Walk On The Wild Side e Perfect Day, il rock’n’roll animal sorprese critica e pubblica incidendo un disco assolutamente anticommerciale. Berlin riassume tutte le implicazioni intellettuali del Lou Reed dell’epoca, abilmente mischiate alla sua sensibilità iperrealista; quasi un concept album su una storia d’amore malata, degenerata e cinica, definita dallo stesso Reed “un film per le orecchie”. I riferimenti autobiografici al fallimentare matrimonio con l’allora moglie Betty sono lampanti, eppure possiamo anche non essere sedotti dalla continua ricerca di un riscontro nel privato. Già la scelta del titolo è significativa: a Lou non interessa ambientare la storia nella città in sé, ma riuscire ad evocarne l’alone di decadenza e sfascio postbellico, i cabaret fumosi e le canzoni di Brech e Weill e, soprattutto il Muro, che nell’economia della storia si presta facilmente ad allusioni metaforiche di incomunicabilità.

Rinverdendo la lezione di Huber Selby Jr, che ormai aveva fatto propria, Reed non dà alcuna descrizione dei due personaggi del disco, ma li delinea attraverso i monologhi e le loro azioni, attraverso un uso perfetto del mezzo linguistico. Il punto di vista è soggettivo, inattendibile, alterato, limitante e questo costringe l’ascoltatore a immergersi completamente nel dramma del protagonista, occasionalmente affiancato da un terzo narratore distaccato e voyeuristico. Francamente troppo per un disco rock che rappresentava la poetica malata di Lou Reed meglio di qualunque altro disco, e che di conseguenza fu stroncato dalla critica come un lavoro “nichilista” e deprimente, salvo poi essere rivalutato qualche anno dopo dagli stessi che l’avevano denigrato.

Un po’ come accadde, in maniera diversa, alla sua provocazione più dura in assoluto: Metal Machine Music. Uscito nel 1975 con una copertina volutamente ingannevole che lo ritrae in una foto dell’acclamatissimo tour dell’anno precedente, il doppio vinile è un vero pugno nello stomaco per tutti i fan e i critici che si aspettano un altro album di buon rock. Dopo più di 25 anni dalla sua pubblicazione, il risultato non cambia: rimane un pugno allo stomaco, malgrado prima il punk e poi gruppi come i Sonic Youth abbiamo aiutato a creare un contesto intorno ai suoi 64 minuti di assalto sonoro. Stratificazioni di feedback, distorsioni e chitarre rallentate fino a renderle irriconoscibili sono tutto ciò che l’album offre nei suoi paesaggi assordanti e desolanti. Un continuo e monotono rumore senza armonia, melodia o qualsiasi struttura formale. Nella versione su vinile, tramite un espediente tecnico originariamente studiato con Andy Warhol per i Velvet Underground ma mai utilizzato, il disco si ferma sull’ultimo solco per far sì che suoni all’infinito e costringendo l’ascoltatore ad alzarsi e togliere la puntina manualmente.

In un’epoca in cui il noise rock e il punk dovevano ancora guadagnarsi la scena, Metal Machine Music è in qualche modo rivoluzionario e rimane un disco seminale per molti generi che si sarebbero sviluppati successivamente. Per i punk, che già affondano sostanzialmente le radici nella rivoluzione sonora dei Velvet Underground, è l’ennesima dimostrazione che Lou Reed è il ‘padrino’ del movimento.

Quanto ci sia di intellettuale e teorico nel disco e quanto invece sia una semplice provocazione, Lou Reed non lo ha mai detto. Si è limitato a scrivere, sulle note di copertina, la celebre frase: “Se questo disco non vi piacerà, non vi biasimo. Non è per voi. La mia settimana scandisce il vostro anno”. Certo è che questo lo accomunava ad altre ‘provocazioni’ teoriche che, in altri ambiti, hanno lasciato un segno: come il celebre 4’33” di John Cage, nel quale il pianista deve limitarsi a sedere al pianoforte, far partire un cronometro per il tempo indicato nel titolo, e rimanere immobile e in assoluto silenzio. La vera opera, anche in questo caso, è rappresentata dalla reazione del pubblico, ricordando da vicino quello che molti anni dopo Andy Warhol avrebbe fatto con i suoi film e i suoi spettacoli multimediali.

La profonda influenza della comune ricerca che dalla fine degli anni 60 il minimalismo americano portò avanti si estende per tutta la durata della carriera di Lou Reed; il già citato LaMonte Young conosciuto attraverso le tecniche di John Cale, l’opera di Robert Wilson sulla ridefinizione del linguaggio teatrale (a questo punto non dovrebbe destare sospetto la collaborazione tra Wilson e Reed per Time Rocker e per POEtry, dal quale è tratto il nuovo disco The Raven), le pellicole di Warhol. Il modello di accelerazione e/o accumulazione della scuola minimalista è evidente in tutti i lavori dei Velvet Underground fino ad arrivare a Metal Machine Music, Magic And Loss, Ecstasy e al nuovo The Raven (indicativa la traccia Vanishing Act).

La grandezza di Lou Reed è nell’esser riuscito a far assurgere alla statura intellettuale il rock, trasformandolo in quello che lui stesso ha definito più di una volta “rock per adulti”. Lo ha sempre fatto, e lo fa ancora. Anche Ecstasy, il penultimo album uscito nel 2000, ne era una dimostrazione lampante con la splendida Rock Minuet o la poetica minimalista della title-track. La sua è stata, dagli anni Sessanta in poi, una voce autentica e dissonante poi sfociata in un individualismo rabbioso e cinico. Quello che è certo, è che Lou Reed è stato più di un animale del rock’n’roll, come ormai l’iconografia lo dipinge. È stato un intellettuale del rock’n’roll che ha saputo, proprio come aveva fatto Andy Warhol in altri campi e anche grazie a lui, veicolare la cultura ‘alta’ in un formato accessibile alla massa.

E nella musica pochi sono riusciti a farlo così bene.

Pubblicato su JAM 90, febbraio 2003

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