31/10/2013

David Byrne & St. Vincent

Ispirati dai duetti fra Dirty Projectors e Björk, Byrne e Clark inventano un disco pop basato sui colori intensi degli ottoni. Estroso, eppure famigliare

C’erano Tyondai Braxton dei Battles e Kieran Hebden dei Four Tet. C’era M.I.A. ed era insolitamente sobria nella sua salopette scura con macchina fotografica a tracolla. E c’erano loro due, David Byrne e Annie Clark. Era la sera dell’8 maggio 2009 e i Dirty Projectors si esibivano per beneficenza con Björk sul palco dell’Housing Works Bookstore Café di Manhattan, dando prova di quel che può succedere quando due talenti diversi e formidabili s’incontrano, interagiscono, si fondono fino a parlare lo stesso linguaggio. David e Annie hanno preso nota. Così, quando pochi mesi dopo i tipi di Housing Works hanno chiesto all’ex Talking Head di esibirsi per raccogliere fondi a favore di sieropositivi e senzatetto, lui ha pensato di replicare l’esperimento tentato dagli amici Projectors. Per farlo, ha reclutato Clark, in arte St. Vincent, con cui aveva già collaborato per il progetto di Imelda Marcos Here Lies Love.

Alla fine il concerto non l’hanno ancora fatto, ma un disco sì. S’intitola Love This Giant e dimostra alcune cose: Byrne è un artista dalla curiosità insaziabile e dalla mentalità aperta; St. Vincent ha sufficiente talento da fargli da partner; a volte restringere la gamma delle possibilità mette in moto la creatività; è difficile far rivoluzioni musicali di questi tempi, ma esistono nuove e originali strade che si possono esplorare per battere la retromania imperante. In altre parole, Love This Giant possiede una sua diversità seducente. Ha l’inconfondibile impronta compositiva di Byrne, ma non suona come uno se l’aspetta.

L’anima dell’album non sono le voci dei due artisti. E nemmeno chitarre, batteria, basso o tastiere che pure animano il sound. Il cuore pulsante del disco sono i fiati. Merito di Annie. Messa di fronte all’idea di esibirsi in un posto piccolo come l’Housing Works Bookstore Café, dove ci stanno a malapena 300 persone, ha avuto l’idea di basare il suono sui timbri degli ottoni, che in una sala dalle dimensioni ridotte non hanno bisogno di amplificazione, né di mixer. Così è nato Love This Giant: come un ciclo di canzoni per voci e ottoni. Questo marchio di stranezza gli è rimasto appiccicato addosso anche quando John Congleton dei Paper Chase ha ideato i beat che hanno trasformato i pezzi in più canoniche canzoni pop. Ecco, le parti ritmiche programmate sono l’unica cosa di questo disco che può lasciare l’amaro in bocca a chi ama suoni più tradizionali. Ma nel suo insieme l’album fa passare ogni dubbio. I fiati sono usati con fantasia. Marcano il ritmo, sottolineano i testi, danno un tocco di R&B scarnificato, divagano in modo eccitante. Sono funky e all’occorrenza funerei. Sono l’accompagnamento di pezzi che sembrano uscire da un musical sballato. Ora fanno da sfondo ai pezzi, ora hanno l’insistenza di clacson all’ora di punta. Sono ammalianti e deliranti, “folk” (in un pezzo con Antibalas e Dap-Kings) e per lo più urbani. Sono pulsioni vitali. Sono divertenti e poetici. Spesso affilati. In genere, sono calati in un contesto semplice, scarnificato, un ambiente sonoro che ha tratti classici e moderni, fra la forza comunicativa diretta e istintiva di uomini che soffiano in tubi d’ottone e il “clack” dei beat sintetici.

I fiati sono la spina dorsale di un disco in cui il carattere frammentato delle canzoni è messo in bella mostra: ne è la forza, non il limite. Gli elementi che le costituiscono sono assemblati come un collage. Cori, frasi di chitarra o trombone, giri di basso, break ritmici entrano ed escono dal mix creando una sensazione di eccitazione. Il singolo Why, scaricabile gratuitamente dal sito lovethisgiant.com, è un ottimo esempio del lavoro svolto da Byrne e Clark, un metodo in sintonia con lo spirito dei tempi in cui viviamo. Lui prende col suo timbro iconico buona parte delle canzoni, lei riesce ad essere ora ammaliante, ora ambigua, ora seducente. Byrne e Clark si alternano come voci soliste e raramente si incontrano in duetti tradizionali, ma la collaborazione fra i due artisti è stata intensa e paritaria, un fatto notevole se pensiamo al talento e all’autorevolezza di lui. «Annie» ha scritto l’ex Talking Head «mi inviava versioni “sintetizzate” di riff di chitarra o di ottoni, io li arrangiavo e li abbinavo a una melodia. A volte accadeva il contrario. Ci spedivamo il materiale più e più volte, e a ogni passaggio aggiungevamo nuovi particolari» tant’è che «alcuni pezzi cantati sui demo da uno nella versione finale sono interpretati dall’altro». In quanto ai testi, continua Byrne, «scrivere per un suono basato sugli ottoni mi ha spinto a ripensare il mio approccio», facendo risuonare le frasi con maggiore impatto.

A metà settembre i due partono per un mesetto di tour in Nord America accompagnati da otto fiatisti guidati da Kelly Pratt (Beirut, Arcade Fire), un tastierista e un batterista. Merito di quella sera del 2009 coi Dirty Projectors, Björk e M.I.A. che sfoglia un libro d’uncinetto con una macchinetta al collo. Cose che succedono a New York.

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