25/11/2014

Giancarlo Guerrieri, cantautore “Pazzu”

Intervista al cantautore siciliano: “Pazzu” è il suo nuovo album e i brani sono cantati quasi interamente in dialetto siculo per “inviare messaggi pesanti con ‘leggerezza’”
A Roma splende un sole estivo, quasi ironicamente, visti i disastri causati in tutta Italia dal maltempo nel weekend appena trascorso (l’intervista è stata realizzata alcuni giorni dopo il fine settimana di metà novembre, ndr). Sono le 13, minuto più minuto meno. Seduto a un tavolino del Caffè di piazza Mazzini, a due passi da San Pietro e dalla sede RAI, il cantautore siciliano Giancarlo Guerrieri si prepara a un pomeriggio intenso – interviste fino alle 19, poi via, negli studi di Saxa Rubra, per un’ospitata in radio. Quest’anno è stato pubblicato il suo nuovo album, Pazzu (Artist First), a tre anni di distanza dal precedente Caminanti. Si tratta di un lavoro coeso, ben studiato, quasi interamente cantato in dialetto siculo; il quarantaduenne Guerrieri – che ormai ha più di vent’anni di carriera alle spalle – ne è particolarmente fiero. “Ci ho lavorato in studio per ben due anni, e alla fine ero stremato, ma sono davvero molto soddisfatto del risultato”. L’aspetto che il cantautore tiene molto a sottolineare è come quest’opera sia distribuita esclusivamente in formato digitale, sia tramite download sia tramite streaming. Si tratta di una sua scelta consapevole: “È il futuro della musica, e i dati dell’ultimo trimestre mi stanno dando ragione” – i nostalgici del formato fisico, comunque, avranno la possibilità di acquistarne una copia ai suoi concerti.
 
Partiamo subito dal titolo del disco. Già nel lavoro precedente, nel pezzo ‘A storia d’Orlando, era presente un folle d’eccezione come il paladino “furioso” di Ludovico Ariosto. Anche nella title track della nuova raccolta troviamo un uomo divenuto pazzo per amore, seppure in modo ben diverso. È questo un punto di raccordo tra le due opere?
Sicuramente, la follia “positiva” provocata dall’amore e dalla musica è un anello di congiunzione importante; parimenti, lo è la scelta di comporre i testi in dialetto siciliano. Il titolo Pazzu deriva direttamente dall’aforisma di Alexander Pope “i pazzi osano dove gli angeli temono d’andare”: nella vita bisogna osare per superare quei limiti che, a volte, ci imponiamo noi stessi. In questo disco mi sono messo davvero alla prova: la stessa scelta di registrarlo a Milano, pur cantando in siciliano, è di per sé una follia – anche se costruttiva. Il pazzo può essere considerato l’emblema di colui che vede oltre, colui che vede qualcosa di diverso da tutti gli altri.
 
Un po’ come il bambino della Trasfigurazione di Raffaello, il quale, pur essendo “folle”, indica agli altri ciò che sta avvenendo in cielo… Parliamo dei suoni presenti nel disco: rispetto a quello precedente, che presenta un paesaggio sonoro più centrato sulla world music e sulla musica popolare, siamo ora di fronte a una tavolozza più eterogenea, che spesso vira verso il rock…
È un disco molto rock, ma anche pop, e non dimentica la sua origine world. Il produttore artistico Mario Saroglia ha svolto davvero un ottimo lavoro: ha saputo valorizzare e donare la giusta veste a ogni canzone. La presenza delle chitarre elettriche è certamente fondamentale – le ha suonate Placido Salamone, bravissimo musicista che in passato ha donato le sue sei corde, tra gli altri, a Celentano e Fio Zanotti. Credo che questo lavoro possa essere davvero apprezzato da molti, non solo nell’ambito della world music.
 
Hai spesso sostenuto che la musica abbia una forza intrinseca che può, se non cambiare direttamente, almeno contribuire a migliorare il mondo. In che modo pensi possa riuscire nell’intento, partendo dalla considerazione che il primo brano dell’album s’intitola, non a caso, La musica è putenti?
Credo che ogni creativo, ogni persona che lavora comunicando delle emozioni – sia egli un pittore, un poeta o, come nel mio caso, un cantautore – abbia una grande responsabilità: quella di provare a far riflettere le persone. Io tento di farlo attraverso i testi delle mie canzoni, che veicolano messaggi spesso a sfondo sociale o politico ed è sicuramente il caso de La musica è putenti o di Kavallereska.
 
Quest’ultima canzone offre un affresco spietato dell’Italia e della sua classe politica. Vista la tua esperienza, puoi guardarti indietro e tirare qualche somma: cosa salvare di questo Paese? Cosa invece ha bisogno di essere cambiato immediatamente?
Cambierei innanzitutto l’istruzione. Bisogna partire dalla base: sin dalle scuole elementari i bambini devono sviluppare il senso della giustizia, dell’onestà, dell’appartenere a un paese meraviglioso; tutti aspetti che, nella vita di tutti i giorni, l’uomo medio tralascia. È assurdo pensare che, per realizzarsi, bisogna essere più “furbi” degli altri, il che non vuol dire altro se non imbrogliare il prossimo. Si tratta di qualcosa che ha portato il nostro Paese alla rovina e che va assolutamente sradicato dalla coscienza degli italiani.  In Kavallereska utilizzo toni molto accesi nei confronti della classe politica che va denunciata senza mezzi termini. Il fatto di esprimermi in dialetto mi ha aiutato molto, perché la sua espressività mi consente di inviare messaggi molto pesanti con più “leggerezza”. Salverei i bambini, di certo, ma cercando di portarli via da questo stile di vita “araffa e scappa” e ciò si può fare solo offrendo loro la via verso un livello culturale più alto.
 
Rimaniamo sul tema dell’infanzia. In Super otto offri un ritratto della tua generazione e nel ritornello canti “voglio tornare bambino”. Eppure, nella conclusione, accosti date lontane come “l’88” e “l’altro ieri”, sostenendo che “forse non è cambiato niente”. Questo anche perché un po’ del tuo “fanciullino” è tuttora presente in te?
Certamente. Noi, che siamo nati tra gli anni ’70 e gli anni ’80, abbiamo avuto un’infanzia felicissima, durante la quale la crisi era ancora ben lontana; tutto ci era dovuto, tutto era propositivo, in modo naturale: abbiamo avuto tutto, ma oggi non ci è rimasto niente. Per questo canto che “non faremo parte di nessuna storia”; la nostra prospettiva è quella di non vivere alcun periodo importante a livello generazionale. Abbiamo visto cadere il Muro di Berlino in televisione, e poi? Siamo quasi tutti diplomati o laureati, eppure moltissimi sono ancora disoccupati. La nostra massima ambizione è quella di vincere al Superenalotto per vivere felici.
 
Nell’album sono presenti anche due brani non di tua composizione, Agata (canzone napoletana da te conosciuta nella versione di Nino Ferrer, e U jaddu, in origine Taglia la testa al gallo, brano di Ivan Graziani. Tu però hai riadattato entrambi, volgendo i testi in siciliano: un’operazione che non si vede più tanto spesso, quella di tradurre le canzoni in un’altra lingua. Già De André, nei tardi anni ’70, lamentava come i poeti che traducessero versi fossero considerati come mirabile esempio, mentre i cantautori che facevano lo stesso con i brani musicali venissero visti come “senza idee” e per questo ripiegavano sulla traduzione. Si tratta, invece, di vere e proprie “versioni poetiche” anche in questo caso. Qual è stata la tua operazione?
È un modo di confrontarmi con testi importanti. Ho mantenuto sostanzialmente la storia originale, ma trasferendo parole e significati in un nuovo mondo. Taglia la testa al gallo, per esempio, è una canzone meravigliosa che parla della Sardegna, dei Quattro Mori, delle dominazioni che quell’isola ha sempre subito. Io ho accostato questo percorso a quello della mia Sicilia, che è stata dominata da varie popolazioni come i greci, gli arabi, i normanni e la lista potrebbe continuare… Oggi continuiamo a subire questa dominazione: chi ci incatena ora è la mafia, le cattive coscienze collettive. Taglia la testa al gallo è un inno che incita le persone ad alzarsi, a ribellarsi, a decapitare il “gallo del pollaio”, che è colui che fa del male, viene a chiedere il pizzo, impone con prepotenza la propria presenza nel territorio. Penso di essere riuscito a veicolare bene il messaggio; anche perché, se la versione originale era un trionfo di chitarre distorte, nel mio adattamento ho optato per una dimensione più intima, più raccolta. C’era già il testo che gridava…
 
Il testo che, per ogni cantautore, è fondamentale. In un periodo in cui la globalizzazione e la digitalizzazione uniformano la proposta mondiale in tutti i campi dello scibile, oltretutto spingendo per un sempre più massiccio utilizzo della lingua inglese, il tuo scrivere e pubblicare canzoni in dialetto è forse la tua risposta in direzione della “genuinità” del messaggio?
Certo. Un’esperienza meravigliosa dello scorso anno è stato il tour che ho fatto in Australia. Oltre agli italiani lì residenti, ai concerti erano presenti moltissimi australiani non italofoni, che a fine spettacolo venivano spesso a comprare il mio disco. Che io cantassi in italiano, o in portoghese, o in ravennate-bizantino arcaico per così dire, contava poco; l’importante era trasmettere un’emozione e catturare la loro attenzione. Se un’opera è viva e sincera, arriverà al pubblico; poco importa la lingua in cui è stata scritta, specialmente nella musica.
 
Il dialetto, poi, può essere anche una scelta prettamente “musicale”, perché ha un’espressività che può perdersi nella lingua italiana più regolata. Ma a livello comunicativo, parlando strettamente del testo in un ambito come la musica d’autore, come si può ovviare al problema linguistico, alla “barriera” che il dialetto ontologicamente pone nei confronti di un orecchio che non lo conosce?

Spesso capita che le persone mi contattino tramite i social network per chiedermi la traduzione di qualche mio brano, proprio perché può risultare loro ostico capire ogni parola che canto. Io rispondo con piacere, provando a spiegare cosa voglio dire nei miei brani. In linea di massima, comunque, i miei testi in dialetto restano abbastanza comprensibili a tutti – soprattutto se si hanno le parole stampate davanti agli occhi – anche perché generalmente compongo in siciliano qualcosa che ho precedentemente pensato in italiano. La mia lingua non è ermetica; è un po’ come il napoletano “italianizzato” che usa Pino Daniele.
 
Allontaniamoci ora dalla contemporaneità. Hai scritto brani per altri artisti, collaborando con la storica etichetta Carosello. In cosa è diverso il comporre per gli altri dal comporre per se stessi?
Quando scrivi per te stesso, sei meno vincolato da certe “regole non scritte” e puoi osare maggiormente. Nell’altro caso, bisogna innanzitutto conoscere l’artista per il quale stai “lavorando”, cercare di scrivere una storia che risulti credibile quando l’interprete la canterà. Bisogna essere più attenti e meno istintivi. È un lavoraccio, ma mi piace farlo – soprattutto quando devo occuparmi unicamente del testo. Venir fuori di sana pianta con un pezzo per qualcun altro mi risulta meno semplice di accompagnare le parole a una musica preesistente.
 
Ti sei cimentato anche con la musica applicata al teatro. Che esperienza è stata per te? Ha lasciato una traccia nel tuo modo di comporre?
Assolutamente sì. Ho iniziato a scrivere per il teatro nel 1992, a Milano, dove collaboravo con il Ciak e il Piccolo. L’opportunità di lavorare con Giacomo Valenti, Toni Comello e soprattutto Giorgio Strehler è stata estremamente stimolante. Il teatro ti permette di fantasticare e giocare con le note senza limiti di sorta. È l’altro estremo della scala rispetto allo scrivere per altri. Mi fa sentire come un pittore davanti a una tela bianca, senza regole da seguire. Mi sono divertito moltissimo, è un’esperienza che mi piacerebbe ripetere, e probabilmente, in un qualche futuro, la ripeterò.
 
Il teatro è una performance; e questo ci conduce ai concerti. Ne hai in programma di nuovi, in seguito alla pubblicazione dell’album?
Il live è davvero il momento più importante nella vita di un artista. Ti pone faccia a faccia col pubblico, con quelle persone che a fine spettacolo verranno a comprare il disco, a parlare con te, a creare un legame che da quel momento sarà indissolubile. Sono molto meticoloso nella preparazione dei live: appena uscito il disco, ho iniziato a portarlo in giro seguendo essenzialmente due “formati”. Generalmente sono da solo, in acustico, e mi esibisco con showcase in librerie e spazi culturali, durante i quali mi confronto col pubblico introducendo e offrendo una qualche chiave di lettura dei brani. Più avanti arriveranno i veri e propri concerti, con un gruppo che mi accompagnerà dal vivo; cominceremo in Sicilia verso la fine dell’anno, per arrivare a Milano e probabilmente a Roma all’inizio del 2015. Gli spettacoli mi accompagneranno ancora a lungo, perché credo che questo lavoro meriti di essere diffuso; quando ciò sarà concluso, mi prenderò una piccola pausa per pensare alla prossima direzione da intraprendere.
 
 

 

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