04/03/2015

Il ritorno dei Colour Moves (28 anni dopo), intervista

Giorgio Ciccarelli, dopo essere stato mandato via dagli Afterhours, riparte dai suoi “vecchi” Colour Moves. Per questo motivo abbiamo intervistato lui e il cantante “Saccingo”
Cassette demo, un 45 giri, tre apparizioni su compilation e poco altro nella loro breve storia presto interrotta. Tra loro soltanto Giorgio Ciccarelli ha continuato, diventando poi chitarrista degli Afterhours dal ’99 fino a pochi mesi fa (qui, sulla sua pagina Facebook, la sua spiegazione della vicenda che l’ha portato a non essere più parte del gruppo). Gli altri, invece, hanno proprio smesso di suonare, ma di recente tutti insieme hanno cavalcato la “nuova onda” post-punk che li ha travolti a distanza di 28 anni per essere di nuovo i Colour Moves. Luca Cajelli (basso), il già citato Giorgio Ciccarelli (chitarra), Daniele Gavino Mura (batteria), Sergio “Saccingo” Tanara (voce) (e Michele Scurti (tastiere)) hanno ripreso da dove avevano interrotto, pubblicando A Loose End (Interbang Records, 2015), un doppio LP in vinile che racconta com’erano e come sono. Il Disco Uno (2014-2015) contiene pezzi composti tra il 1985 e il 1987, ma incisi nel 2014 con gli stessi arrangiamenti ed effetti dell’epoca e con in più la tecnologia digitale e i testi riscritti dal cantante. Il Disco Due (1986-1987) contiene invece brani composti e incisi tra il 1986 e il 1987 (fatta eccezione per la cover di Venus In Furs dei Velvet Underground, pubblicata originariamente nel 1987 in una compilation-tributo a Andy Warhol), ma esce con 28 anni di ritardo.
 
In A Loose End, che sarà presentato il prossimo 7 marzo in uno showcase al 75 Beat di Milano, c’è anche un’edizione speciale della fanzine Anestesia Totale con un’intervista a Saccingo. E in omaggio con le prime 50 copie dell’album c’è anche Sotto Anestesia, Furibonde avventure new wave di provincia, un libricino nel quale Matteo B. Bianchi racconta l’atmosfera che si respirava a Milano nel periodo in cui stava nascendo la new wave in Italia.
 
Ma com’è stato per i Colour Moves tornare a suonare insieme 28 anni dopo? Lo abbiamo chiesto a Sergio “Saccingo” Tanara e a Giorgio Ciccarelli.
 
Voi vi identificavate nella new wave. Che cosa significava all’epoca?
SACCINGO: Immagina un mondo senza Facebook, YouTube, Twitter e senza niente di questo genere… si prendeva il furgoncino e si andava in giro a suonare. Io ricordo che c’era questa grande voglia di fare. Ci sembrava di essere sfigatissimi a Milano rispetto a Londra, ma di fatto ci sentivamo parte di questa cosa chiamata new wave.
GIORGIO: Per quanto mi riguarda io mi immagino che per certi versi sia stata un po’ come il punk a fine anni ’70. Spesso c’era gente che non sapeva suonare, ma riusciva ugualmente a comunicare delle emozioni incredibili.
Questa cosa mi ha subito affascinato e poi mi sembrava una musica nuova, perché io a 14 anni spaziavo dai Beatles ai Queen e poi ascoltavo le cose che ascoltava mio fratello più grande di me e quindi Pink Floyd, Genesis… la roba più classica del mondo, ma anche più complicata se penso ai Genesis, ai Queen, ma anche agli stessi Beatles…
Questa roba qua invece era semplice, con una linea di basso portata avanti all’infinito, testi brevi… e insomma a quel tempo la new wave era un po’ questo, ma sicuramente immagino fosse anche moda. Noi crescevamo a pane e Joy Division, Cure, Sound, ma ci piaceva anche roba neo-psichedelica tipo i Teardrope Explodes di Julian Cope, Echo and the Bunnymen… Tutte band che poi magari si sono riformate, un po’ come noi!
 
Ecco, ma perché a un certo punto la vostra storia si era interrotta?
G.: Perché succede. Gavino (il batterista) e Luca (il bassista) si erano laureati e quindi avevano iniziato a cercare lavoro e avevano smesso di suonare. Io invece ho proseguito, ma non aveva più senso tenere il nome Colour Moves e ho fatto altro. La cosa veramente curiosa è che gli altri “hanno appeso lo strumento al chiodo”. Hanno fatto suonatine un po’ così tra amici, ma nulla di costante nel tempo.
Poi nel corso degli anni ci siamo sentiti ogni tanto, ma tutto è nato dal compimento dei 50 anni del batterista. Lui ha fatto un festone e, per fargli un regalo, abbiamo prenotato una sala prove e da lì abbiamo ripreso il discorso interrotto 28 anni fa.
Quando ci siamo ritrovati in sala prove, ci abbiamo messo un po’… Ma soprattutto, quando siamo andati a registrare, loro erano rimasti alle tecniche di registrazione dell’88 senza niente di digitale. All’epoca dovevi suonare e se sbagliavi dovevi risuonare e facevi la take più e più volte, finché non veniva bene. Adesso invece è diverso e si possono utilizzare tanti accorgimenti tecnici con Pro Tools ecc. e puoi sistemare quello che vuoi. Loro però sono arrivati in studio “preparati” ed è stato abbastanza semplice registrare.
S.: È stata una casualità. La prima volta è stata una scusa per vederci. Poi da lì è nata la voglia di suonare. All’inizio è stato difficile, un disastro direi (ride, ndr), ma Giorgio ha spinto su questa cosa che ha preso sempre più piede e così ci siamo ritrovati.
Io ho rivisto Giorgio quando avevo saputo che era entrato negli Afterhours e doveva venire a suonare a Roma. Siccome ho abitato lì per molti anni, una sera sono andato al concerto degli After e lì ci siamo incontrati di nuovo. Poi un po’ alla volta le nostre vite si sono reincontrate/reintrecciate.
 
Sergio (o “Saccingo”), nel suo libricino Matteo Bianchi racconta del suo incontro con te che poi portò all’intervista nella sua fanzine, Anestesia Totale, ripubblicata insieme a A Loose End. Com’era stato dal tuo punto di vista quell’incontro?
S.: Allora frequentavamo sempre negozi di dischi anche solo per respirare il fermento che c’era in quel periodo a Milano e lì ti capitava di incontrare gente che conoscevi e magari ti chiedeva pure se suonassi in un gruppo. E quella volta Matteo aveva indovinato.
Da quell’incontro è nata un’amicizia che è andata avanti negli anni. Poi, quando abbiamo rimesso in piedi il disco, lo abbiamo chiamato e gli abbiamo chiesto di scriverci due righe per presentare il lavoro. E invece da lì è nato tutto il resto con la ripubblicazione di Anestesia Totale e con il libretto.
Per certi versi A Loose End è un po’ un documentario sonoro. Poteva essere un film e non lo è stato e in parte è un libro con quello che ha scritto Matteo Bianchi.
 
È sempre fastidioso dover definire la propria musica” dicevi proprio nell’intervista dell’epoca concessa ad Anestesia Totale. Lo è ancora adesso?
S.: No, ora no (ride, ndr)! Noi eravamo cresciuti a pane e Joy Division, ma ci attirava anche una parte psichedelica e comunque un suono particolare per l’epoca. Direi che adesso post-punk ci sta benissimo come definizione! Tutto più dinamico, più psichedelico… e poi c’è l’uso delle tastiere!…
 
Un’ultima curiosità sulla “questione Anestesia Totale“: in quella “famosa” intervista spieghi che all’epoca era normale cantare in inglese anziché in italiano…
S.: Non passava per la testa a nessuno di cantare in italiano. Era veramente escluso. Pochi lo facevano. Mi ricordo che c’erano pochi gruppi tipo i Litfiba o i Diaframma…
Noi volevamo sentirci parte di un’idea e per quello cantavamo in inglese e non ci è mai passato per la testa di cantare in italiano.
Poi adesso non aveva senso riprendere pezzi vecchi e farli in italiano, perché abbiamo ripreso dal giorno dell’ultima prova di 28 anni fa.
G.: Sì, minimo l’80% dei gruppi come noi cantava in inglese per una sorta di confronto con gli altri e con la musica che veniva dall’Inghilterra.
 
E adesso non avete pensato di cantare in italiano?
S.: No, magari nel caso di brani nuovi possiamo discuterne, ma adesso il nostro obiettivo era riunirci e tornare con questo materiale, per cui non se n’è nemmeno parlato.
 
Bene. Parliamo allora dei testi rigorosamente in inglese di A Loose End. Sergio, com’è stato tornare su ciò che avevi scritto 28 anni fa?
S.: I testi spesso “non c’erano” perché la maggior parte delle volte li inventavo o comunque dicevo frasi molto semplici. E sulla base di quelle frasi sono ripartito, riscrivendole per cose che sono successe in questi anni ma nella maniera più semplice possibile, cioè pensando a come le avrebbe raccontate un ragazzo. Questi 28 anni sono stati un’apnea, un buco nero… La foto della copertina spiega proprio l’apnea. Tenere il fiato per 28 anni, per poi riemergere e scoprire che nulla è cambiato.
La musica è la stessa, non abbiamo fatto cose strane. E la cosa curiosa è che le dinamiche che c’erano tra di noi al tempo sono le stesse. Abbiamo ripreso in mano il lavoro esattamente dal giorno in cui abbiamo smesso. I testi che c’erano erano quelli delle cose già uscite. Quelli che non erano usciti li ho riscritti completamente o quasi.
Un presente rivisitato o un passato futurista, dipende da che angolazione si guarda la cosa! Il presente è adattato al ragazzo di 28 anni fa, mettiamola così…
È stato difficile fare il lavoro di editing in inglese, ma ho limato tutto con l’aiuto di due mie amiche, una che sta a Milano e l’altra in America. Insieme abbiamo fatto delle traduzioni non letterali ma interpretative.
 
Vista la particolare suddivisione del lavoro, Cloudlike (Remix 2014) fa da collante…
G.: Sì, infatti. Alla fine del secondo disco c’è la versione dell’87 che uscì per Vinile, una rivista dell’epoca. Io ho ritrovato a casa il 24 tracce del pezzo e quindi siamo riusciti a creare il trait d’union perfetto tra quello che avevamo registrato allora e quello che abbiamo mixato adesso.
 
Sono pezzi sempre attuali quelli dei Colour Moves?
G.: Per me sì e sono veramente curioso di vedere come verrà accolto questo disco, perché secondo me suona attuale. Anche le cose vecchie registrate e che ripubblichiamo nel secondo disco secondo me suonano attuali.
 
Quindi la new wave è sempre attuale?
G.: Beh, ad esempio i tanto acclamati Arctic Monkeys sembrano venire da lì. La new wave è ancora attuale e c’è proprio un ritorno della new wave. Ecco perché forse c’è stata un'”onda” che è passata di nuovo anche dalle nostre parti…

 
 

 

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