06/12/2016

Luoghi, tasti ed elettronica: Giovanni Di Giandomenico tra Palermo e Berlino

Almendra Music pubblica il nuovo album del giovane compositore
Classe 1993. Studi, approfondimenti e perfezionamento tra il Conservatorio della sua Palermo, la Guildhall School of Music and Drama di Londra e Santa Cecilia a Roma. La giovane età e il percorso intrapreso stupiscono non poco, ma ciò che sorprende di più di Giovanni Di Giandomenico è l’apertura. Non tanto la capacità “orizzontale” di spaziare in uno sterminato orizzonte musicale, ma la verticalità e la profondità del suo pensare e fare musica: il giovane compositore palermitano attraversa con disinvoltura diverse aree musicali, muovendosi tra passato e presente. Tra la consapevolezza della propria educazione accademica, la sana e santa ribellione e quella magica, istantanea e fuggevole disponibilità ad accogliere il caso e a plasmare l’ospite inatteso nella materia musicale.
Almendra Music pubblica martedì 6 novembre album Ambienti. È l’occasione per fermare Giovanni, come sempre “swinging” tra Berlino, Roma, Palermo e Bregenz: i luoghi che hanno dato spunti, ispirazione e suggestioni al nuovo lavoro.
 
Classica, contemporanea, jazz, elettronica: quanta musica ha ascoltato, praticato, assorbito e vissuto Giovanni Di Giandomenico? Quale potrebbe essere il filo conduttore tra queste aree?
Sono piuttosto pigro d’indole, non è stata sicuramente la curiosità, ma il caso; il problema è che il caso e la sua imprevedibilità vanno rispettati e accolti come ospiti non attesi, quindi è sempre bene tenere in ordine la casa affinché gli ospiti imprevisti possano accomodarsi al meglio, mettersi a loro agio e raccontarti le loro storie con gioia. Penso che a chiunque, in qualsiasi cultura e tempo, venga dato un appiglio alle grandi-sconfinate reti delle “cose che già ci sono”. Ognuno poi esplora queste reti seguendo percorsi assolutamente personali e diversi; il mio ad alcuni appare strano forse, ma per me è assolutamente normale perché è l’unico che avessi mai potuto percorrere. Secondo me la cosa davvero importante è predisporsi all’ascolto: un ascolto attento e sensibile di due battute vale più di uno superficiale dell’intera sinfonia. Questo è il motivo per cui non ho mai avuto regole nell’ascolto o nella ricerca coerente di ciò che mi interessa. Mi lascio sorprendere da tutto, sapendo di avere casa mia in ordine, pronta ad accogliere chiunque, in qualsiasi momento; che l’ospite inatteso sia Kurt Cobain o Gustav Mahler poco importa.
 
Un’altra cosa che colpisce immediatamente è la varietà di luoghi in cui hai portato la tua musica. Quanta te ne hanno restituito questi luoghi?
Sì, ho viaggiato molto, soprattutto in Italia, trovandomi in posti che mai avrei immaginato prima. L’Italia è un paese meraviglioso, e non smetterà mai di emozionarmi. I luoghi però non sempre mi restituiscono musica, per me è un po’ problematico spiegarlo, perché da un musicista molti si aspettano che viva e senta musica dappertutto. I luoghi che ho visto e vissuto di passaggio mi lasciano più impressioni visive e olfattive, che uditive. La mia musica infatti attinge proprio a questi luoghi, anzi a volte non potrebbe prescindere da quei luoghi, ma è una fase che precede l’idea musicale vera e propria, e riguarda invece più l’immaginario, la invenzione del pretesto, a volte anche il legame più o meno sentimentale con un materiale musicale che ancora non c’è.
Sono pochissimi i luoghi che mi suggeriscono suoni direttamente, e raramente sono luoghi fisici, per lo più sono luoghi che smettono di esistere fuori dalla mia memoria. Mi accade sempre più spesso, da qualche anno, di riuscire a scavare a fondo in questi luoghi della memoria, e spesso trovo alla loro base altri luoghi ancora, che magari vivevano nella fantasia del me dodicenne; penso quindi che in realtà siano memorie di fantasie, ricordate con fantasia, e questo mi fa sentire in dialogo con me, siedo al tavolo con tutti i miei “me” possibili e con le loro possibili, fantastiche memorie.
 
Ancora luoghi, ancora geografie. Alla base del ‘concept’ di Ambienti ci sono quattro città e numerosi transiti, tanti passaggi ed evoluzioni. Non lo consideri un disco “Ambient”…
Ambienti può essere fruito come un disco Ambient, può tranquillamente essere lo sfondo di un contesto, il flusso in cui stare immersi con un bicchiere di vino e gli amici che parlano, o mentre sei in automobile nel traffico, o ancora può essere la musica in cui cercare una sensazione di disteso abbandono. Di sicuro però non è un disco propriamente Ambient, o almeno non nel senso in cui Brian Eno ha definito la musica Ambient, cioè come “musica generativa”; non lo è perché ogni elemento di Ambienti, ogni materiale, non è esito di un processo automatico controllato da algoritmi, ed è invece organizzato in una retorica formale, compositiva, più propria di un grande “adagio” sinfonico che sussurra i suoi temi al posto di gridarli.
Viviamo in una cultura del rumore, in cui si fa a gara a chi lo fa più forte, non, semmai, a chi lo fa meglio. A me questa cosa non piace, ecco perché vedo la mia musica, sempre più, come un flusso continuo di energie indipendenti da questo inquinamento del pensiero, che possono dare ad alcuni esiti l’aspetto di un genere ben definito come la Ambient ma che in realtà, semplicemente, mi permettono di giocare all’interno dei miei suoni con la percezione del tempo, delle forme e dei loro equilibri in quella che per me, poi, è sempre una narrazione: incoerente, squilibrata, folle, totalmente indipendente dal mio pensiero e dalla mia persona, appunto un’altra cosa, nata da fuori di me e che esce fuori da me.
Diciamo in sostanza che se dovessi definire “Ambient” Ambienti, dovrei dire che anche Flash Mob o Polluted Suite, dal mio primo album, sono pezzi Ambient, perché legati agli stessi strumenti e processi compositivi di Ambienti, e soprattutto a quella stessa urgenza creativa, quel flusso che scorre tra fuori e dentro me, e che mai voglio sottomettere alle leggi della prevedibilità. Se qualcuno se la sente di dire che quelle robe, Flash Mob o Polluted Suite, sono musica Ambient, allora vorrà dire che ho sempre e solo fatto Ambient.
 
Nel 2012 il tuo debutto eponimo, tre anni dopo Lisca e Q: che differenze ci sono tra Ambienti e i precedenti?
Ambienti è un album che ha avuto un lungo periodo di gestazione, in questo senso fra i tre precedenti sicuramente quello più vicino è Q: anche Q è stato pensato e scritto in luoghi differenti e poi riscritto e rilavorato a Palermo definitivamente.
Lisca indaga sul suono del piano, esattamente come Ambienti, ma lo fa in un modo completamente opposto: in Lisca il piano è il supporto, è un album per “sole mani”, è infatti in Lisca il centro dell’attenzione compositiva ed esecutiva sono i cambi di pressione, i ribattuti e le serie con cui si dispongono gli accenti all’interno di una sequenza etc.  In Ambienti il piano è preparato, principalmente con oggetti di gomma e in alcuni pezzi anche con viti e bulloni, cioè in un modo tradizionale, fino ad arrivare a parti del disco in cui dentro il piano erano sospesi dei crash di batteria oppure delle graffette appositamente piegate, inserite fra le corde più acute.
Quello che però rende realmente diverso Ambienti dagli altri lavori pianistici è il rapporto fra l’elettronica e il pianoforte, soprattutto il lavoro sul riverbero, sulla sua interazione con le diverse densità e rarefazioni del materiale, e sulle sue evoluzioni e modulazioni interne, che creano come un effetto di diffrazione sull’esoscheletro del pianoforte.
 
Sei di stanza a Berlino: quanto è importante questa città per la tua ispirazione?
Se devo essere sincero, davvero poco. Berlino è una città immersa nel presente, una metropoli timida e morigerata che sfoga la sua grande depressione in alcuni buchi spazio-temporali, semiprestabiliti dall’ordine costituito. Non è un granché, in sè, come energia creativa. È comunque un posto perfetto per fare cose, conoscere gente nuova, sempre interessata ed interessante, e per fare esperienza di cosa diamine accade nel mondo per davvero, almeno in musica, cosa che in Italia viene invece filtrata dai mille salotti dei barbapapà della musica, che devono assolutamente mostrare a tutti la ultima versione di mummia da loro scoperta. Berlino in  questo senso è invece attiva, dinamica, moderna appassionata a qualsiasi forma di musica possa esistere, ma diventa nella mia immaginazione un luogo di ispirazione solo per contrasto, rispetto al “genius loci”, semplicemente perché ci vivo e penso e mangio e compongo.
Osservando questa città scopro chi sono con facilità anche perché allo stesso tempo la sua freddezza mi sbatte in faccia cosa non voglio diventare, lasciando così spazio solo a ciò che posso fare, voglio costruire, scrivere e conquistare con il lavoro. Berlino in questi modi protegge la mia ispirazione, mi permette di stare tranquillo, lontano dalla guerra, lontano dalla frustrazione di avere tra le mani il potere di fare ma non potere fare nulla.
 
Cosa ascolta di solito Giovanni Di Giandomenico?
Ci sono periodi in cui ascolterei sempre lo stesso pezzo e periodi in cui navigare in cerca di cose nuove diventa un gesto compulsivo. Dipende da cosa sto facendo in quel periodo, se sto scrivendo o progettando qualcosa da scrivere, se sono stressato o no, e se ho tempo oppure tappo i buchi con la musica che voglio riascoltare, per capirla meglio o per gongolarmi in qualcosa di conosciuto, caldo e sicuro.
 
Hai qualche artista prediletto che ascolti e con cui magari ami confrontarti?
Adoro ascoltare di tutto. Ma sicuramente mi piace tantissimo la musica dei miei amici, è una cosa strana, non so di preciso perché, ma ascoltare la loro musica è più intenso che ascoltare qualsiasi altra roba. E penso forse che sia pure più sano, più umano: in fin dei conti è un po’ una sorta di musica a kilometro zero. Forse è questo uno dei motivi per cui non ho mai avuto miti; ho un’idea più o meno chiara di quello che voglio quando scrivo, e non mi lego ad un compositore se non lo conosco bene.
Quello che ho sempre cercato di seguire sono dei riferimenti, cercando di imparare dalle grandi cose del passato, leggendo fra le righe o ascoltando i consigli del mio Maestro Marco Betta, o dei miei amici musicisti con più esperienza di me, insomma cercando di tirare fuori da ogni situazione di scambio o di apprendimento qualcosa di utile ed interessante, che possa aiutarmi a risolvere problemi del mio metodo compositivo, o che possa stimolare la mia immaginazione su argomenti e tematiche prima ignorate.
 
A proposito di predilezione, il pianoforte è tuo fedele compagno, ma nel tuo lavoro non rinunci all’elettronica. Esistono dei limiti a questo contributo o il piano ha ampia tolleranza?
Il pianoforte è esattamente il “mio fedele compagno”: un amico di vecchissima data, di quelli che non ricordi neanche come diavolo vi siete conosciuti. Come tutti gli amici più sinceri e veri, il pianoforte non mi ha mai voluto tutto per lui, anzi è sempre stato uno stimolo a cercare altro, pronto a guidare la mia fuga dalle certezze rassicuranti, insomma un bel trampolino di lancio verso tutto il resto. Più banalmente, il pianoforte è solo uno strumento del mio fare musica, come lo è il computer o un ensemble oppure ancora un coro, e così via.
Infatti non sono mai stato legato alla figura del virtuoso, del superstrumentista; senza dubbio ammiro molto gli interpreti, che rendono nuovamente vivo il pensiero degli antenati, non amo però  le gare e non capisco le motivazioni per cui qualcuno, ad un certo punto, compri l’esclusiva su presunte verità del passato e inizi a dettare legge su come si “debba” suonare o scrivere: un pazzo totale! Esattamente quanto chi si nasconde dietro fancazzismi fricchettoni per nascondere la totale mancanza di qualsiasi ombra di tecnica. Io sono sempre stato abituato a pretendere da me stesso, e a esigere la totale indipendenza e superiorità del mio pensiero rispetto ai miei mezzi. La tecnica, proprio per questo motivo, diventa sacrosanta ed importantissima, e bisogna anche padroneggiarla, non bene, ma benissimo, perché ha bisogno di leggerezza per diventare a sua volta leggera, e non gravare sulla forma, sulla sensibilità, sulla fantasia e sull’idea. Un compositore usa, e sviluppa, gli strumenti e la tecnica, e sceglie!, e ogni scelta viene sancita in nome di un obiettivo chiarissimo: dare forma e suono a un pensiero musicale. Io credo che solo attraverso questo percorso, moderato fra immaginazione, fantasia, idee, tecniche e metodo, si possa arrivare alla libertà. É per questa ragione che il pianoforte ha nel mio caso una totale tolleranza della mia indipendenza da lui, senza gelosie, perché viene trattato da me come uno strumento sempre nuovo e ricco di potenziale, mai come una vecchia bagascia da teatro d’opera, piena di termiti e senza anima. E lui in risposta rispetta me, sapendo che se lavoro con lui lo faccio per una ragione specifica, perché ammiro quanto abbia ancora da dirmi, e quanto sempre riesca a sorprendermi, senza mai diventare per me la “risorsa esclusiva” o la giustificazione pseudogitana di uno stile oramai vecchio e superato.
Oggi la musica viaggia velocissima, fra canali sempre più attenti alla dimensione della performance dal vivo, al rapporto diretto degli ascoltatori con la musica e con l’artista, e quindi io da compositore rispondo con l’urgenza e responsabilità di osservare tutto ciò e di coltivare e sviluppare ciò che so e ciò che ho studiato; perché, in mezzo a questa frenetica evoluzione della gente e della nostra tecnologia, dentro di me vive la pace profonda e serena di una consapevolezza: se mi dovessi trovare per un motivo sconosciuto su di un’isola sperduta, e ci rimanessi per 20 anni, senza ombra di civiltà, pianoforti e tecnologia sarei comunque in grado di intrecciare quattro foglie, tracciare un pentagramma e scrivere la mia musica, pensandola.
 
Sei una delle figure più interessanti nella scuderia Almendra. Quanto è importante lavorare con un team creativo, con cui c’è sintonia e affinità?
È fondamentale! Almendra è uno di quei pochi luoghi della mente e della realtà, circuiti di armonie, in cui posso essere libero, libero da qualsiasi circostanza esterna o dovere, essere me stesso al cento per cento, sia che faccia musica o che sia al bar a bere un caffè o un Amaro del Capo. Conosco Gianluca e Luca da prima che Almendra Music esistesse e, fin da quando era soltanto un progetto, Almendra già vibrava di una forza che mai avevo visto accadere intorno a un nucleo di persone così eterogeneo. Era scioccante ed emozionante notare come tanta gente, così tanto diversa, stesse iniziando a gravitare magicamente tutta intorno a un sogno, un progetto comune bello e solido, un progetto di vita intorno alla musica e all’arte. Ho imparato tantissimo dai ragazzi, da Luca, Gianluca, Antonio, Danilo, Filippone, Marco… E potrei continuare all’infinito, con storie e nomi.
Ognuno dà qualcosa e riceve qualcosa, è uno scambio umano, vero, sincero, fra persone che amano quello che fanno e lo fanno con gioia e rigore, senza egoismi, senza peso e senza doppi fini, limpidamente. Arrivare a Berlino è stato molto emozionante ma altrettanto doloroso, perché mi manca tanto la quotidianità gioiosa in Almendra a Palermo, quella del vivere la musica apprendendo sempre qualcosa di vero e profondo dalle conquiste dell’amico al tuo fianco.
 
Sei assai prolifico e con Almendra hai già all’attivo vari titoli, ai quali seguiranno delle novità nell’immediato futuro. Saranno sulle tracce dei precedenti o prevedi delle novità?
Non so se voglio svelarle, posso dire certamente che c’è un bel po’ di roba che bolle in pentola, e che spazia fra tantissime forme e diversissimi organici. Quello che so e che voglio dire è che non ho nessuna intenzione di adagiarmi per nessuna ragione al mondo. Sono tanti i progetti che sto completando, e tanti anche quelli che stanno nascendo qui a Berlino, con nuove collaborazioni, e nuovi ospiti totalmente inattesi. In realtà continuerò a fare quello che ho sempre fatto, sentire e pensare, scrivere e suonare, cercando di fare tutto con il massimo entusiasmo possibile, e circondato da esseri umani che amo e stimo profondamente.
 

 

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