30/10/2015

Susanna Parigi, Il suono e l’invisibile

Un libro per cercare di rendere più semplice il discorso sulla percezione musicale e per dimostrare che la musica può trasformare la vita stessa
Esce oggi Il suono e l’invisibile – La musica come stile di vita (Infinito Edizioni), nuovo libro di Susanna Parigi. L’interprete, musicista e autrice fiorentina che vanta collaborazioni con artisti del calibro di Pat Metheny, Noa e Tony Levin, insegna anche canto moderno nel triennio popular music del Conservatorio Bonporti di Trento e nella struttura Playsound–Novenove Studio di Milano. Da poco ha portato a termine un lavoro sincero e delicato, nato da una conversazione con lo studioso della musica Andrea Pedrinelli.
 
La musica può affinare le percezioni, le intuizioni e la capacità di vedere oltre le parole, facendo emergere ciò che nel libro viene definito come l’infinitamente piccolo.
La musica può trasformare la vita stessa.
 
Ma capiamone di più insieme a Susanna Parigi…
 
Il suono e l’invisibile – La musica come stile di vita. Com’è nato il titolo del libro?
La pratica della musica negli anni viene per forza di cose messa in contatto con tanti aspetti dell’invisibilità che ci circonda quotidianamente. Spesso non ci prestiamo attenzione, magari per abitudine… Penso ad esempio alle onde elettromagnetiche delle quali vediamo solo una piccolissima parte.
L’altra parte del titolo, La musica come stile di vita, nasce perché mi sono resa conto in tutti questi anni di quanto la musica abbia il potere di cambiare il corpo, lo stile di vita o i rapporti, non solo in chi suona in maniera assidua ma anche in chi ascolta…
Questo libro è nato perché avvertivo uno scarto tra la letteratura colta che approfondisce certi argomenti e tutto il resto, cioè rispetto alle persone che fruiscono della musica leggera. Io notavo che c’era uno scarto enorme tra certi libri, prevalentemente saggi, dove c’è un linguaggio musicale specifico e chi non lo conosce ne è escluso per terminologia, vocaboli ecc… e dall’altra parte mancava la letteratura, cioè un qualcosa dietro il volto esposto della musica, quello che si percepisce immediatamente della musica che ti nasconde tutto il mondo straordinario che c’è dietro.
C’era un vuoto, ma non volevo scrivere un saggio e allora con Andrea Pedrinelli abbiamo portato a termine questo lavoro e mi piaceva che la cosa arrivasse anche alle persone che un saggio sulla musica classica non lo leggerebbero. La forma conversazione forse rende più semplice la lettura.
 
Cito dal tuo libro: «La musica abitua l’orecchio a riconoscere dinamiche estreme di volume, a convivere con la pagina bianca del silenzio disciplinando il corpo allo sforzo di un atleta e nello stesso tempo alla più sottile introspezione». È difficile far passare il concetto della musica come disciplina?
È difficile. Oggi è molto difficile. Prima meno. Quando ho frequentato il Conservatorio la disciplina e la concentrazione erano date per scontate. Cioè: se un insegnante ti diceva di studiare 6 ore al giorno il pianoforte o anche 8 ore al giorno prima del diploma, non è che tu ti preoccupavi più di tanto. Oggi se a un allievo dici di studiare 2 ore, sembra che sia troppo.
Non è che prima fosse peggio e oggi sia meglio, eh. Non è così. Oggi ci sono altri stimoli. I ragazzi hanno altre possibilità e quindi non c’è un meglio e un peggio e bisogna rendersi conto che è così. È questo che la musica insegna, altrimenti le cose non ti vengono. La musica ti insegna la disciplina, la pazienza, ti insegna che se non provi un passaggio 40 volte al giorno non ti viene.
A me piacerebbe trasmettere come valore e insegnamento che la musica, per chi la fa, mette insieme corpo e pensiero. Con lo strumento utilizzi il corpo, ma anche con la voce utilizzi il corpo. Ecco perché dico atleta. E poi c’è il pensiero e secondo me la musica è la materia che unisce maggiormente questi due elementi.
 
All’interno de Il suono e l’invisibile si parla tanto anche di come componi i tuoi pezzi e a tal proposito affermi anche: «La musica creativa può trasformare i comportamenti, il corpo e la vita stessa». Quindi chi non compone musica può godere comunque in qualche modo dei benefici della musica creativa o no?
Sono sincera: ne può beneficiare, ma non allo stesso modo. Poi ci sono anche diversi livelli di lettura.
La mia musica viene definita “pop letterario”, perché le mie canzoni sono piene di riferimenti letterari. Succede che chi non ha fatto un percorso parallelo al tuo, magari certi gradi di lettura non li comprende o li comprende in maniera differente e allora fruisce della canzone e legge il testo a suo modo. Ma è chiaro che per chi ricollega questi richiami evidenti nelle tue canzoni a qualcosa di già sentito e già visto è un altro mondo, un’altra visione delle cose.
 
Chi ha definito per primo la tua musica “pop letterario”?
Sai… a dire il vero non me lo ricordo! È stato un giornalista e da quando ha utilizzato per la prima volta questa espressione per collocare la mia musica, l’hanno ripresa tutti quanti.
 
Bene. Adesso una domanda a proposito dell’ascolto della musica. A un certo punto citi il sociologo Bauman che parla di una società liquida «dove tutto è in continua mutazione, in corsa perenne». Sempre meno tempo a disposizione significa che sono sempre più superficiali l’ascolto e la percezione della musica?
Sì. Infatti cito Bauman proprio per questo. Il mondo corre e dove tu corri, passi sulle cose e le calpesti. Questo tipo di società, non dico niente di nuovo, non ti mette mai in contatto con il silenzio. Tu i silenzi li devi cercare accanitamente, appassionatamente. Dovresti renderti conto del potere immenso del silenzio. La corsa non permette questo tipo di ascolto che ha quasi qualche connessione con la spiritualità, la contemplazione, la meditazione… Per provare il silenzio, intorno e dentro, occorre molta disciplina. La musica ti fa capire la cura delle dinamiche e ti mette in contatto con una dimensione che se non sei fermo, attento e in silenzio, non la senti.
Nel libro io parlo ad esempio della Loudness War, fenomeno a causa del quale c’è un alzamento annuale del volume delle registrazioni. Alla fine se urli, senti solo l’urlo. Vale anche nella vita di tutti i giorni. Spesso non si parla, non si ascolta ed è l’esempio degli ultimi 20 anni della televisione. La televisione che insegna la rissa e non il silenzio. Dove c’è litigio, non c’è comunicazione.
La musica sta diventando sottofondo. È un dato di fatto. È così. La musica, da essere un’esigenza quasi primaria delle persone negli anni ’60, ’70 e un po’ negli anni ’80 sta diventando sempre più sottofondo. Tipo gli mp3 non sono un ascolto di qualità e l’orecchio si abitua a una qualità che non è il massimo, ma sono tanti i problemi e il discorso è veramente complesso e forse potrebbe risponderti meglio di me un sociologo. In tutti i sensi sta diventando un sottofondo. Io in un bar ad esempio con i miei amici sento una musica alta che non posso ascoltare e che non mi permette nemmeno di parlare con gli amici.
E poi questo è un punto fondamentale: c’è una disaffezione delle persone a una musica che ormai è pla-sti-fi-ca-ta.
 
Nella conversazione con Andrea Pedrinelli ci sono anche alcuni momenti divertenti, come quando spieghi che si usano tanti termini e sinonimi tra addetti ai lavori per far capire qual è il suono ricercato per un determinato brano o anche solo una parte di esso. Succede che quando suoni o componi, riesci a fare esattamente quello che hai pensato?
Quello che succede in chi scrive e in chi compone è come la soluzione di un’equazione per qualcuno che fa matematica. È uno stato di benessere. Ecco perché parlo di trasformazione della vita con la musica. Tutto il resto è illusorio. Il possesso di cose è un benessere illusorio. Comprare compulsivamente è un benessere illusorio. Il benessere vero, ma è uno di quelli veri, è la creazione. Fare qualcosa che prima non c’era, dà una soddisfazione che non è comparabile con nessun’altra cosa. Il raggiungimento ottimale della tua immaginazione non c’è, ma, se ci arrivi vicino, sei davvero contento.
 
A un certo punto affermi di essere circondata da uomini, nel senso che gli addetti ai lavori nella musica sono quasi tutti uomini…
Sì, è così. Io scrivo da tanti anni e dicono che la mia scrittura è molto al femminile. E dicono pure che non mi rifaccio al cantautorato maschile e a me fa piacere.
Però devo anche dire le cose come stanno: spesso le donne fanno più fatica a mettersi in gioco completamente. Si può trovare più spesso una donna che canta, ma è più difficile trovare una donna che suona e che scrive (anche se adesso ce ne sono fortunatamente molte di più). Però c’è anche un approccio diverso alle cose. Io vedo anche gli allievi. Gli uomini mettono subito le mani sullo strumento senza nemmeno pensarci e questo anticipa e fa sì che, mentre noi donne stiamo ancora a pensare, loro stanno già agendo.
 
Ultime due curiosità: quando hai scoperto il legame tra musica e fisica quantistica?
Non è molto. Ho scritto il libro pure perché la musica mi ha messo in contatto con queste invisibilità quotidiane. La maggior parte delle persone non percepisce l’intonazione, ma solo le stonature gravi.
Ma la cosa più importante è l’intenzione. Un’intenzione cambia totalmente l’esecuzione di una canzone. Come lo spieghi agli allievi? È difficile farglielo capire. È l’intenzione che cambia.
La partitura c’è, però esiste e non esiste. Se ho esecuzioni totalmente diverse, capisci che la partitura è un “fantasma”. Per spiegare tutto questo io a volte parlo di fisica quantistica, perché spiega quello che è difficile da spiegare. C’è qualcosa di imprendibile e la fisica quantistica te lo dimostra.
 
La ricerca in musica dell’infinitamente piccolo di cui parli spesso nel libro è più una missione o una necessità?
Una missione. La ricerca dell’infinitamente piccolo è aver cura delle cose, l’attenzione per le cose. Dove non ci sono cura e attenzione, non c’è ascolto, non c’è comprensione, non c’è dialogo…
 
 

 

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