09/12/2015

Un terzo grado sul prog con Marino e Bruno

Indagini tra i meandri dell’underground italiano ’60 e ’70 in un nuovo libro Tsunami
Irripetibile. Così definiscono la stagione musicale del “pop progressivo” nostrano Alessio Marino e Massimiliano Bruno, autori di Terzo Grado. Indagine sul Pop Progressivo italiano (Tsunami Edizioni). Irripetibile perché ricca di gruppi maggiori e minori, di album celebri e one shot durati il tempo di una sigaretta, di live di fronte a folle oceaniche e sudatissimi concerti tra balere e discoteche, di avveniristici studi nelle grandi città e cantine gonfie di musica tra paesini e province. Irripetibile per la qualità, presente sia nei lavori dei gruppi più blasonati che nelle sporadiche prove di formazioni misconosciute. Collezionisti meticolosi e onnivori, in Terzo Grado Marino e Bruno hanno raccolto una trentina di interviste a membri di Orme, Stormy Six, Trip, Analogy, Nuova idea e tanti altri protagonisti dell’underground italiano a cavallo tra due decenni. Li troviamo disponibili per una lunga conversazione.
 
Terzo Grado affronta con metodo investigativo alcuni aspetti poco noti del prog italiano. Mi ha colpito subito la dicitura “pop progressivo”: come mai non avete parlato di progressive rock tout court o di pop?
Massimiliano Bruno: Abbiamo usato il termine “pop progressivo” poiché quella era la definizione usata dalla carta stampata, ma anche dai giornalisti musicali dell’epoca e dai musicisti stessi, per descrivere il nuovo genere musicale che stava prendendo piede in Italia nei primi anni ’70. Altri termini sovente utilizzati erano semplicemente “pop”, a volte “underground”, quasi mai “progressive”, che fu adottato in massa parecchio tempo dopo. Ci piaceva poi definire il genere come lo chiamavano i ragazzi degli anni ’70 e non più banalmente – e ampollosamente – “progressive rock”, poiché noi stessi ascoltiamo molta musica di quegli anni e ci piaceva fare un omaggio a quel periodo.
 
Alessio Marino: Da buon collezionista e lettore della stampa musicale d’epoca ho notato che il termine ovviamente più utilizzato era “pop underground” (fra il ’69 e i primissimi anni ’70), “pop” (nel corso dei ’70) e qualche volta anche “pop progressivo”: ma raramente il termine “progressive/progressive rock” era utilizzato anche se mi aveva colpito che “progressive” fu usato su un numero di Musica & Dischi del ’69 riferendosi ai Doors (lungimiranti!). “Pop progressivo” era il termine giusto per il tipo di indagine condotta. Non solo rock o progressive rock, ma anche una ricerca in ambito più pop (oltre che nel beat e nella psichedelia, nel funk e nell’elettronica, nelle varie sezioni del libro si spazia molto e vengono citati e analizzati centinaia di nomi tra i generi più disparati). Molti gruppi che facevano un genere soft utilizzavano alcuni stilemi del progressive rock (qualche introduzione caustica che lasciava poi spazio a un brano melodico, qualche assolo violento nella parte centrale di un brano rock all’acqua di rose). Quindi mi sembra un termine azzeccatissimo per la ricerca.
 
Terzo Grado ribalta la generale convinzione che il nostro prog sia solo un affare di band blasonate come Banco, Orme e PFM. In che modi gruppi “minori” come Blocco Mentale, Richard Last Group e Hellua Xenium hanno contribuito allo sviluppo del prog italiano?
MB: Terzo Grado è nato proprio per divulgare gruppi meno conosciuti che hanno ugualmente lasciato un segno. Non c’erano solo Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e Le Orme, l’Italia pullulava di centinaia di complessi pop che a volte non arrivavano nemmeno in sala d’incisione, oppure pubblicavano un solo 45 giri per poi sciogliersi o tornare nell’anonimato. Ma hanno lasciato lo stesso un segno a livello provinciale o cittadino: anche i paesi, spesso, avevano il loro complesso che suonava pop. Non era un fenomeno solo radicato nella grandi città, ma al contrario come la musica beat italiana – che era la progenitrice naturale del progressive italiano – era presente in tutta Italia con molteplici sfaccettature.
 
AM: Tutti i libri che si sono occupati di questi argomenti tendono sempre a riportare le stesse notizie e gli stessi nomi. La mia idea era di andare ad un livello superiore, portando alla ribalta nomi come Hellua Xenium, Forze Nuove, Richard Last Group, Planetarium, Spaventapasseri (solo per citarne alcuni), che nessuno conosceva se non per le loro rarissime incisioni. Lo stesso lavoro di ricerca lo porto avanti da quasi dieci anni con le mie pubblicazioni BEATi voi! (durato dal 2007 al 2013) e Storie di Giovani Pop (che curo dal 2014) che cercano di alternare gruppi conosciuti a gruppi meno famosi ma considerati cult per le proprie leggendarie incisioni avvolte nel mistero più totale. Alcuni di questi a dire il vero erano già stati trattati ampiamente nelle riviste ma come sempre accade alcuni autori “pigri” continuavano a darli per sconosciuti piuttosto che approfondire con una lettura. Per questo ho voluto portare a conoscenza di queste scoperte gli appassionati.
Non si può parlare di “contributo allo sviluppo”: spesso questi complessi suonavano in piccoli festival amatoriali, teatri o dancing, hanno avuto una vita più o meno breve, hanno fatto dei dischi che non hanno venduto molto (tutt’altro!). Tolti i grandi nomi che godevano di ampia visibilità e che erano di ispirazione per i gruppi nascenti, i minori non hanno portato uno sviluppo vero e proprio alla scena nazionale. Erano delle attrazioni nelle rispettive province, ascoltati da una piccola compagnia di amici, ammiratori e gente che li seguiva anche per ballare: spesso suonavano nei Dancing e nelle prime discoteche, alternavano brani d’ascolto – magari le loro incisioni o i classici rock e prog del periodo – a brani più (passami il termine) danzerecci e da classifica, fra pop commerciale, shake beat e r&b. Nell’ultimo capitolo dove analizziamo alcuni nastri dal vivo inediti di gruppi pop di provincia, è possibile farsene un’idea: rifacimenti di Jethro Tull, Led Zeppelin, Black Sabbath, Deep Purple sono misti a brani di Chicago, Battisti, Beatles, Formula 3, Creedence Clearwater Revival, Santana, e talvolta anche brani di Sanremo o altri successi. Solo in maniera postuma, con la nascita del collezionismo e la voglia di analizzare quegli anni, questo genere di gruppi ha trovato una considerazione migliore.
C’è però sempre confusione fra rarità di un disco e qualità e importanza della stessa registrazione. Non sempre il disco più ricercato e introvabile è sinonimo di un sound davvero innovativo. Ti cito il disco a 45 giri che si può ordinare dall’editore nella versione deluxe di Terzo Grado: 300 copie del libro hanno una diversa copertina, alcune foto inedite e allegato il vinile di Lydia e gli Hellua Xenium Diluvio/Conoscevo un uomo (ristampato per la prima volta in assoluto). Come ogni buon collezionista sa, questo è il disco più raro e introvabile in assoluto del progressive italiano, merito di una scarsa diffusione all’epoca e oggi è valutato sui 1500 euro (e non mi stupirei di vederlo in vendita anche a cifre più proibitive). Un 45 giri che è nelle liste di ricerca di ogni collezionista. Il disco è solo per metà interessante: Diluvio è un buon brano, molto teso, hard e cupo, ma il retro onestamente non è proprio nulla di favoloso, un brano pop senza picchi particolari di creatività.
 
C’è un momento saliente che emerge nelle vostre interviste: il passaggio dal beat al rock, il cambiamento dei luoghi di fruizione musicale, dalle balere ai club e poi ai concerti open air. Questa fase viene spesso accantonata, come se il prog fosse stato importato dall’Inghilterra ex abrupto
MB: In realtà è una fase fondamentale, che storicamente si colloca all’incirca nel 1970, e vede uno spartiacque fra la vecchia musica beat e quella nuova del pop progressivo. Era un periodo nel quale molti gruppi erano incerti sulla strada da percorrere: se affidarsi alle sonorità del beat italiano, oppure suonare quella che stava diventando la musica dei giovani e che si stava affermando. Molti scelsero questa seconda strada, e a livello sonoro quello che ne è scaturito è stato un pop-beat dagli accenni progressivi che strizzava l’occhio alle mode musicali del momento (Nice, King Crimson, Procol Harum docet). A mio personale avviso, quello che va dal ’69 al ’71 è uno dei periodi più oscuri e meno trattati della nostra storia musicale, poiché presenta alcuni lati ancora ignoti, oppure ogni tanto salta fuori un disco di un gruppo del quale nessuno ha mai sentito parlare. Insomma, ci saranno sempre cose nuove da scoprire. Infine, uno dei cambiamenti della musica dal vivo fra l’epoca beat e quella prog era la fruizione della musica stessa: nel primo caso era suonata per divertire, nel secondo caso spesso era suonata all’aperto in raduni come quelli internazionali di Woodstock o dell’isola di Wight, ed erano i celeberrimi “festival pop”. Inoltre la musica era divenuta maledettamente più complicata e varia, rispetto ai pochi accordi che prevedeva la musica beat, che era figlia diretta dei Beatles e ancor prima del rock ‘n’ roll.
 
AM: Essendo un esperto e collezionista di beat (il mio archivio Beat Boutique 67 si occupa principalmente di beat italiano e anni ’60, anche se con gli anni ho esteso la ricerca agli anni ’70 e trovano quindi spazio anche i gruppi prog) era ovvio partire da quel periodo e seguirne l’evoluzione. Anzi, spesso si parte dai primissimi anni ’60, con il rock ‘n’ roll o il genere strumentale in cui gli Shadows erano i maestri indiscussi: ogni intervista parte dalle prime esperienze nei complessini nati nei primi anni ’60, seguendo il naturale percorso di evoluzione della musica con il beat e con l’avvento del pop, e talvolta anche degli anni ’80. Partire dagli esordi, analizzare le esperienze precedenti aiuta a capire l’evoluzione del musicista ma anche della società. Spesso, dietro ai grandi e rivoluzionari gruppi progressive ci sono esperienze in complessi beat, magari gruppi da night che suonavano quotidianamente (arricchendo di esperienza un musicista) o che facevano musica sperimentale e psichedelica (anche se magari mai finita in nessun disco): solo analizzando questo percorso si riesce a capire come si sono formati certi musicisti e comprendere come sono riusciti a dare quel tocco in più e quella personalità ai loro gruppi di progressive.
 
Ci sono rapporti di continuità tra beat e prog o si è trattato di fenomeni lontani e non comunicanti?
MB: Il prog è diretto figlio del beat, che a sua volta è diretto figlio del rock ‘n’ roll. La differenza basilare con quello che avvenne in UK è che mentre là la psichedelia fece da traino al progressive e diede continuità alla musica beat, qua si è passati direttamente dal beat e progressive. Di colpo. Senza una vera scena psichedelica che fece da incrocio tra i due generi musicali. C’è stata anche la psichedelia in Italia, ma a un livello veramente sotterraneo e di nicchia.
 
AM: Il prog non è piovuto dal cielo da un giorno all’altro, alcune incisioni del periodo ’69/’70 ne sono la prova, dischi a volte snobbati dai puristi che però ci mostrano un periodo di sperimentazione interessante. Echi di beat, blues e psichedelia si fondono, evolvono e diventano i primi vagiti di una musica ancora non ben definita… forse è il periodo musicale che amo di più. In anni di lavoro ho parlato e recensito tantissimi di questi dischi spartiacque, molti sono nel capitolo finale dedicato alle rarità. Nella mia introduzione (che parte proprio dal rock ‘n’ roll e arriva alla fine degli anni ’70) ho cercato di creare una storia che facesse capire la naturale evoluzione della musica. Pensa solo ai più grandi: le Orme avrebbero fatto Collage se non fossero nati come un gruppo beat psichedelico? E i New Trolls? Non c’era già una vena psichedelica e creativa incredibile e lungimirante nelle prime incisioni del ’67/’68? E la PFM? Sarebbero diventati i musicisti di razza che si faranno conoscere in tutto il mondo senza una lunghissima gavetta come Quelli? Ovvio che questi due generi sono attaccatissimi, il progressive deve tutto al beat e a quella fase pop ibrida e un po’ sperimentale a cavallo dei due decenni.
 
A proposito di psichedelia, interpretata in modi diversi da nomi come Chetro & Co., Re Mida e le Stelle di Mario Schifano, secondo voi perché non ha attecchito in Italia come il rock sinfonico?
MB: Debbo puntualizzare che esistevano altre decine di complessi psichedelici, o dediti ad un beat-garage molto rozzo ed energico, ma era un movimento davvero isolato, non contemplato a livello nazionale come continuità ed identità musicale. Dunque la psichedelia italiana non era solo Stelle di Mario Schifano, Chetro & Co. o Mani Pesanti, ma c’era una serie di complessi minori, sparsi in tutta la penisola, come Elementi, Persiani, Trippers, Ombre di Bronzo e molti altri. Non ha attecchito perché, molto semplicemente, in molti casi non era percepita come tale: molti complessi suonavano psichedelia inconsapevolmente, arricchendo il loro beat di organo o creando tetre sonorità, ma spesso era, passami il termine, “psichedelia involontaria”. In pochi casi esisteva il concetto di musica psichedelica, inoltre pochi facevano uso di droghe, che era uno dei veri motori del fenomeno. Infine i dischi stranieri giungevano con notevole ritardo in Italia ed erano di difficile reperibilità: basti pensare a Jimi Hendrix o ai Jefferson Airplane, che qua da noi era possibile ascoltare due o tre anni dopo, e loro erano del ’66-’67… nel ’69 la psichedelia era già conclusa.
 
AM: La psichedelia è un punto che sto sviluppando per un mio prossimo lavoro. Se in Italia non ha attecchito è per mancanza di tutta la sottocultura che invece si sviluppò in Inghilterra e in America. Solo piccole cerchie in alcune realtà cittadine crearono brevi episodi di gruppi interessanti e votati alla psichedelia più folle e visionaria. Le Stelle di Mario Schifano erano aiutati, finanziati e “governati” dal folle genio di Schifano che conferiva al gruppo quella dose di misticismo durante le esibizioni grazie a proiezioni di filmati (la stessa cosa che accadeva alla Factory di Andy Warhol). E ti potrei citare solo pochissimi casi di vera psichedelia nata in Italia, il grosso è solo una momentanea moda superficiale e musicale. Chetro & Co. erano un gruppo folk-beat con grande classe e inventiva e probabilmente il loro 45 giri non era volutamente psichedelico anche se il risultato è senza ombra di dubbio molto personale e visionario. Venature più acide del gruppo invece si sentono in un paio di colonne sonore che ho analizzato nel libro.
La psichedelia in Italia non attecchì quindi se non superficialmente (abiti, scenografie di alcuni locali, copertine di dischi e grafica, qualche lieve sonorità acida in poche centinaia di dischi) ma ben poco nel modo di intendere e vivere la musica e quasi nulla nel modo di vita. Perché? Mancava una capillare diffusione (perlomeno nel periodo psichedelico che è databile fra il 1966/1969) delle droghe psicotrope che sono un elemento fondamentale della cultura psichedelica. Dubito che uno che non abbia mai provato l’hashish o l’acido possa comprendere appieno e godere (ti cito un gruppo a caso che adoro) degli Strawberry Alarm Clock! Quello stato di percezioni alterate dato dalle sostanze psicotrope è tremendamente necessario. Esisterebbero oggi i rave party senza le droghe sintetiche? Assolutamente no, musica e droghe vanno spesso a braccetto e ogni tipo di musica ha il suo tipo di droga. Ma di questo argomento voglio parlarne in maniera approfondita in un lavoro che sta – seppur con calma – prendendo mano.
 
Finalmente avete dato spazio a Nino Smeraldi, fondatore delle Orme e figura seminale per il rock italiano nella seconda metà degli anni ’60.
MB: Sì, abbiamo volutamente scelto di intervistare Nino poiché già esistono vari documenti – e libri – sulla storia delle Orme nella classica formazione degli anni ’70 e per sostenere lo spirito del libro – che come ho scritto vuole naturalmente documentare aspetti meno noti e trattati – abbiamo scelto di dare spazio al primissimo periodo del gruppo. E se mi consenti un paragone volutamente forzato, Ad Gloriam (uno dei pochi ellepì di psichedelia in Italia) sta quasi a The Piper dei Floyd… con le dovute differenze. Ma la base di partenza dei due gruppi è stata la stessa. La musica psichedelica.
 
AM: Ho avuto la fortuna di intervistarlo anni fa, fu pubblicata in un numero di BEATi voi! che ebbe molti consensi proprio perché fui il primo a contattarlo… Pensavo fosse una persona che mai mi avrebbe concesso una intervista sulle Orme, la sua creatura, vistagli poi scappare dalle mani. Un grande personaggio, intelligente, che fa un’analisi dettagliatissima, oltre che un grande musicista e un “folle genio creativo”. Ho sempre pensato che Nino Smeraldi è l’equivalente italiano di Syd Barrett, genio e sregolatezza… E il periodo che lui racconta subito dopo la dipartita dalle Orme (con i Re Mida) ne è la prova!
 
Una personalità distante da Smeraldi, se non opposta, è Franco Fabbri, dagli Stormy Six alla insigne attività di musicologo. Che ruolo occupano gli Stormy Six nell’economia del nostro rock anni ’70?
MB: Gli Stormy Six rappresentano un po’ quello che vede come massimi esponenti gli Area, e cioè quella fetta di musicisti dediti all’impegno sociale, alla musica di protesta, caratterizzati da una visione politicizzata di Sinistra, come la maggioranza dei complessi pop italiani (una delle eccezioni era rappresentata dagli Janus, votati a Destra). Il gruppo tra l’altro, nelle prime prove discografiche, offriva un miscuglio di musica folk e psichedelia.
 
AM: Il contributo di Fabbri è forse quello meno musicale in tutto il libro. Certo, abbiamo discusso di musica ma con lui ho cercato anche di capire alcune realtà sociali – visto il loro ruolo di peso durante i ’70, dopo una partenza comune a molti nell’epoca più frivola del beat, o dove comunque la “contestazione” per molti era una semplice moda – e lui crea un piccolo spaccato interessante sul fermento socio-culturale italiano. Li ho voluti nel libro perché le trenta interviste cercano di fare il punto della situazione su una variegata proposta di generi musicali che col tempo sono stati catalogati un po’ brutalmente come progressive. Il loro folk, la loro canzone impegnata, il loro modo di proporsi in situazioni e canali alternativi, la scelta di fondare una loro etichetta discografica è sicuramente molto distante da altri che erano completamente disimpegnati e proponevano musiche più sanguigne. Un personaggio di questo calibro era doveroso, visto che la maggior parte degli intervistati si sono disinteressati alla parte di “impegnata” che hanno caratterizzato gli anni ’70.
 
Raccogliendo il materiale per il libro, quali sono state le scoperte che più hanno colpito due attenti osservatori come voi?
MB: Per quanto mi riguarda le interviste a Lydia e gli Hellua Xenium, Forze Nuove, Spaventapasseri e Richard Last Group, in altri libri solo nominati ma mai approfonditi nelle informazioni. È stato emozionante tracciare per la prima volta una biografia e avere notizie sui gruppi poiché in altri libri non ce ne sono.
 
AM: In parte i nomi degli intervistati erano già stati editi nelle riviste da me fondate o in altri libri amatoriali pubblicati anni fa (ancora visibili su http://beatboutique67.xoom.it). Ovviamente ho rivisto il tutto e l’ho completato (specialmente nelle note, nella discografia e nella parte relativa alle foto, che mi hanno rubato ore a setacciare il mio enorme archivio) con materiale che avevo catalogato e trovato solo in seguito. Il grosso del lavoro è stato sul capitolo delle rarità a fine libro: una raccolta di circa trecento dischi editi (ma rarissimi) e inediti, nastri amatoriali e altre curiosità. Era partito come un elenco sommario di 15/30 incisioni ma cercando nell’archivio della Beat Boutique 67 ho trovato cose che nemmeno immaginavo (spesso registrazioni inedite ricevute da membri dei gruppi) e alla fine la lista era spaventosamente enorme. Ogni giorno in archivio, facendomi passare per le mani documenti di ogni tipo, è sempre una scoperta preziosa!
 
Il vostro Terzo Grado si ferma qui o siete al lavoro con altre indagini?
MB: Per quanto mi riguarda è probabile. Credo dipenda principalmente dagli impegni lavorativi di ciascuno. Forse abbiamo un’idea abbozzata ma decideremo il da farsi più avanti. Al momento proseguiamo con le nostre riviste Storie di Giovani Pop e la associazione musicale ad esse correlata, che ricordo è: http://giovanipop.altervista.org/index.htm. Al tempo stesso sto cercando lavoro come tecnico del suono e programmatore/collaboratore musicale nelle radio. Spero che qualcuno mi legga…
 
AM: Le mie indagini non finiscono qui: l’archivio della Beat Boutique 67 conta ormai diversi locali traboccanti di materiale di ogni tipo dedicato ai gruppi italiani degli anni ’60 e ’70 e qui conduco le mie ricerche che poi – in piccola parte – escono su libri e riviste che mi autoproduco. Pensa che solo sui gruppi e gli artisti beat e prog italiani ho circa sei/settecento libri (assurdo, ma è così!), basta questo dato per capire la mole di materiale e le ricerche che continuo a fare nel reperire testimonianze di qualsiasi genere. Sto lavorando come sempre a Storie di Giovani Pop, un trimestrale da me completamente curato ed ideato che in ogni numero porta a conoscenza di gruppi e cantautori di vari generi anni ’60 e ’70 e che è distribuito agli associati della Associazione Giovani Pop con cui realizzo mostre, incontri, concerti.
 

 

 

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