25/03/2013

Black Rebel Motorcycle Club

«Cos’è successo al rock’n’roll»? A giudicare dal concerto di Milano, è vivo, privo di artifici e vibrante

Per una sera Milano si traveste da Wrightsville, la piccola cittadina californiana che ne Il Selvaggio viene invasa e destabilizzata da una gang di motociclisti capeggiata dall’indimenticabile e indimenticato Marlon Brando. Dopo tre anni infatti ritornano nel capoluogo meneghino i Black Rebel Motorcycle Club, che all’inizio della loro carriera musicale proprio a quella combriccola di delinquenti motorizzati rubarono il nome. La data è sold out, ai Magazzini Generali mancano le moto ma ci sono le chitarre. Prima quelle dei Transfer (ottimo gruppo spalla con un sound a metà tra Queens Of The Stone Age e Wolfmother) e poi quelle attesissime di Robert Levon Been e Peter Hayes, venuti a presentare Specter At The Feast, settimo album in studio della band di San Francisco.

E proprio come due spettri i due emergono dal buio attorno alle ventuno, accompagnati da Leah Shapiro (che ha sostituito Nick Jago nel 2007 e già batterista nei tour dei Raveonettes). Un fascio di luci blu illumina il palco e accompagna le note del brano di apertura, la cupa e lenta Fire Walker. Segue il primo singolo tratto dal nuovo disco, Let The Day Begin, cover dei Call, che evoca un altro spettro, molto più ingombrante, quello di Michael Been, padre di Robert e “uomo del suono” dei BRMC, morto d’infarto nel 2010 nel backstage di uno show in Belgio. I primi sussulti del pubblico arrivano con le chitarre wah wah di Rival e lo stomp quasi sciamanico di Beat The Devil’s Tattoo. Poi Robert si avvicina al microfono e saluta il pubblico milanese, dice che è passato un po’ di tempo e comincia a contare: «One, two, three, four…». L’onda sonora di Whatever Happened To My Rock‘n’Roll si abbatte sui Magazzini Generali. Un attimo ed è il delirio: nelle primissime file si comincia a pogare mentre due ragazzi si abbandonano al più classico dei crowd surfing.

Ain’t No Easy Way vede Peter Hayes alle prese con chitarra acustica e armonica, mentre Love Burns conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che le vecchie canzoni sono sempre quelle più amate dai fan. La cosa che più colpisce del live set dei BRMC è il volume sprigionato dagli amplificatori ammassati alle spalle del trio: Leah Shapiro è precisa e la potenza delle sue rullate contrasta con la sua figura esile e minuta, Robert Levon Been si contorce su stesso, mentre Peter Hayes è freddo, quasi immobile, e la sua concentrazione potrebbe essere persino scambiata per mestiere. La potenza del loro rock-blues elettrico si placa di tanto in tanto, lasciando spazio a momenti più melodici come nel caso di Returning (sicuramente uno degli episodi migliori di Specter At The Feast), o a momenti acustici come Mercy, con Robert che nel presentare la canzone si scusa in anticipo e sorridendo dice: «I haven’t done this song in a very long time… so i could fuck it up pretty bad!». Cosa che di fatto avviene qualche istante dopo quando dimentica le parole della seconda strofa. Il pubblico, però, sembra apprezzare la sua spontaneità e applaude divertito.

Ma è solo una piccola pausa, una sorta di preludio all’incendiario finale. Red Eyes And Tears, Six Barrel Shotgun e Spread Your Love hanno la giusta tensione e si susseguono senza interruzioni, continuando a scuotere la folla  e finalmente anche Hayes sembra lasciarsi andare un po’ di più. Poi le luci si spengono dando il tempo ai tre di rifiatare un po’. Rientrano dopo pochi minuti per un brevissimo encore, con l’estatica Lose Yourself che prevale nettamente su un’anonima Sell It. La sensazione che rimane (dopo due ore abbondanti di concerto) è quella di aver assistito a un grande concerto di rock’n’roll: autentico, essenziale, privo di artifici. Tutta una tirata. Con la musica al centro.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!