24/12/2014

Dead Bouquet

Un tripudio di chitarre declinate in tutte le incarnazioni folk rock possibili nel nuovo lavoro dei Dead Boquet
Trio rock che ruota attorno alla figura del songwriter romano Carlo Mazzoli, innamorato della 12 corde e dei Grant Lee Buffalo per questo interessante esordio i Dead Bouquet mettono in campo nientemeno che la produzione di Paul Kimble e la masterizzazione affidata al guru californiano Joe Gastwirt. Il baricentro del lavoro è effettivamente specchiato nel gruppo di Grant Lee Phillips, in un tripudio di chitarre declinate in tutte le incarnazioni folk rock possibili. Un ascolto più attento evidenzia però l’articolata complessità di ramificazioni e influenze che fanno emergere l’anima folk a tinte scure dell’album, spaziando le proprie geografie dalla Seattle che incubava il grunge (Nobody’s Sky), fino alla Scozia dei primi  Waterboys (Curse) con echi dei 16 Horsepower (Little Thing, Barking at My Gate). Permeato di misticismo e psichedelia, sostenuto da una dodici corde acustica distorta che ricorda i GLB dal vivo, l’album mantiene la sua vena cantautorale, enfatizzata dall’approccio interpretativo di Mazzoli, sempre immerso nel pathos, ma al contempo sinistro e distaccato. Una voce bassa e sulfurea che si adagia al pulsare armonico della ritmica, lanciandosi a volte in spinte in avanti decisamente rock.  
  
La plumbea, palpitante e abrasiva The Dam apre le danze tratteggiando il mood catartico che il gruppo cercherà di mantenere fino in fondo, anche se la lunghezza del disco, una certa omogeneità dei suoni e la propensione ripetitiva della scrittura rendono ostica la fruizione costante in questo stato d’animo, essenziale però per godere appieno i brani. Rappresentativa dei tempi che stiamo vivendo, la canzone rilascia qualche eco chitarristica dei compianti primi U2, esplodendo in un ritornello potente e attrattivo. My Baby and I è una song tra le più intense ascoltate ultimamente in questo ambito. Nobody’s Sky, singolo dal suono lussureggiante, si esalta nel ritornello caratterizzato da voci filtrate in amplificatori saturati e chitarre slide. Altre tracce degne di nota sono la nebbiosa e oscura Red Sofa, la deliziosa e quasi solare As Far as I Know, l’acustica e sognante Sur La Garonne e la conclusiva Stories, che con la sua coda younghiana riporta tutto a casa.
 
Certo, il suono è complessivamente un po’ datato ma l’album ha il merito di rianimare senza filtri un periodo genuino di oltre vent’anni fa, quando l’universo indie si nutriva del solco della tradizione senza l’autocompiacimento pop che ne caratterizza il percorso odierno.  

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