31/10/2007

JOHN DE LEO

Finalmente libero

John ha fama di essere un tipo un po’ ombroso e di poche parole, ma oggi – intensa giornata di incontro con la stampa nella sede milanese di Parole & Dintorni – viene incontro a tutti con una bella stretta di mano e un sorriso sincero. Si vede che è contento, e il motivo non è difficile da indovinare: sono passati più di tre anni dal distacco dai Quintorigo e, mentre questi ultimi hanno già pubblicato (l’anno scorso) il primo disco dell’era post De Leo, lui era un po’ sparito dalla circolazione, dedicandosi a progetti molto belli, ma fondamentalmente di nicchia. Ora è giunto il momento di cavalcare nuovamente la giostra del music biz, e l’album che ne è scaturito (recensione a pagina 97) è un lavoro tutto suo, che lo ha impegnato la bellezza di due anni. “Non ho tempi terrestri, purtroppo” dice con la sua bella voce cavernosa e resa un po’ rauca dalle troppe sigarette. “Quello del tempo per me è un problema. Però in questi anni, avendo militato in altri ambiti musicali, come il jazz e la musica contemporanea, non avevo né l’intenzione né la voglia di ritornare alla canzone e al discorso del pop. Questo disco lo considero un compromesso, nel senso che ho cercato di trasformare il limite del pop in un input, con cui mi sono divertito a cercare i deflussi della canzone, ad abusarne e a re-inventarne i codici”.
La cosa più difficile – ma anche più interessante – è stata quella di ridefinire il concetto e la forma di canzone pop, riscoprendo anche una componente di “italianità”. “Ho cercato di pensare al termine pop non come consuetudine commerciale, la cui funzione è esclusivamente quella di vendere, ma come discorso artistico. Pop per me sta per popular, quindi musiche popolari con l’intenzione, visto che sono italiano, di fare un disco di musica italiana”. Detto così sembra semplice, ma in realtà in questo disco c’è molto, molto di più… “Come posso liberarmi delle esperienze che ho fatto? Mi violenterei! Ci sono varie sfaccettature, c’è anche la musica classica, in alcuni momenti…”. Musica classica, ma anche jazz, elettronica, avanguardia, persino una rilettura del genere dance: Vago svanendo è un disco eterogeneo, frammentato, postmoderno. Potrebbe essere la trasposizione in musica di un certo tipo di letteratura, come la prosa citazionistica e ironica di Giorgio Manganelli. “Beh, il paragone non so se sia possibile anche se Manganelli l’ho studiato per un mio lavoro di videomusicazione di alcuni suoi scritti. Comunque, è vero che trovare un sodalizio, un dialogo tra musica, letteratura e video-arte è uno di quegli obiettivi che inseguo da diversi anni. Non a caso c’è stata la possibilità di mettere questo allegato, il dvd, in cui sono stato ben contento di potermi esprimere anche attraverso l’immagine. Per quanto riguarda la frammentarietà, credo che tutti siamo tante cose, e anche l’opposto di noi stessi. Non so perché, ma io sento l’esigenza di esprimere tutte queste sfaccettature”.
A questo punto, cerco di provocarlo (inutilmente), ricordandogli l’affinità di certa sua ricerca con quella di Demetrio Stratos. “Il paragone è assolutamente lusinghiero, ma io continuo a ripetere che Stratos e gli Area li ho scoperti circa dieci anni fa”. Per scherzare allora gli dico che non deve prendersela, perché non è l’unico a subire paragoni ingombranti: tutti i giornalisti italiani che hanno avuto l’occasione di intervistare Mike Patton gli fanno notare che la sua ricerca sulla vocalità è molto simile a quella di un certo John De Leo. E Patton risponde sempre, un po’ scocciato, che ne ha sentito parlare, ma che no, questo De Leo lui non lo conosce… “Eh, mi conosce, eccome!” sorride divertito. “Patton è un cantante tecnicamente straordinario, e sicuramente ci sono degli aspetti in cui le nostre esperienze si possono incrociare. Ma lui viene da quel crossover che cerca di mettere assieme il punk e il jazz. E poi lui è molto più rock di me”.
Che la vocalità sia uno dei tratti distintivi dello “stile De Leo” è fuori discussione, ma lui non dedica ore di studio alla voce; piuttosto preferisce dedicare il suo tempo all’elaborazione del suono e all’arrangiamento dei pezzi, in una visione globale della musica, dove la sua voce è solo uno strumento fra tanti. Da qui scaturiscono tantissime soluzioni diverse, come quella della simpatica Canzo: “È una composizione per voce e trombone, realizzata col grandissimo Gianluca Petrella” spiega John. “La struttura è pseudojazzistica, nel senso che c’è un tema e un’improvvisazione sul tema, e poi mi lascio andare a onomatopee incontrollate che sembrano solo un flusso ritmico. Poi c’è questo ribaltone teatrale, dove mi interrompo e dico qualcosa tipo ‘cristo, sono stonato’, e lui dice ‘bisogna essere stonati, il senso è quello’. Ed è vero: in tutta quell’imperfezione c’era qualcosa di più vicino alla realtà, qualcosa di ineffabile che però aveva un senso. Come se l’imperfezione fosse la cosa più vicina alla perfezione”. Quando parla di musica John si scalda, e ci tiene a farti notare le enormi difficoltà incontrate per realizzare cose apparentemente impossibili, come la costruzione degli strumenti-giocattolo impiegati in Bambino marrone: piccole chitarre in compensato, batteria giocattolo, pianino a muro suonati da personaggi come Roberto Gatto, Furio Di Castri e Danilo Rea; oppure le manipolazioni sonore di Freak Ship, pezzo dance realizzato esclusivamente con la voce, mandata in loop o alterata con strumenti analogici (“Uso un Fostex anni 80 a bobina per fare i reverse, un ventilatore per fare l’effetto Leslie, un karaoke giocattolo come distorsore”). Oppure ancora la contiana Spiega la vela, dove l’arrangiamento per l’Orchestra Arturo Toscanini di Parma sembra fluido e accessibile, ma in realtà “non c’è una battuta uguale all’altra, mai!”.
Trattandosi pur sempre di canzoni, la parola che valore ha? “La odio e la amo, e ora cerco di recuperare tutto quello che ho ignorato quando avrei dovuto studiare, circondandomi di amici stimolanti come Stefano Benni. Il significato della parola non può prescindere dal suono, e in questi anni ho ragionato molto sul suono della parola scritta, che innesca altri meccanismi mentali rispetto alla parola parlata. E anche rispetto ai dialetti, visto che ho tirato in ballo anche un dialetto (in Vago svanendo, nda). Una cosa che non ho ancora approfondito, perché mi avrebbe fatto perdere altri cinque anni, senza esagerare!, è quella di cercare una non-lingua, una lingua inventata”.
Un disco quanto meno fuori dagli schemi, insomma, che però seguirà l’iter promozionale di una qualsiasi altra produzione commerciale. E come primo singolo da mandare in radio è stata scelta Bambino marrone, la canzone-giocattolo. John scuote la testa e sorride: “Ma io lo so che non ci andrà in radio… è un dato di fatto. Ma cosa devo fare? Sono già contento così: sono riuscito a fare un disco come volevo, aggiungendo anche un dvd. Ho cercato di spiegarmi, di usare i codici diffusi in maniera onesta, cercando di farmi capire, nel senso buono del termine. A dir la verità, non ho scelto io questa canzone come primo singolo, e ho accettato a condizione di sceglierne poi un secondo che faccia un po’ da contraltare a questo, che per me è fuorviante rispetto al disco”. A proposito di discografia, non posso fare a meno di chiedere un commento sul caso Radiohead di cui tutti parlano in questi giorni. John metterebbe a disposizione la sua musica in Internet a offerta libera? “Anche se in questo momento non mi posso assolutamente lamentare, è un’idea che proporrò alla mia etichetta” dice con convinzione. “Non trovo mai sconveniente scaricare musica da Internet, perché non la trovo un’operazione penalizzante, almeno per me che non vivo sulla vendita dei dischi. Dall’altra parte, i feticisti, quelli che il disco se lo vanno sempre a comprare, ci saranno sempre, e anche questa è una fetta di pubblico da considerare. L’oggetto è comunque insostituibile”.

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