27/06/2013

Laura Marling

La folksinger inglese guarda a Joni Mitchell, al folk-rock di fine anni ‘60, all’Oriente per registrare in soli dieci giorni un lavoro formidabile, poetico, coraggioso

Dischi così non se ne trovano più, in giro. Musica semplice, coraggiosa, difficile. Musica che esige rispetto. Musica che va ascoltata con lo spirito con cui un tempo si mettevano sul piatto i 33 giri, non col desiderio di soddisfazione immediata che cerchiamo quando selezioniamo una canzone dalla libreria di iTunes. Once I Was An Eagle è un flusso di coscienza folk che chiede di essere sentito prima ancora che capito. Ci si immerge in un mondo e dopo sessantatre minuti si esce affascinati e storditi da tanta strana eleganza.

A soli 23 anni d’età, l’inglese Laura Marling si sta muovendo con l’autorevolezza della folksinger navigata. È emersa nel 2008 con un esordio intitolato Alas I Cannot Swim. «Ecco quel che accade quando papà sostituisce i tuoi dischi di Pete Doherty coi suoi di Joni Mitchell», si scrisse all’epoca. Poteva finire lì. E invece, circondata da attenzione e affetto crescenti, ha poi pubblicato I Speak Because I Can (2010) e A Creature I Don’t Know (2011) segnalandosi per la costante crescita artistica. Ha suonato con membri di Mumford & Sons e Noah And The Whale. Ha stretto una fruttuosa collaborazione col produttore Ethan Johns. Ha musicato Come vi piace di Shakespeare, per la regia di Maria Aberg. È diventata un punto di riferimento del nuovo folk britannico, il cosiddetto indie folk che guarda oltreoceano in cerca d’ispirazione e modelli. E ora, con Once I Was An Eagle, dimostra d’essere capace di cose persino migliori, facendo un deciso, portentoso passo in avanti rispetto all’album del 2011 di cui il nuovo cd riflette i temi cupi, ma che supera di slancio per progettualità artistica, intensità, profondità.

Registrato in dieci giorni con i soli Ethan Johns e la violoncellista Ruth de Turberville, con un titolo ispirato a Sometimes I Wish We Were An Eagle di Bill Callahan e l’idea di fondo di perseguire un ideale di semplicità, Once I Was An Eagle arriva alla fine di un periodo tormentato per la cantautrice. Caduta in depressione dopo la fine di una relazione importante, irritata dalle sovrastrutture del music business, annoiata dalla vita on the road, ha pensato di lasciare la musica. Fortunatamente non l’ha fatto. Si è trasferita a Los Angeles e ha scritto per lo più su una Gibson 335 quindici nuove canzoni sostanzialmente nell’ordine in cui le ascoltiamo oggi. Le prime quattro scorrono senza soluzione di continuità e costituiscono una piccola opera folk unita da temi musicali e poetici (sono state diffuse in un video intitolato When Brave Bird Saved). Ma anche altrove questi stessi temi musicali tornano, fino a informare il finale di Saved These Words.

È musica che non t’aspetti e spazza in pochi minuti quel che la folksinger ha fatto negli ultimi cinque anni: il recitar cantando rimanda alla coolness newyorchese di Suzanne Vega e Lou Reed; alcune brevi frasi musicali hanno un sapore “mistico”, via India; gli aromi musicali richiamano il folk revival britannico; i testi sono semplici ma poetici; i saliscendi melodici e le accordature aperte (ne usa tre differenti) sono probabilmente un lascito dell’amata Joni Mitchell, influenza determinante sull’album (niente confronti, però: la «signora del canyon» aveva un’altra statura musicale). Marling si è messa a girare per negozi di dischi in cerca di ellepi pubblicati nel 1969 e afferma di avere guardato soprattutto alla stagione di fine anni ’60, «quando i Beatles usavano strumenti orientali e scale atonali: sono influenze che hanno liberato il mio modo di suonare, ecco perché le melodie sono libere e difficili a un primo ascolto».

L’effetto è spiazzante e contemporaneamente seducente. Una volta registrate le tracce di voce e chitarra, Johns ha arricchito il sound con varie sovraincisioni, de Turberville ha aggiunto abbellimenti e accompagnamenti inusuali, per un suono etno-folk essenziale e avvolgente, con molta “aria” attorno, marcato dai suoni secchi delle percussioni, da quelli corposi dei bassi, da quelli cristallini delle chitarre. È un ambiente sonoro confidenziale e al tempo stesso inquietante, ora delicato e ora imperioso. Marling usa la voce con fantasia, buttandosi in saliscendi melodici, azzardando fioriture inaspettate, piegando la dizione al sentimento. Il folk pallido di certe vecchie composizioni trascolora in tinte scure, mentre i testi scavano nel mondo interiore, in un percorso in cui la protagonista dell’album affronta i suoi conflitti relazionali ed esistenziali passando dalla rabbia all’accettazione a una sorta di rinascita.

È bellezza aliena, in parti uguali austera e ammaliante. La musica è cangiante, liquida, spesso costruita attorno alla linea vocale o allo strumming della chitarra: per essere (apparentemente) informe suona (incredibilmente) giusta. Non ci sono melodie facilmente memorizzabili o momenti scontati. Bilanciando seduzione e stranezza, Once I Was An Eagle cattura e domanda sempre nuovi ascolti per penetrarne la bellezza sfuggente. Dischi così non se ne trovano più, in giro.

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