27/03/2013

Phosphorescent

Il lato oscuro dell’amore. Matthew Houck l’ha visto da vicino, ed è rimasto sfigurato. Ce lo racconta in uno dei suoi migliori album

Un tour lungo e faticoso, una fase di totale disamoramento per la musica in ogni sua forma. La vita privata sconvolta da un rapporto conclusosi in maniera burrascosa. Ritrovarsi di punto in bianco a cercare una nuova sistemazione nell’affollata New York; un posto in cui leccarsi le ferite e ricomporre il proprio home studio come un cuore infranto, cercando di sostituire le parti fuori uso e riparare quelle che ancora danno segni di vita. Più facile a dirsi che a farsi, quando lo spettro dell’esaurimento nervoso incombe su di te come un cielo gravido di pioggia. In quei momenti vorresti mollare tutto e scappare in Messico, sprofondare in uno stato di oblio, osservare la tua vita da un’altra prospettiva e lasciar scorrere liberamente i pensieri, quelli buoni e quelli cattivi. Allora la musica torna a fluire e senti il bisogno di darle forma, ma non nel solito modo. Ci vuole qualcosa di diverso. Lo spettro sonoro va dilatato, proprio come la tua coscienza, come i suoni che senti rimbombare nel cervello. Non basta più una chitarra, nemmeno la tua band al completo può riprodurli. Sono vasti come la vita e inafferrabili come l’amore, caldi e salati come le tue lacrime, ma al tempo stesso algidi ed eterei come una notte trascorsa a inviare messaggi nello spazio con un vecchio sintetizzatore.

Questa non è la trama di un allucinato road movie, ma la vita di Matthew Houck, in arte Phosphorescent, o almeno l’ultima parte, quella che ha portato alla creazione di Muchacho. Un album potente, evocativo, che passa al setaccio l’intero spettro sonico-emozionale alla disperata ricerca di qualunque sfumatura utile a descrivere gli incubi di un cuore infranto. Una storia incorniciata da due corali, psichedeliche allucinazioni solari: Sun, Arise! (An Invocation, An Introduction) e Sun’s Arising (A Koan, An Exit). Una storia che riscrive l’identità stessa dell’amore: «Qualcuno dice che l’amore brucia / Come un anello di fuoco», canta Houck citando i versi della celebre Ring Of Fire interpretata da Johnny Cash. «Ma quello che conosco io è un amore che svanisce / Volubile come una piuma che galleggia in un fiume / Dolcezza, ho visto l’amore / È venuto da me / Mi ha mostrato il suo viso in modo che potessi vederlo / E poi mi ha sfigurato / Trasformandomi in qualcosa che stento a riconoscere». La sua voce, dilatata dall’eco, quasi impalpabile, si aggrappa al battito artificiale di una drum machine mentre gli archi, in lontananza, disegnano immagini degne dell’aurora boreale.

L’amore che ha conosciuto Matthew è «un killer spuntato da un terribile incubo», una forza che imprigiona: «Voi che state lì a guardarmi dietro quel vetro» fate attenzione, «il mio cuore è selvaggio» e «se fossi libero potrei uccidervi a mani nude». L’amore è complicato, intricato, proprio come gli acidi intrecci della chitarra elettrica che fa il controcanto alla voce in Ride On/Right On, dove il pattern ritmico somiglia alla marcia di un prigioniero in catene che cerca disperatamente una via di fuga dal dolore. Mentre tutte le certezze si infrangono veniamo cullati dal suono del pianoforte di Terror In The Canyons (The Wounded Master), che avanza maestoso su un ritmo country scortato da un’impetuosa slide guitar, poche percussioni e una malinconica sezione fiati. Fiati mariachi, che ritroviamo sparsi un po’ in tutto l’album: una presenza preziosa, mai ingombrante, carica di tensione emotiva. In Muchacho’s Tune camminano in bilico su una delicata, vibrante ragnatela di chitarre twangy e pedal steel guitar; in A Charm/A Blade capeggiano la carica sonora di un esercito formato da chitarre, pianoforte, archi e voci.

Il songwriting di Matthew Houck è caratterizzato da una profonda, malinconica venatura country che i sintetizzatori, sapientemente dosati, non soffocano: al contrario, ne amplificano alla perfezione il visionario fascino agrodolce. Ascoltate Down To Go, potrebbe benissimo essere stata scritta dal suo grande idolo Willie Nelson. New Anhedonia, invece, è il grido di disperazione di un uomo che brancola nel buio, perché si è accorto di non trarre più piacere da ciò che ama, la musica. Un pianoforte avanza nell’oscurità su un tappeto di fiati, col passo lento e pesante di una marcia funebre accompagnata in punta di piedi da chitarra acustica, violino e pedal steel guitar. La voce di Houck dapprima riecheggia nel silenzio e poi si fa strada in un labirinto di cori fantasma che mettono i brividi: «Tutta la musica è noiosa», canta con un misto di dolore e disperazione. L’unico antidoto alla follia è affrontare le proprie paure, quegli orrendi mostri che ogni santo giorno cercano di divorarci l’anima e il cuore. Gridare la propria verità impugnando un giro di chitarra elettrica testardo e affilato come la lama di un pugnale (The Quotidian Beasts); galvanizzare ogni singolo strumento, spingerlo a danzare una specie di folle taranta rock sull’orlo dell’oblio per poi cadere a terra stremati, ansimanti, finalmente liberi.

Intervista sul numero di aprile di JAM

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