15/07/2013

These New Puritans

Dall’Inghilterra, rock che oscilla fra musica classica e arte sonora concettuale: da ascoltare

Prendi il pop e sbuccialo come un’arancia. Separa gli spicchi, osserva le venature, ammira quante geografie di colore ci puoi trovare dentro. Apri un brano e decoralo, unisci i puntini al di fuori di uno schema. Rovescialo, riscrivine la sintassi. Con calma. Non so cosa sia passato nella mente di Jack Barnett, ma questo album gli stacca di sicuro il biglietto per entrare nell’olimpo dei grandi eclettici della musica di Albione, assieme a Mark Hollis, Jarvis Cocker, Damon Albarn, Robert Wyatt, parlando di contemporanei. Solo Scott Walker è ormai parte di un mondo superiore.

L’universo concettuale che separa il nuovo disco dei These New Puritans da Hidden (2010) è un solco profondissimo, colmato dal desiderio e dalla volontà di concepire qualcosa di utopistico, unico, immortale. Un nuovo tassello nell’abbattimento delle barriere, in cui il concetto stesso di musica popolare funge da baricentro impercettibile fra la musica classica e l’arte sonora concettuale. Avete presente la Björk che si mette a fare Vespertine? I Talk Talk di Spirit Of Eden? Scott Walker che torna con Tilt? O, per rimanere fra i nomi citati, Damon Albarn che si diverte a spiazzare con un disco di suoni antichi dedicato al Dottor Dee? (E qui il cerchio si chiude, perché il gruppo di Southend ha esordito nel 2008 con un lavoro, Beat Pyramid, dedicato proprio all’alchimista di Elisabetta I.)

Cosa contiene questo involucro di meraviglie? Intanto la costruzione maniacale di dettagli melodici non convenzionali, affidati alla cura di un altro genio, Graham Sutton, la cui creatura, Bark Psychosis, era già stata definita artefice di qualcosa di epocale. Sinfonie, litanie, larghi. Saliscendi melodici crepuscolari e sognanti. Paesaggi mutevoli, baciati da straordinarie intuizioni corali, sonore e vocali (Spiral) o segnati da vere e proprie follie (l’idea di registrare il battito d’ali di un falco nell’attimo di spiccare il volo, con tutte le difficoltà che la cosa ha comportato, giusto per sentirne la poesia sfuggente nella drammatica Field Of Reeds).

L’ascolto è un viaggio dei sensi, in cui ci si imbatte in frammenti di partiture che si danno il cambio, senza aspettarsi di essere metabolizzate. Per quello c’è tempo. A un certo punto di Nothing Else ti ritrovi a pensare alla prima facciata di Atom Heart Mother, ma subito dopo qualcosa ti porta a Gustav Mahler, così come, poco prima, ti sentivi parte di una colonna sonora.

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