15/05/2007

PJ Harvey

Nel disperato regno dell’amore

Polly Jean Harvey è tornata. Tornata a casa, tornata a scrivere canzoni umorali, istintive, viscerali. Tornata dalla caotica New York. Tornata a dare voce ad impulsi primordiali. Ma chi è PJ Harvey oggi? Una donna che ha oltrepassato i 30 anni, con maggiore esperienza alle spalle di quando cantava “You leave me dry” (tu mi lasci asciutta) mortificando il proprio partner. Non è più nemmeno la cinica dark lady di Is This Desire?, ma una donna sufficientemente matura da raccontare storie di amore universale, ma anche malato e insensibile. Il suo nuovo album Uh Huh Her è musicalmente grezzo, ruvido. È un ritorno al linguaggio viscerale degli esordi, un viaggio nel “disperato regno dell’amore”. Sì, proprio l’amore, l’unica fonte di salvezza di questi strani giorni.

Mi attende nella camera del suo albergo. Da brava inglese, sorseggia una tazza di tè. Se ne sta seduta sul divano con una gamba infilata sotto l’altra, senza il benché minimo atteggiamento da pop star. Un po’ segaligna, ma dall’indiscutibile fascino emanato da due grandi occhi verdi, e di una semplicità disarmante, si dimostra molto più disponibile di quanto mi sarei aspettato. Indossa pantaloni scuri e una maglietta stretch a righe rosse e nere orizzontali, con sopra un giubbetto nero in pelle. I capelli mossi con la frangetta tagliata le lasciano il viso scoperto. Parla in modo pacato e quasi si schermisce, nonostante un grande sorriso, quando le dichiaro di essere un suo grande fan.

Nonostante PJ Harvey sia una delle icone del rock alternativo al femminile, è dotata di semplicità ed eleganza espressiva. L’album del 2000 Stories From The City, Stories From The Sea era stato scritto in parte a New York. Altri suoi lavori erano invece nati nella quiete domestica della campagna del Dorset, la sua terra. Il nuovo Uh Huh Her, in uscita a giugno, sembra essere figlio del suo girovagare per il mondo. “L’idea di questo album è nata mentre ero in tour per promuovere Stories From The City, Stories From The Sea”, racconta la Harvey. “Alcune canzoni possono aver avuto origine quando ero in Australia, in America o in Europa. Tuttavia, devo dirti che non ho composto i brani, come facevo agli esordi, totalmente immersa nella tranquillità della mia casa nel Dorset. Non è quindi un album nato prettamente in Inghilterra, bensì un po’ in tutte le parti del mondo.”

Per il nuovo lavoro Polly Jean ha deciso di fare tutto da sola, occupandosi della produzione, del missaggio (con un contributo di Head), oltre che della scrittura e registrazione dei pezzi. Tranne il contributo di Rob Ellis per le esecuzioni delle parti di batteria e percussioni, PJ ha suonato tutti gli strumenti, una sfida alla sua maturità artistica e alla sua dimensione di musicista. “Una volta scritti tutti i pezzi, mi sono rinchiusa a casa mia nel Dorset e ho riascoltato tutto il materiale su un registratore a 4 piste per sentire che effetto aveva, visto che avevo suonato io quasi tutti gli strumenti. Ho deciso che mi interessava mantenerne l’effetto originale. Quando compongo una canzone, mi piace immaginare come risulterebbe se la realizzassi tutta da sola, come suonerebbe prima di entrare in studio di registrazione. Questa volta ero soddisfatta nel constatare che queste canzoni – pur registrate allo stato grezzo – già potevano funzionare, andavano bene così com’erano. E ho quindi deciso che non avrei affrontato una produzione ad alto livello.”

Rispetto a To Bring You My Love e a Is This Desire? – dove era evidente una certa ricerca del suono – Uh Huh Her suona infatti più essenziale, grezzo, con una maggiore attenzione al songwriting. Polly Jean ha forse cambiato l’approccio al suo modo di comporre? “Nei miei dischi cerco sempre di migliorare come autrice. Il mio ideale è diventare una songwriter sempre più brava. Come nei miei ultimi album, anche qui ho cercato di esprimere al meglio le mie emozioni e la mia interiorità. Possono essere piccole storie, piccoli colloqui interiori, viaggi dentro me stessa. Il songwriting per me è molto importante e lo è stato in particolar modo in quest’ultimo album.”

Inevitabile interrogarsi su un titolo così inusuale, strambo. “In realtà è il titolo di una specifica canzone che a me piaceva molto, ma che non ho potuto inserire nell’album perché troppo forte rispetto alle altre, rispetto al clima del disco. Non credo nemmeno che la inserirò come b-side nei prossimi singoli, preferirei piuttosto eseguirla dal vivo. Mi piaceva il suono stringato di queste parole, ma purtroppo la canzone non si sposava bene con le altre. Il significato dovrebbe essere una cosa tipo: ah, quella là.”

Le faccio osservare che nella maggior parte dei testi del nuovo album si avverte un disperato bisogno d’amore, una continua – direi quotidiana – ricerca dell’amore. Ma si sta proprio così male con se stessi? “Forse si sta meglio da soli, anche se può essere devastante, se non trovi la persona giusta con cui vivere”, risponde.

In Is This Desire?, Polly Jean aveva fatto ampio ricorso a personaggi che svolgevano il ruolo di protagonisti delle canzoni, parlando di loro in terza persona, mentre in Uh Huh Her viene usata soprattutto la prima persona. Non si tratta però di canzoni autobiografiche. “Penso che come songwriter si possa parlare in prima persona, ma ciò non vuol dire che quello che stai scrivendo sia autobiografico. Un autore di romanzi non è detto che parli della sua vita personale. Mi piacerebbe piuttosto essere considerarata come un’autrice di fiction, di fantasia, che tuttavia ripropone situazioni e sentimenti che può aver vissuto in prima persona.”

È risaputo che Polly Jean non ama parlare dei testi delle proprie canzoni. Mantiene, anzi, un riserbo quasi maniacale, un rispetto verso la parola scritta che solo l’ascoltatore ha la facoltà di interpretare in base alla propria sensibilità. In virtù di questo rifiuto, ma anche ingolosito dalla possibilità di parlarci di persona, provo ad affrontare l’argomento. “Te la senti di rispondere a qualche domanda sui singoli testi?”, le chiedo. “Probabilmente no. Se vuoi puoi tentarci, ma non assicuro di risponderti.”

Da questo iniziale “no comment, please”, in pratica una chiusura verso qualsiasi tipo di spiegazione o commento, pian piano Polly Jean si dimostra disponibile a chiarire qualche coordinata e a fornire furtive considerazioni. “Una volta che ho scritto un testo”, spiega, “penso sia l’ascoltatore a doverlo giudicare ed eventualmente apprezzare. Una volta che l’ho scritto, ritengo che il mio lavoro sia finito, non devo fornire altre spiegazioni. Se volessi spiegare a tutti i costi il significato dei miei testi, penso che potrei fuorviare l’ascoltatore.”

Ad aprire l’album è The Life And Death Of Mr. Badmouth (Vita e morte del Signor Linguaccia), un blues abbastanza tirato. È la storia di un tradimento sentimentale? “Forse sì, forse no. Te lo ripeto, insisto a dire che le interpretazioni debbano essere lasciate all’ascoltatore senza anticipare spiegazioni. Posso dirti una cosa? In questa canzone ho espresso tutto quello che dovevo dire.” Il testo rimanda al linguaggio avvelenato e pieno di risentimento di Rid Of Me, dove c’è una parte lesa che sfoga le proprie frustrazioni amorose: “Tesoro, sei diventato proprio una linguaccia / Ogni parola che dici è veleno / Mi fai le corna e menti da quando sei nato / Qualcuno dovrebbe lavartela per bene col sapone / Lavala bene, lavala bene, lavala bene”.

Il desiderio di pulizia purificatrice PJ l’aveva già espressa in canzoni come Sheela-Na-Gig (“Devo lavare via quell’uomo dalla mia testa. Lui ha detto: ‘Lavati le tette, non voglio sporcarmi'”), Fountain (“Ferma sotto la fontana / Pelle fredda, ben pulita / Per lavarlo via da me”), Water (“Lavo via tutto dalla mia testa / Maria, Maria tieni duro / Sopra l’acqua / Sotto il mare”), ma soprattutto nella drammatica storia di infanticidio di Down By The Water. Questa volta, oltre alla presenza dell’acqua come elemento purificatore, si cerca di capire le motivazioni che stanno dietro alla menzogna (“Dalla tua bocca non esce la minima parola carina / Ne entrano un sacco ma non ne esce nessuna / Linguaccia, bocca triste, sei stato un bambino infelice / Ma questo non giustifica la tua bocca menzognera / Lavala bene, lavala bene, lavala bene”), senza però lasciare spazio ad alcuna comprensione (“Perché ogni cosa è veleno / Tu sarai infelice / Le tue labbra sanno di veleno / Stai per essere lasciato. Te ne starai a piangere in un angolo”). L’inganno, la falsità e forse l’adulterio portano al fallimento della coppia: “Ogni volta che mi dicevi tutte quelle parole / Queste provenivano da voci che sentivi parlare nella tua testa / Tesoro, sono proprio sicura che non sei all’altezza / La tua linguaccia ha ucciso tutto quello che c’era stato tra di noi / Lavala bene, lavala bene, lavala bene”.

Musicalmente Uh Huh Her possiede due anime: quella viscerale e rabbiosa della PJ Harvey cult degli esordi, e quella più attenta ad un songwriting tradizionale, con ballate melodiche che si pongono come degno seguito di Stories From The City, Stories From The Sea. In questo senso Who The Fuck? appartiene sicuramente alla prima categoria, e non solo per il titolo. “Chi cazzo credi di essere?”, recita il testo. “Togliti di torno / Chi cazzo credi di essere? / Mentre mi giri attorno / Chi cazzo. / Vattene con il tuo pettine dai miei capelli / Non sono come le altre ragazze / Non puoi raddrizzare i miei riccioli”. E più avanti: “Chi cazzo vuoi dimostrare di essere? / Togliti di torno / Tieni lontane le tue dita sporche dai miei capelli / Chi? Chi? / Vaffanculo! Io sono libera / Lo vedrai, io sono me stessa”. L’inserimento di claphands e l’andamento del brano ricordano molto da vicino M-Bike. Ecco come Polly Jean ha commentato la canzone: “Ammetto che ha un testo molto diretto, realistico e duro. Ma non è una canzone solo di rabbia e di incazzatura. L’ho sempre considerato un brano che trasmette piuttosto molta energia”.

Anche il singolo scelto per il lancio dell’album, The Letter, è un brano dal ritmo serrato. “L’ho scelto assieme alla mia casa discografica, perché loro volevano una canzone che potesse essere lavorata bene con radio e tv. È un brano di impatto, ma anche ballabile, pieno di energia, che ho cercato di enfatizzare grazie all’impasto tra il riff della chitarra e la voce.” Il testo sembra riferirsi a un rapporto d’amore a distanza, in cui il sentimento viene sublimato da metafore che nascondono erotismo, desiderio e passione sessuale (come quando allude alla lettera “G” della sua calligrafia, sottintendendo verosimilmente il “punto G”). “Fai scorrere la penna sulla carta / Sigilla la lettera col mio profumo / Non riesci a vedere dalla mia calligrafia / La curva della mia vogliosa. ‘G’ / Oh. / A chi tocca scrivere in questi giorni? / Tu ed io saremo diversi / Togli il cappuccio della tua penna / Inumidisci la lettera / Leccala e leccala / Oh.”. E più avanti: “Ho bisogno di te / Il tempo scorre / Oh tesoro, non hai voglia di sentirmi al telefono? / Mi fa impazzire / Pensare ai tuoi occhi azzurri / Mentre ti sto parlando / Pensare alla tua penna stupenda / Togli il cappuccio / Dammi un segnale e verrò di corsa / Oh, sei tu / Ti voglio”.

PJ Harvey ha inoltre disseminato nel disco alcune canzoni-frammento come l’acustica No Child Of Mine (“Non ho tempo per odiare o amare / Ehi bimbo, sei così travolto dal dolore / Non ho tempo per odiare o mentire / Ehi bimbo, non sei il mio bambino”), un intermezzo di suoni della natura che precede The Darker Days Of Me And Him e The End, quest’ultima una delicata, breve ma intensa parentesi strumentale. Come mai? “Penso che in qualche modo avesse un senso: vedi, ritengo che la seconda parte dell’album sia molto d’atmosfera e questi piccoli frammenti contribuiscono molto a rendere l’idea che mi ero fatta per questo disco. Ad esempio, il brano musicale che precede The Desperate Kingdom Of Love ho pensato fosse essenziale, come una breve introduzione che prepara all’ascolto della canzone che segue.”

Un’altra canzone di enorme fascino è Cat On The Wall. Qui PJ parla di canzoni trasmesse alla radio (“Ho sentito la nostra canzone alla radio / Recentemente ti ho pensato / Non riesco a togliermela dalla testa / Non preoccuparti adesso / La ritrasmetteranno”) e di una relazione fra due amanti (“Ho conservato la tua voce al telefono / La riascolto nella segreteria telefonica / Sembra proprio che ti stia divertendo / Io esco a prendere il sole di mezzogiorno”). Polly Jean si conferma ottima narratrice, in grado di descrivere sentimenti ed emozioni con leggere ma efficaci pennellate: “Vieni, notte, io sto per uscire a fare una passeggiata, rinfrescherò la mia mente / La radio continua a trasmettere la nostra canzone / Sei riuscito a farmi arrampicare come un gatto sul muro. / Riaccendi la radio / La radio suona / E i miei sogni mi fanno tornare a quando avevo 17 anni / Quando ballavo in circolo in cucina / Continuerò a cantare questa canzone fino allo sfinimento”.

Ma due persone possono ancora innamorarsi ascoltando una canzone alla radio? “Sai che non mi sono mai posta questa domanda? Questa canzone mi sembrava semplicemente una celebrazione della musica. È una sensazione che non ho mai provato prima nella mia vita. Trovo che sia una canzone veramente commovente.”

The Darker Days Of Me And Him (I giorni più bui di me e lui), ultimo brano del disco, è una canzone d’amore dal testo agrodolce (“Promesse, promesse / Mi sento consumata dal fuoco / Mi hai insegnato una lezione / Che io non ho voluto imparare / Perché sono venuta qui? / Per favore dimmi di nuovo / Perché me l’hai chiesto? / Non dirmi che te lo sei scordato”). PJ esprime il desiderio di una civiltà senza nevrosi e psicanalisi. Il mondo in cui viviamo è davvero così malato? “Bravo, in questo senso siamo completamento d’accordo”. Insopportabile? “No, non direi insopportabile, direi piuttosto che è una sfida continua, ogni giorno rappresenta un duello con il giorno successivo.” Prosegue infatti il testo: “Desidero ardentemente casa mia / Una terra dove ognuno sia uno sconosciuto / Senza nevrosi / Senza psicosi / Senza psicanalisi / E senza tristezza. / Raccoglierò i pezzi / Tirerò avanti in qualche modo / Incollerò le parti rotte con lo scotch / E zoppicherò in giro con questo amore”.

C’è un brano di Uh Huh Her che colpisce per la semplicità. È Shame, già presentato da PJ Harvey nell’estate 2003 al Big Day Out Festival in Australia. Il testo esprime ancora una volta un desiderio combattuto tra cuore e ragione, passione e razionalità: “Non ho bisogno della luna crescente / Non ho bisogno di una catena al piede / Ho solo bisogno di te / Che vergogna, che vergogna, che vergogna / La vergogna è l’ombra dell’amore”. L’amore è sufficiente a garantire un’esistenza serena, non serve nient’altro. “Hai cambiato la mia vita / Eravamo freschi come l’erba / Ed io ero ipnotizzata / Dal primo all’ultimo bacio di vergogna. / Per te salterei nel fuoco / Per te affronterei qualsiasi fiamma / Cerco di andare avanti nella mia vita / Ma mi vergogno, mi vergogno, mi vergogno. / E se tu dici una bugia / Mi prenderei ancora la colpa / E se mi passi vicino / È una tale vergogna”.

In The Pocket Knife (Il coltello a serramanico), canzone in cui la Harvey ricorda molto da vicino, per timbrica e intenzione vocale, la sacerdotessa del rock Patti Smith, si parla di un vestito da sposa, anche se i fiori d’arancio vengono respinti con veemenza e con un secco rifiuto (“Per favore non preparate il mio vestito da sposa / Sono ancora troppo giovane per sposarmi / Non vedete il mio coltello in tasca? / Non potete costringermi ad essere una moglie / Ma come si evolve il mondo? / Come possono capirlo tutti?”), ma anche del rapporto fra una madre che prepara l’abito da sposa alla propria figlia (“Mamma, smetti di cucire con l’ago / Come ti sentivi quando eri giovane? / Perché mi sento come se fossi appena nata / Anche se vado avanti / Come mai il mondo precipita così velocemente?”). Alla fine, in un mondo che corre troppo in fretta, l’importante è non sentirsi messi da parte, non cedere alle tentazioni della trascuratezza interiore (“Il mondo continua ad evolversi / E le api continuano a ronzare / E io continuo a correre. / Io posso fare a meno dei fiori / Io non posso essere costretta / La sostanza bianca lascerà una macchia / Il mio coltello da tasca sta per luccicare / Non cerco di fare casino / Voglio solo farmi i cazzi miei / Non cerco di spezzarti il cuore / Cerco solo di non finire trascurata”).

Senza dubbio intrigante dal punto di vista del testo è The Slow Drug: “Il colore ora è blu / Amo la droga di cui ho bisogno / Devo mantenere questa sensazione / Con i fari che illuminano / Noi aneliamo a qualcosa / Risposte sul soffitto”. Versi criptici, dalle molteplici interpretazioni, conturbanti: “Mentre me ne sto alla finestra / Osservo in quale direzione soffia il vento / Presto sarà mattino / La domanda rimane in sospeso / L’attorciglio tra le mie dita / Potresti essere la mia invocazione?”. Ma le droghe di cui parla Polly Jean non sono quelle comunemente intese: “Guarda questi ragazzi con le ali che cadono / Fuori da qualcosa / Che mi fa venir voglia delle mie droghe / Le frecce che lui sta lanciando / Devono mantenere questa sensazione / Droghe leggere del mattino”.

The Slow Drug è musicalmente un brano a spirale, con una melodia che assuefa, ipnotizza, con un cupo tappeto ritmico in sottofondo che ricorda The Wind. Di tutt’altra atmosfera è You Come Through, in cui Polly Jean si cimenta anche allo xilofono. “Stiamo aspettando l’estate”, recita il testo. “Il sole ci restituirà dei tesori, tesori per noi / Dai, amico mio / Brindiamo ai tempi passati / Ai magnifici desideri / Per la tua e la mia salute / Questa vacanza mi risolleverà / Ti porterò, ti porterò con me. / Ce l’hai fatta.”

Ma fra le nuove canzoni, PJ dichiara di essere molto affezionata a It’s You: “È una canzone in cui a un certo punto senti il cuore aprirsi. Quando la strofa cambia improvvisamente a metà della canzone, e quando si sente il commento del pianoforte, è come se il mio cuore si fondesse col suo suono. È una sensazione molto rara, strana, che provo ogni volta che la riascolto”. È una storia d’amore eterna, una storia che si ripete a ogni infatuazione, che inizia dall’esigenza di uscire di casa in cerca di affetti: “Oh, cara dolce mamma / Non mi sento bene / Posso uscire per un po’? / Ma sbaglierò / Me ne vado di nascosto / E vado a baciare nei vicoli / Tutto ciò che voglio fare / E tutto ciò che voglio per crescere ed esistere / È tutto raggiunto con te / Guarda cosa mi stai facendo”. E più avanti: “Oh, adorato giovanotto / Insegnami, tesoro / Come amarti / Sono una ragazza in gamba / Mi hai fatto dire bugie / Mi hai fatto abbandonare casa / Mi hai fatto piangere / Quando sono sola / Quando non sto con te i miei sogni sono così bui / In sogno perdo i capelli / Percorro i meandri bui del mio cuore / Ogni cosa diventa secondaria”. La constatazione finale rimane una delle pagine più belle e delicate della letteratura della Harvey: “Quando ero più giovane / Passavo i giorni / Chiedendomi con stupore / A chi avrei rivolto la mia preghiera / Sei tu”.

Ma in questo “disperato regno dell’amore”, il girovagare di un’anima in pena non serve a migliorare la situazione, come si legge proprio in The Desperate Kingdom Of Love (un titolo che già da solo vale l’acquisto dell’album). “Oh amore, eri un bambino malaticcio / E come il vento ti buttava a terra / Ti mettevi i tuoi speroni, andando in giro pavoneggiandoti / Per il disperato regno dell’amore / Ora l’acqua benedetta non ti può aiutare / I tuoi occhi misteriosi non possono aiutarti / Vendere le tue ragioni non riuscirà a farti passare / Attraverso il disperato regno dell’amore.” E più avanti: “C’è un altro che guarda da dietro ai tuoi occhi / Io imparo da te a nascondermi / Dal disperato regno dell’amore / Alla fine di questo mondo che brucia / Te ne starai in piedi orgoglioso, a testa alta / E io ti seguirò, sia all’inferno che in paradiso / E io mi realizzerò, come ragazza / Nel disperato regno dell’amore”.

Se ad ogni nuovo album PJ Harvey si rinnova, viene da chiedersi come si rapporti ai brani del passato. “Ne sono soddisfatta”, risponde. “Considero che ogni artista debba imparare qualcosa da un album all’altro, come se seguisse una curva di apprendimento. Ogni mio disco mi ha insegnato a crescere come compositrice. Sono ancora soddisfatta dei miei primi album e li considero come un punto fermo nella mia carriera.”

Riguardo alla musica di oggi, PJ Harvey è abbastanza scettica (“Va per la maggiore un certo tipo di musica, che a me non piace. Ma ne prendo atto e vado avanti per la mia strada”), e ascolta più che altro grandi artisti del passato. “Continuo ad ascoltare i classici del blues e del rock, da Howlin’ Wolf a Jimi Hendrix e Rolling Stones, oltre a molta musica degli anni 60, come gli Animals. Ascolto molto i Fall, una band di Manchester: mi piacciono tutti i loro dischi e seguo ogni loro uscita.” Conosce artisti italiani? “No, mi dispiace ma non ne conosco nessuno, perché praticamente né in Inghilterra, né negli Stati Uniti arrivano regolarmente. Mi spiace perché mi piacerebbe ascoltarne alcuni, ma praticamente all’estero non vengono trasmessi. Riesco solo ad ascoltarli quando sono in Italia e mi sintonizzo su Mtv. Il problema è la vostra lingua.”

Prima di terminare la realizzazione di Uh Huh Her, PJ Harvey si è prodigata in diverse collaborazioni, tra le quali quella con Josh Homme per le Desert Sessions. “Ho imparato tante di quelle cose da questa esperienza… Ad esempio, mi è parso bellissimo creare musica dal nulla, cioè con gente che non ho mai incontrato o conosciuto prima. È stata un’esperienza che mi ha dato molta ispirazione, perché sai, io non sono abituata a comporre con altre persone, specialmente se non le conosco. È stato abbastanza preoccupante entrare in uno studio e realizzare un album in dieci giorni, ma è una sensazione veramente liberatoria quando riesci a farlo. Penso che alcune canzoni siano nate molto spontaneamente grazie ad una situazione di questo tipo. Una delle mie preferite di questo progetto è Powered Wig Machine.”

Entro la fine dell’anno dovrebbero inoltre vedere la luce le sue collaborazioni con Marianne Faithfull e Mark Lanegan. “Con Marianne ci siamo sentite per collaborare ad alcune canzoni del suo nuovo album, cosa di cui mi sono sentita molto onorata. Ho scritto e prodotto cinque canzoni per lei. Per quanto riguarda Mark Lanegan è un mio amico, l’ho conosciuto suonando con i Queens Of The Stone Age. Ho sempre apprezzato i suoi interventi da solista perché penso sia un grande cantante. Per cui ho accettato volentieri di fare da corista in due sue canzoni: un duetto molto sfrontato nella ballata Come To Me e un pezzo molto tirato intitolato Hit The City.” E con gli Sparklehorse? “Mi piace lavorare con artisti dal grande background musicale e penso che Mark Linkous sia un genio come compositore, con una grande tendenza alla sperimentazione, cosa che io apprezzo moltissimo.”

Molti fan si chiedono invece se e quando Polly Jean tornerà a collaborare con John Parish, coinvolto in un disco fondamentale come To Bring You My Love. “Penso assolutamente di sì, anche perché John è uno dei miei migliori amici. Ci siamo sentiti spesso per commentare l’uno il lavoro dell’altro. E sono sicura che prima o poi faremo ancora qualcosa assieme. È un grande compositore. Ho inserito spesso, nelle mie ultime scalette dal vivo, due canzoni dall’album che abbiamo realizzato assieme, Dance Hall At Louse Point. Esattamente City Of No Sun e Taut.”

Oltre ad attività extra musicali (pittura, scultura, cinema e poesia, vedi il box a pagina 39), molti non sanno che PJ Harvey si è cimentata anche nel ruolo di produttrice. Ha infatti reso possibile la pubblicazione di Funny Cry Happy Gift di Tiffany Anders, da lei conosciuta in maniera occasionale: “Ad essere sincera mi diede un suo demo incontrandomi in una strada di New York. Quando l’ho ascoltato ho pensato che contenesse delle canzoni inusuali, originali, con una struttura strana, e che avesse un modo molto particolare di cantare. Questo mi è piaciuto, proprio perché era molto al di fuori della norma”. Non è escluso che Polly Jean si dedichi in futuro alla produzione di altri artisti: “Mi è molto piaciuto fare da produttrice. È un ruolo molto gravoso e non lo accetterei se non fossi completamente convinta del valore delle canzoni o di un artista. Mi piacciono molto le voci interessanti e particolari. Ad esempio, se quella di Marianne Faithfull non lo fosse stata, non mi sarei imbarcata in alcuna produzione”.

PJ Harvey porterà in giro le nuove canzoni durante la prossima estate, in diversi festival europei: Glastonbury in Inghilterra, T In The Park in Scozia, Oxygen Festival in Irlanda, Fourvières Festival in Francia, Hurricane & Southside Festivals in Germania, Primavera Festival in Spagna e Amsterdam’s Heineken Music Hall in Olanda. Sarà in Italia il 19 giugno all’Heineken Jammin’ Festival e, forse, l’8 luglio ad Arezzo Wave (quest’ultima data non è ancora confermata). Ecco come presenta il suo show: “Dovrò cercare di assemblare il tutto perché sarò da sola con tre strumentisti, con i quali comincerò a provare fra un paio di settimane. Ho voglia di sperimentare nuove versioni strumentali, invece del solito accompagnamento di chitarra e ritmica. Ho deciso di presentare dal vivo le canzoni più veloci. Sto pensando alla scaletta: vorrei presentare canzoni da tutti i miei album”.

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