11/05/2007

Santana

40 anni di rock sciamanico

Maui, Hawaii, agosto 2001.

The Shops At Wailea, nell’elegantissima parte meridionale dell’isola, è un esclusivo centro commerciale open air che ospita le migliori boutique di tutte le Hawaii. Lì, tra grandi firme americane ed europee, c’è anche la galleria d’arte Célébrités. È la creatura di Gerard Marti, artista marsigliese diventato discografico nella sede Emi di Parigi prima di emigrare alle Hawaii nel 1990. Qui, mettendo insieme le sue due grandi passioni (pittura e musica) e sfruttando le sue ottime relazioni con le più acclamate rockstar anglo-americane, Gerard ha dato vita a una sorta di paradiso del rock: la sua galleria contiene, infatti, memorabilia preziose (chitarre, abiti, accessori, ecc.) appartenute ai più grandi musicisti del Novecento. Ma, soprattutto, ospita diverse creazioni artistiche (quadri, fotografie, piccole sculture e invenzioni varie) realizzate da gente come Paul McCartney, Jerry Garcia, Miles Davis, Bob Dylan, John Lennon, Ron Wood, David Bowie o Keith Richards solo per citare i primi nomi di una lunga e sorprendente lista.

Di fianco a Célébrités si trova uno dei lussuosi store della catena di abbigliamento “tropical chic” Tommy Bahama’s: dopo aver trascorso oltre un’ora all’interno del locale di Gerard Marti, lo stop da TB è lo scotto che devo pagare nei confronti di madame, la “bella Nico”.

Mentre, con fare distratto, sto ciancicando una polo shirt colorata urto leggermente il mio vicino di shopping. Gli chiedo gentilmente scusa anche se penso, tra me e me, che il negozio è talmente ampio che non c’era bisogno che mi venisse così addosso. A prima vista, il tizio mi appare come il classico turista americano alle Hawaii. Il suo abbigliamento (bermuda, camicia a fiori, berrettino da baseball e occhialoni da sole) è infatti inequivocabile. Eppure, il suo look ha qualcosa di famigliare. Mi ricorda qualcuno. ma no, è impossibile, mi dico. Volo nel “women department” dello store e, dopo averglielo indicato, provo a chiedere alla Nico, molto più fisionomista di me: “Ma come, non lo riconosci?”, mi dice senza mostrare il minimo dubbio, “è lui!”. Quindi, noto che il direttore del negozio (in stato di agitazione piuttosto evidente) si dirige verso il “mio uomo”, lo saluta in modo rispettoso e si mette a sua disposizione con servilismo fantozziano. A quel punto, anch’io, inizio a convincermi che quello “è proprio lui”. Per averne conferma definitiva, mi avvicino a un altro commesso e gli dico: “Hey, it looks like today we have a celebrity in the store.”. Eccitatissimo, il ragazzo, agitando la mano destra, risponde: “Yes, yes!”.

E dunque, per quanto ancora la cosa mi suonasse strana, quel tipo vestito da “americano ricco e scemo”, che avevo inavvertitamente urtato, era uno dei miei idoli di gioventù, celebrato eroe della Woodstock Nation, icona assoluta della San Francisco hippie di Haight-Ashbury, personalità adorata del mondo latino: il señor Carlos Santana.

Ci troviamo nuovamente vicini, alla cassa. Al suo fianco, la moglie Deborah, mulatta di una bellezza scintillante, madre dei suoi tre figli e (dal 1994) manager della Santana Band. È Nicoletta a rivolgersi a Carlos che, con modi gentili, saluta e ringrazia dei complimenti. “I’ll be touring Italy in a couple of months” dice, quasi a darci appuntamento di lì a poco. Bontà sua, fa persino finta di ricordarsi di me e dei nostri incontri/interviste avvenuti tra Milano e San Francisco dove lui ha ancora casa (anche se, ci dicono, la sua nuova villa di Maui è la residenza attualmente preferita). Ancora una volta, rimango incantato dalla sua disponibilità. Tanto che, chiudendo gli occhi, lascio che la mia mente parta per un fascinoso viaggio a metà tra realtà e fantasia nel quale la sua formidabile musica si fonde con le immagini di una carriera irripetibile, il suono inconfondibile della sua chitarra con quello rassicurante della sua voce che si esprime in un american english dall’accento impeccabile infarcito, di tanto in tanto, da vocaboli in spagnolo.

“La mia passione per la musica ha origini lontane” racconta Santana. “La scintilla è scoccata da subito, nei primi anni 50. A soli 6 anni mi sono trovato di fronte una band messicana, vestita in ghingheri, che suonava cose stranissime: sembravano un misto tra Lee Perry, George Clinton e Sun Ra, una specie di funky chicano assolutamente originale. Ne sono rimasto affascinato. Poco dopo mi è capitato di ascoltare Los Indios Tabajara, un gruppo più tradizionalista che faceva standard folk come Maria Elena. È stato il colpo di grazia che ha acceso i miei cromosomi artistici”.

“Mio padre, José Santana, era un violinista mariachi e, sin tanto che era a casa, mi insegnava la musica. Ma, il più delle volte, era in tour. Io, la mamma e gli altri miei sei fratelli e sorelle abitavamo a Autlàn de Navarro nello Stato di Jalisco. Poco tempo dopo mio padre si è trasferito a Tijuana, al confine con gli States. Per un po’ non abbiamo avuto sue notizie: solo pochi soldi che ogni tanto papà ci spediva. Un giorno la mamma ha deciso di prendere una vecchia automobile, di caricarci tutti e di andare a cercarlo a Tijuana. Era il 1955, io avevo 8 anni. Giunti all’indirizzo stabilito veniamo accolti da una donna che, urlando, ci intima di andarcene. Mia madre capisce al volo la situazione ma non sa che fare; il marito l’ha tradita e lei è lì, a mille chilometri da casa, con sette figli e zero soldi. Un tizio, all’angolo della strada, le chiede cosa sta cercando. ‘Mio marito’, dice lei. Con tatto, le spiega che l’uomo che lei sta cercando, José Santana, vive proprio in quella casa. E così mia madre bussa nuovamente alla porta. E ancora, la donna di prima se ne esce urlando ma, stavolta, le sue grida svegliano mio padre che sta facendo la siesta. Quando esce e vede la sua amante urlare e sua moglie e i suoi figli impietriti di fronte alla scena, non ci può credere. Imbarazzato e pieno di sensi di colpa, ci sistema tutti al Colonial Hotel, un albergo sgangherato con veri e propri buchi sul tetto. Siamo rimasti lì per quattro mesi. Una situazione terribile con i miei genitori che non si parlavano ma cercavano di sfamarci. Un giorno mio padre viene da me e da mio fratello più grande, Tony, con un pacco di chewing gum. Lo spezza in due e ci dice: ‘Non tornate a casa sino a che non li avete venduti tutti’. In quel momento, ho capito la mia nuova realtà. Mio padre José era un uomo attraente. E, come tutti i latini, aveva il culto del machismo. A lui, però, devo molto dal punto di vista musicale, mi ha insegnato a suonare e mi ha fatto conoscere diversi universi sonori. Grazie a lui, appena ho potuto, sono sceso nelle strade di Tijuana insieme ad altri due amici che suonavano la chitarra. Quando vedevamo un turista americano, gli chiedevamo: ‘Song mister? Fifty cents?’ Suonavamo le cose messicane più ovvie. Che io odiavo. In quei giorni stavo già cominciando ad ascoltare Muddy Waters, Jimmy Reed, John Lee Hooker”.

“Il blues è stato il mio primo amore: sincero, alla mano, semplice e onesto. Da quando ho sentito un blues è iniziata la mia ribellione. Ero circondato da un mondo che faceva schifo: un ghetto crudele e sporco con poliziotti che, pubblicamente, molestavano prostitute. Loro non osavano opporsi per paura di essere arrestate. Mio padre non capiva il mio atteggiamento:

‘Si può sapere cosa c’è che non va?’.

‘Papà, non voglio più stare qui. Odio questo schifo!’.

‘Ma che ti credi? Preferisci suonare quella merda Pachuco?’ (la musica Pachuco ha imperversato a Los Angeles tra il 1948 e il 1954 tra gli immigrati messicani in California. Era l’equivalente della scena swing con abiti, gang e danze scatenate, nda).

‘Papà, guardati intorno e annusa la puzza che ci circonda. pensi davvero che qui sia meglio che a Los Angeles?’.

Era la prima volta che rispondevo a mio padre. Mi aspettavo di ricevere uno sberlone. Invece, quella frase gli ha aperto gli occhi. Da quel momento papà ha lasciato che seguissi la mia strada. Ho cominciato a suonare il blues e a sperimentare con altri ragazzi a Tijuana. Suonavo e guadagnavo i miei primi soldini”.

“Mio padre, intanto, se n’era andato a San Francisco. Proprio in quei giorni, a Tijuana, mi sono imbattuto in un musicista (Javier Batiz) che vestiva come Little Richard, suonava come B.B. King, cantava come Ray Charles. La sua chitarra aveva un timbro strepitoso. È stata mia madre a portarmi a un suo concerto. Il palco, gli amplificatori, la band. ero abbagliato! Avevo lo sguardo e l’espressione di chi si trova davanti un Ufo. Il giorno dopo la mamma ha scritto a mio padre informandolo che ‘Carlos ha di nuovo contratto il virus della musica’. In tutta risposta mio padre ci ha fatto avere una chitarra elettrica. Appena l’ho avuta tra le mani ho capito che non sarei più tornato indietro: non avrei mai fatto l’impiegato, l’insegnante o chissà che altro. Ancora prima di andare a San Francisco, ho maturato la convinzione che la musica sarebbe stata al centro della mia vita”.

“La prima volta che sono stato a San Francisco, nel 1962, non avevo ancora compiuto 15 anni. C’ero arrivato insieme a mia madre e non mi era piaciuto. In primo luogo perché avevo lasciato Tijuana dove suonavo guadagnando 9 dollari alla settimana. In realtà era un postaccio: iniziavamo alle 4 del pomeriggio e suonavamo più o meno un’ora. Poi arrivavano le spogliarelliste. Quindi riprendevamo e andavamo avanti sino a mezzanotte nei giorni normali, mentre al venerdì e al sabato si finiva anche alle 6 del mattino. Tutto questo sette giorni la settimana. Arrivato a San Francisco ho dovuto andare a scuola perché non sapevo bene l’inglese. Non mi piacevano i miei compagni di classe. inoltre, tutti i soldi che avevo risparmiato erano serviti a mia madre per il viaggio. Ero incazzato nero con lei. La mamma, un giorno, mi ha dato 20 dollari e mi ha detto che, se avessi voluto, avrei potuto tornare a Tijuana. E così ho fatto”.

“Sono giunto a Tijuana il giorno di Halloween. Erano tutti in maschera e non riconoscevo più nessuno. Sono andato nella chiesa della Vergine di Guadalupe e ho pregato: volevo riavere il mio vecchio lavoro. Tornato al club in cui suonavo sono stato accolto con scetticismo. I gestori, infatti, sapevano che la mia famiglia si era trasferita in California e, se non avessi avuto il loro permesso (essendo io minorenne), non avrebbero potuto ridarmi il posto. Una lettera di mia madre è stata d’aiuto. Sono stato a Tijuana un altro anno, imparando sempre tanto”.

“Nel 1963 ho deciso di tornare a San Francisco. Due giorni dopo John Kennedy è stato assassinato. Vivevo nel Mission District, il quartiere latino. Per sbarcare il lunario pulivo i pavimenti, lavavo i piatti e tagliavo le patate in un drive-in della zona, il Tic-Toc su Third Street. Ma suonavo come un pazzo. Specie dopo aver visto un concerto di B.B. King al Fillmore: un’altra formidabile rivelazione. Da quel momento, era il 1965, avevo in testa una sola cosa: suonare la chitarra come B.B. King. Come per Javier Batiz, ero rimasto folgorato dal suo timbro strumentale. Ho cominciato a lavorarci sopra perché anch’io volevo che la mia chitarra avesse una sua ‘voce’. E adagio adagio l’ho trovata. Il 1965 è stato un anno importante, anzi fondamentale per la mia carriera: ho capito che non mi ritrovavo nella cultura di Mission Street. San Francisco stava vedendo nascere la nuova scena hippie che mi attirava moltissimo. Così, insieme all’amico Stan Marcum, ho iniziato a frequentare i concerti del Fillmore, prima che Bill Graham lo trasformasse nel primo, grande rock club della storia. Lì, nel cuore del ghetto nero della città, suonavano i maestri del blues, i miei idoli: gente come Buddy Guy, John Lee Hooker, Jimmy Reed. In quei giorni ho capito che la mia musica doveva trasmettere tutte le mie passioni senza dimenticare le mie radici”.

“Proprio al Fillmore, in un concerto del pomeriggio, mi ritrovo a inizio 1966 di fianco a Bill Graham e a Paul Butterfield. Con loro membri dei Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service. Michael Bloomfield è seduto dietro l’organo con la chitarra sulle ginocchia. Stan Marcum va da Bill Graham e gli dice: ‘Vedi quel ragazzo messicano magrissimo? Alla chitarra è un dio: perché non lo lasci salire sul palco?’. ‘Chiedi a Bloomfield’, gli risponde Graham, ‘è lui il responsabile di ‘sta cosa.’. Bloomfield annuisce: ‘Sali ragazzo . non aver paura, facci vedere cosa sai fare.’. Timidamente monto sul palco. E aspetto il mio turno. Sino a che Bloomfield mi dice: ‘Vai, tocca a te’. Parto con un lungo assolo alla fine del quale Bill Graham mi chiede se ho una band. Nel giro di un paio di settimane, insieme a Gregg Rolie, metto in piedi la Santana Blues Band. Il resto è storia.”.

Riapro gli occhi. Sono passati quattro anni da quel casuale ma gradevolissimo incontro hawaiano. Da allora Carlos Santana l’ho rivisto soltanto un paio di volte. Sempre da lontano: lui era su un palco a suonare la sua musica di fronte a un pubblico che spesso non conosce Soul Sacrifice, Evil Ways o Black Magic Woman. Che, a volte, ignora che prima di Maria Maria, Corazon Espinado, Smooth, The Game Of Love o di tutti gli altri successi contenuti in Supernatural e in Shaman, Santana ha pubblicato una trentina di album, jammato con Jimi Hendrix e Miles Davis, inciso con Buddy Miles, John McLaughlin, Wayne Shorter, Herbie Hancock, diviso il palco con tutte (ma proprio tutte) le più grandi rockstar internazionali.

Quando si parla di Santana, persino alcuni appassionati di rock, specie quelli “duri e puri”, hanno la memoria corta. E lo snobbano. Puntando il dito su alcuni vezzi del Santana “superdivo del nuovo millennio” (vedi cose effettivamente di dubbio gusto come il profumo firmato Carlos Santana) dimenticandosi non solo i celebrati primi tre lavori – must assoluti per ogni cultore degno di questo nome – ma anche avventurosi capolavori di sperimentazione come Caravanserai o Love, Devotion, Surrender. Quest’ultimo, in particolare, frutto di quell’importante svolta mistica dei primi anni 70 che ha avuto come guida spirituale Sri Chinmoy, guru del Bengali conosciuto mediante John McLaughlin. Il conseguente, meditativo soggiorno in India (in compagnia della bella moglie Deborah) e la totale fede negli insegnamenti di Chinmoy aumentano in Carlos consapevolezza e fiducia. Da quel momento, Santana, per dirla in modo mistico, vive una vita “da illuminato”. Che gli consente, dopo anni di ricerca nei quali si era tagliato i capelli, si vestiva di bianco e si faceva chiamare Devadip, di ritrovare l’antica vena creativa. Tanto che, sebbene molti rockettari abbiano rimosso anche questo, è bene ricordare che, sul finire degli anni 80, prima che il fenomeno delle jam band esplodesse in tutta l’America, negli head-shop di Haight-Ashbury, di fianco alle t-shirt raffiguranti Jimi, Janis e Jerry, quella con il logo Santana era la più gettonata. E che i concerti della band di Carlos, per tutti gli anni 90, hanno visto un folto pubblico neo hippie di fianco a un esercito di latinos, da sempre fedeli seguaci del leader.

Tutto questo senza aver, per ora, nemmeno nominato la parola che forse, più di tutte, è stata per anni associata al nome Santana: Woodstock. Chiunque abbia visto anche una sola volta il film/documentario di Michael Wadleigh non può scordarsi l’incendiaria versione di Soul Sacrifice. Di mio, posso solo aggiungere che non ho dimenticato quella volta che, in un cinema di Milano nei pressi del Politecnico, ho assistito per la prima volta alla proiezione di Woodstock (da allora ho contato, come minimo, almeno un centinaio di visioni successive).

Era il 1972. Ricordo che gli spettatori del cinema Leonardo erano talmente affascinati, rapiti e coinvolti da ciò che accadeva sul grande schermo da cantare in coro con i ragazzi del pubblico di Woodstock quella nenia che faceva “oooooh, oh oh ooooh oh” che era una sorta di mantra per placare l’implacabile acquazzone dell’agosto 1969 che veniva alternata dai “woodstockers” all’esternazione “no rain, no rain” che il regista Michael Wadleigh aveva sapientemente montato prima del pezzo di Santana. Uno strumentale sbalorditivo che già nel titolo (Soul Sacrifice) grondava profonda spiritualità ma anche calda sensualità. Un brano emblematico per spiegare il mix assolutamente originale della band di Carlos: ritmo afro-cubano, attitudine psichedelica, struttura rock-blues, improvvisazione jazz. Su tutto, la chitarra morbida, elastica di un Carlos grintosissimo che maneggia in modo magistrale la sua Gibson SG Standard (il modello color bordeaux con la cassa dalle estremità appuntite che noi, all’epoca, chiamavamo “diavoletto”). La sua faccia, da noi fanatici analizzata fotogramma per fotogramma, si modella sulle note dell’assolo di chitarra vivendo con smorfie, sorrisi, struggimento e felicità licks bollenti e i formidabili interplay con l’Hammond B-3 di Gregg Rolie. Sino al folgorante “momentum” di Mike Shrieve, l’unico assolo di batteria della storia del rock a provocare (per dirla con Lester Bangs) “un’erezione al cuore” e non una “noia mortale”.

“Se volete Grateful Dead e Jefferson Airplane dovete ingaggiare i Santana” così aveva imposto Bill Graham agli organizzatori di Woodstock. E se, allora, quella frase sembrava avere accezione mafiosetta, a distanza di anni deve essere riletta. Santana, a Woodstock, trova un palco che diventa il trampolino di lancio di una carriera memorabile. Ma lo stesso Graham (che nella band di Carlos credeva ciecamente e che, da newyorchese navigato ci aveva pure messo del suo, portando in dote il bagaglio di salsa ascoltato a Brooklyn) ci aveva visto giusto. E con lui la Columbia di Clive Davis che mette sotto contratto la band nel 1968 (soffiandola alla Atlantic) e che fa uscire il primo disco qualche settimana dopo il trionfo di Woodstock.

Da quel momento, Santana diventa una star luminosissima. Amato dagli hippie, ma non solo, anche se il suo stile (soprattutto estetico) è diverso dai figli dei fiori che si riconoscevano nei Dead o negli Airplane. “Eppure” ricorda Joel Selvin, critico rock del San Francisco Chronicle “la band di Santana era un esempio straordinario di comune artistica. Loro incarnavano, meglio di altre band della Baia, lo spirito hippie. Non solo: erano pure i musicisti migliori di San Francisco”.

Su questa affermazione sono tutti d’accordo. Così come, quasi tutti, sono concordi nel considerare Carlos Santana un guitar hero dello stesso livello di Clapton, Bloomfield, Page. Solo Hendrix, dicono gli esperti, era di un altro pianeta.

A Saugerties, New York, nell’agosto del 1994, ho assistito a Woodstock ’94, mega-raduno per celebrare il 25ennale della prima e più famosa “tre giorni di pace, amore e musica”. Sul palco sud, Carlos ha ospitato Janie Hendrix (sorellastra di Jimi) per un grande tributo alla musica del fantastico chitarrista di Seattle. “Ho conosciuto Jimi Hendrix” racconta Santana “e mi ha folgorato. L’ho visto suonare alcune volte in modo assolutamente strepitoso: nessun altro, nella storia, ha avuto il controllo totale dello strumento. Purtroppo Jimi era circondato da un entourage che io chiamavo The Cosmic Family e che lo distraeva. La stessa cosa capitava a Miles Davis. Eppure, entrambi avevano un dono divino per la musica. Mi ritengo fortunato ad aver potuto condividere con loro momenti indimenticabili”.

Come Hendrix e come Miles, lo strumento di Carlos possiede una sua “voce”. Unica, originale, immediatamente riconoscibile. Frutto del connubio Gibson SG-Marshall e Mesa Boogie poi (prima dell’avvento della magnifica Paul Reed Smith), amplificatore che ne enfatizza la tonalità liquida e flessibile, satura ma cristallina che si presta benissimo alle note degli assolo dalla melodia facilmente memorizzabile eppur sempre difficilmente prevedibile. Come quella dei suoi primi hit popolari, le ballad strumentali Samba Pa Ti o Europa, colonne sonore ideali di romantici incontri sentimentali. “Non mi vergogno di dire che un sacco di gente è venuta da me dicendo di aver fatto l’amore con la mia musica in sottofondo” dice oggi Santana.

In questi giorni la sua immagine campeggia sul muro d’ingresso della USF, l’Università di San Francisco. Fa parte del cosiddetto “calendario de la raza” nel quale sono raffigurate la vergine di Guadalupe (Santa patrona del Messico) e molti combattenti della libertà, eroi del Nord e del Sud America: da Martin Luther King a Che Guevara, da Pancho Villa a Rigoberta Menchù. In seconda fila, con la chitarra in mano e i capelli al vento, c’è Carlos Santana. Un simbolo, per la città di San Francisco, per tutti i chicanos e per milioni di appassionati di musica. Di ieri e di oggi.

Anche se lui, Carlos, tende a sfuggire agli uni e agli altri.

“Non sono più quello di Woodstock, né il capo hippie della Santana Blues Band: quel ragazzo è morto. Io muoio ogni giorno e rinasco il giorno stesso. Lo spirito di Woodstock, invece, non muore mai. C’è tutte le volte che salgo su un palco. Così come è vivo lo spirito di Bob Marley, Robert Johnson, John Coltrane, Jimi Hendrix e Miles Davis: la loro musica, la loro arte, la loro creatività sono una costante fonte di ispirazione.

Ho fatto tanto nei miei 40 anni di carriera. Ho suonato musiche diverse e donato momenti di gioia al pubblico. Oggi la mia musica può servire come mezzo di guarigione spirituale. E più gente raggiungo, più cresce in me la speranza di portare serenità nel mondo”.

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