16/09/2009

BEATLES

Second Life

Sono i musicisti che in 525 minuti realizzarono l’intero album Please Please Me o quelli che in 900 ore produssero il celebrato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band? I Fab Four del Cavern o il quartetto chiuso nello studio Emi di Abbey Road? Il simbolo musicale di Liverpool, gli ambasciatori del rock anglo-americano nei bassifondi di Amburgo, la testa d’ariete della British Invasion? O forse gli entertainer dell’Ed Sullivan Show, i songwriter più acclamati, gli sperimentatori di Revolver, i rocker del White Album, i litigiosi compagni di viaggio in Let It Be, i finissimi cesellatori di canzoni di Abbey Road? Tanti, troppi forse, sono i modi di raccontare i Beatles, l’autentico «mostro a quattro teste» del rock secondo una efficace definizione dell’ineffabile Mick Jagger.
Esattamente dieci anni fa, mentre il mondo era preoccupato dalla presunta catastrofe telematica generata dal millennium bug, si moltiplicarono i referendum destinati a fare il punto sul decennio, sul secolo e sul millennio che stavano per concludersi. In un articolato gioco che coinvolse alcuni intellettuali francesi, lo storico e medievalista Jacques Le Goff non si lasciò scappare l’occasione di individuare 13 documenti/monumenti in grado di definire la società del Novecento. E così, accanto alla teoria della relatività di Albert Einstein, alla produzione di Sigmund Freud, al Trattato di Roma del 1957 si fece largo – unico esempio musicale individuato da Le Goff – l’opera omnia dei Beatles. Non un brano, un disco, un accadimento, un concerto, una copertina o una fase della loro carriera, ma l’intera produzione del quartetto di Liverpool. Si trattava di una provocazione intellettuale, certo, ma era pur sempre un segnale deciso, preciso, definitivo; i Beatles, dunque, documenti/monumenti musicali del Ventesimo secolo. Più di Gershwin, Bernstein, Berg o Berio.
«La band si è sciolta. Non è una tragedia: ci sono i dischi, ascoltateli». Con la consueta schiettezza Lennon fu il primo a intuire il valore della documentazione discografica del quartetto che lui stesso aveva fondato, nonostante avesse dichiarato che «il lavoro migliore dei Beatles non è mai stato inciso perché eravamo nati sul palco a Liverpool, Amburgo e in altre sale da ballo» (leggere la celebre intervista del 1970 a Jann Wenner per credere). Dieci anni dopo le dichiarazioni di Le Goff, l’opera omnia dei Beatles torna a raccontarci le tappe evolutive della saga chiave dell’intera storia del rock: se Elvis è l’insolenza e l’energia, Dylan la coscienza critica e il dubbio, gli Stones l’impeto e il cuore, i Beatles sono senza dubbio l’anima e l’intelligenza al servizio del pop-rock. La data è 9 settembre 2009: da un lato il videogioco Rock Band ci racconta i Fab Four “suonabili”, i quattro zazzeruti che affrontano il palco snocciolando le hit più celebri e celebrate; su un altro fronte l’ampia e rispettosissima operazione della rimasterizzazione di tutti gli album dei Apple/Emi porta all’attenzione dell’ascoltatore finalmente i titoli della discografia ufficiale beatlesiana mostrandoli nella loro forma migliore (vedi box a pagina 32).
I Beatles hanno lavorato tantissimo, producendo una media di due album e quattro singoli all’anno in poco più di un settennio; nel complesso si tratta di circa 35 canzoni nuove ogni anno. Una media invidiabile, spesso rispettata anche dai loro contemporanei, in termini numerici, ma ancor più sorprendente se analizzata sotto il profilo della qualità produttiva. Niente male per una band nata sul finire degli anni 50 sull’onda del successo della musica skiffle…

Il 45 giri Love Me Do / P.S. I Love You e l’album Please Please Me furono i punti di partenza della carriera discografica dei Beatles e rappresentano, in realtà, la punta dell’iceberg il cui corpo sommerso è costituito dalle esperienze musicali, professionali e artistiche che avevano caratterizzato la vita dei quattro musicisti tra il 1957 e il 1962. La straordinaria crescita musicale dei Beatles, fortemente accelerata dalle esperienze live vissute a Liverpool e ad Amburgo tra il 1960 e il 1962, aveva condotto i due principali songwriter della compagine, John Lennon e Paul McCartney, a metabolizzare un vastissimo repertorio musicale internazionale e a migliorare le loro prime esperienze compositive. Avrebbe ricordato John nel 1970: «Conosco milioni di canzoni, sono come un jukebox di migliaia di milioni di accordi e musiche». Il binomio Lennon e McCartney divenne (soprattutto nella seconda metà degli anni 60) sinonimo di Lennon o McCartney: i due, infatti, avevano deciso che ogni brano scritto nel corso della carriera dei Beatles, sia individualmente che in coppia, avrebbe conservato la sigla con il doppio cognome, tenendo fede a un patto di amicizia giovanile. Il fenomeno Please Please Me diede il via al progressivo successo dei Beatles nel Regno Unito e in vaste aree dell’Europa continentale: la seconda metà del 1963 vide assoluta protagonista la band con il contagioso singolo She Loves You / I’ll Get You che consolidò la forza della formula grazie all’uso del leggendario «yeah yeah yeah». L’inizio del trionfo europeo coincise con la celeberrima partecipazione dei quattro allo show televisivo Sunday Night At The London Palladium: lo spettacolo segnò l’inizio di quel fenomeno di isterismo collettivo che la stampa mondiale avrebbe chiamato Beatlemania.
Nel 1964, il 45 giri Can’t Buy Me Love, registrato a Parigi all’indomani degli strepitosi successi in terra statunitense e pubblicato nel mese di marzo, riuscì a superare i 2 milioni di copie vendute con le sole prenotazioni, entrando direttamente nel Guinness dei Primati senza più uscirne. A questo singolo è legato, inoltre, un altro record clamoroso: il 4 aprile 1964 guidava una schiera di ben 14 brani beatlesiani nei primi 100 singoli più venduti nella classifica statunitense redatta dalla rivista Billboard, le cui prime cinque posizioni erano occupate da Can’t Buy Me Love, Twist And Shout, She Loves You, I Want To Hold Your Hand e Please Please Me. La popolarità dei Beatles era alle stelle e la proposta di realizzare un film che avesse i quattro musicisti e le loro canzoni come protagonisti rappresentò un’occasione da non perdere. L’idea si concretizzò nella realizzazione del lungometraggio A Hard Day’s Night, nelle prime fasi battezzato Beatlemania. La straordinaria prolificità del duo venne sfruttata dalla Parlophone e dalla casa madre Emi: terminata la sbornia A Hard Day’s Night (film e disco), i discografici chiesero alla band di produrre altro materiale al fine di realizzare un nuovo 45 giri, seguito dalla pubblicazione di un nuovo album e di altri ep. Il singolo I Feel Fine / She’s A Woman (27 novembre 1964) inaugurò un’imponente serie di pubblicazioni prima della realizzazione del secondo film Help!. In particolare, I Feel Fine venne concepita e completata in studio da John Lennon ed è caratterizzata da un feedback di chitarra iniziale: un errore tecnico volutamente lasciato su disco.
Gli studio years iniziavano timidamente.
La gloriosa tournée europea del 1965 e l’incredibile successo di pubblico negli Stati Uniti (55 mila persone in una sola data allo Shea Stadium di New York) fecero da cornice all’uscita del film Help!, secondo lungometraggio interpretato dai Beatles diretto da Richard Lester. Sensibilmente meno affascinante di A Hard Day’s Night, ne polverizzò i record e garantì straordinario successo alle canzoni dell’omonimo album tra cui Ticket To Ride, You’ve Got To Hide Your Love Away e la leggendaria Yesterday. Quest’ultimo è il brano più profondo, innovativo, laborioso mai realizzato fino a quel momento dai Beatles. Fa parte di quel ristretto numero di creazioni beatlesiane nate in modo “magico”, da un’ispirazione quasi medianica (come Across The Universe, Nowhere Man e Let It Be). È il primo brano del gruppo a presentare un quartetto d’archi e, su decisione della band e di Martin, venne eseguito dal solo McCartney alla chitarra acustica: un lavoro non collettivo, dunque, che inaugurò una ricerca sonora davvero straordinaria per il quartetto di Liverpool e che trovò negli studi Emi di Abbey Road un eccellente laboratorio. McCartney non volle che Yesterday, per il carattere marcatamente “solista”, fosse pubblicata in Regno Unito come 45 giri, lasciando tale concessione al solo mercato statunitense: la Emi decise di pubblicarla come title track di un fortunatissimo ep inglese nel 1966 e come singolo soltanto negli anni 70. Dal 1965 ad oggi, Yesterday ha collezionato primati d’ogni tipo e si è inscindibilmente legata alla vicenda artistica di Macca: la canzone è stata eseguita da quest’ultimo in ogni tournée da lui intrapresa nell’arco di quasi quarant’anni di attività, a partire dai tour dei Beatles del 1965 sino alle date del 2009.
La svolta avvenne con Rubber Soul. «Fu allora che cominciammo ad ampliare ancora di più il modo di scrivere e di suonare. Quello fu il disco della ripartenza», spiega Ringo Starr dell’album che inaugura un nuovo modo di concepire i dischi: da quel momento in poi, i 33 giri del quartetto non sarebbero stati più raccolte di singoli, ma progetti sonori ed espressivi omogenei, in grado di coinvolgere nuove risorse stilistiche, letterarie, strumentali e tecniche. Il processo avviato con Rubber Soul (1965) avrebbe avuto in Revolver (1966) e in misura maggiore in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967), il suo effettivo completamento. È interessante notare che il primo progetto discografico ambizioso dei Beatles richiese meno di due mesi di lavorazione (ottobre-novembre 1965): metodo e tempi di lavorazione risultarono praticamente immutati rispetto al passato, ma l’approccio compositivo e le session subirono profonde trasformazioni. Il 33 giri anticipò ufficialmente gli studio years beatlesiani sfoderando le straordinarie Drive My Car, Michelle (vedi anche pagina 37), Norwegian Wood (This Bird Has Flown), Nowhere Man.
Il 1966 fu per i Beatles un autentico anno spartiacque. Da un lato, il mondo intero ammirava quattro sorridenti ragazzi che mietevano successi durante i loro concerti suonando ogni sera – per soli 35 minuti e in maniera sempre più svogliata – una sequenza di canzoni mal selezionata e poco rappresentativa. Sul fronte opposto, quattro intelligenti e sofisticati songwriter, arrangiatori e musicisti erano artefici di una delle più straordinarie evoluzioni nell’ambito della ricerca musicale e sonora della seconda metà degli anni 60. Degna dei leggendari Jekyll e Hyde, la vicenda artistica dei Beatles raggiunse fasi assolutamente paradossali: dal vivo i Fab Four suonavano brani degli anni 50 (Rock’n’Roll Music di Chuck Berry) e hit del recente passato (I Feel Fine, Day Tripper, Yesterday, Baby’s In Black) che erano lontani anni luce da ciò che riuscivano a realizzare a Abbey Road. La dimensione intima e stimolante degli studi di registrazione era ormai irrinunciabile per i Beatles: i tour mondiali potevano terminare. E così fu: nonostante le insistenze del manager Brian Epstein, dell’entourage della Emi, e nonostante la prospettiva di straordinari ingaggi che avrebbero solleticato qualsiasi musicista del pianeta, i Beatles decisero di interrompere la loro attività live con un ultimo tour negli Stati Uniti.
Nella prima metà del 1966 i quattro realizzarono Revolver, il loro album più ambizioso, e una coppia di brani che figurarono su 45 giri, Paperback Writer / Rain. Nessun pezzo del 33 giri venne inserito nella scaletta degli ultimi spettacoli del quartetto; la rinuncia e l’impossibilità tecnica di proporre dal vivo le canzoni dell’album spinsero i Beatles ad eseguire in versione live soltanto Paperback Writer. Era ormai chiara la linea di demarcazione tra i Beatles sul palco e i Beatles negli studi di Abbey Road. Da quel momento in poi i quattro pretesero e ottennero dalla Emi il totale controllo della produzione discografica, visti i risultati delle vendite dei loro dischi e l’affluenza ai concerti. La straordinaria ricchezza compositiva, espressiva, strumentale e letteraria dei brani di Revolver indusse i Beatles a intraprendere una migliore e più attenta selezione del materiale da pubblicare, a innalzare il livello qualitativo delle produzioni in studio e a imporre alla casa discografica una più rispettosa pubblicazione degli album: il 33 giri Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band del 1967 avrebbe portato a termine le strategie beatlesiane inaugurate timidamente con Rubber Soul e perfezionate con Revolver.

«Nel dicembre del 1966, Ringo Starr si trovava assieme agli altri Beatles all’ingresso degli studi della Emi (…) placcato e infastidito dalla troupe della Independent Television News che stava facendo un servizio sulla fine della Beatlemania», avrebbe ricordato Derek Taylor, addetto stampa del quartetto: i fan, i musicisti e i critici musicali credevano, infatti, che la definitiva conclusione delle tournée segnasse la fine stessa dei Beatles. Nessuno poteva immaginare, infatti, che il quartetto stava intraprendendo la sua più straordinaria fase creativa e progettuale.
Durante una permanenza in Spagna, Lennon compose un brano intitolato Strawberry Fields Forever, ispirato a un luogo di Liverpool; la composizione ispirò a McCartney la stesura di Penny Lane, canzone dedicata a un quartiere liverpooliano già citato nella prima stesura di In My Life del 1965 e legato ai ricordi giovanili dei due principali autori dei Beatles. Le due composizioni dovevano diventare le prime tessere di un mosaico discografico dedicato alla città natale del quartetto: le pressioni esercitate dalla Emi costrinsero la band a cambiare idea: l’eccellente 45 giri Penny Lane / Strawberry Fields Forever si trasformò nell’apripista del più complesso progetto discografico concepito dai Beatles sino a quel momento, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. In una recente intervista, il compositore Philip Glass ha dichiarato che «Sgt. Pepper fu il primo disco pop ad essere preso sul serio». Non esiste al mondo disco maggiormente studiato, analizzato e sezionato come questo capitolo della carriera dei Beatles. È uno dei documenti sonori più importanti del Novecento concepito in 129 giorni di lavoro compositivo per un costo complessivo di circa 25 mila sterline. Quattro anni prima gli stessi Beatles avevano registrato Please Please Me in meno di 600 minuti per un costo di mille sterline. La casa discografica, inoltre, esaudì molti desideri espressi dalla band: distribuire l’album contemporaneamente in ogni angolo del mondo senza alterazioni nella sequenza dei brani del disco e nel design di copertina, pubblicare i testi delle canzoni sul retro dell’album, realizzare una copertina apribile, non estrapolare alcun 45 giri dalle tracce di Sgt. Pepper ed eliminare gli spazi tra un brano e l’altro al fine di garantire un continuum sonoro. Lo scrittore statunitense Langdon Winner dichiarò che «il mondo non conobbe mai un momento così altamente unificante dai tempi del Congresso di Vienna».
Un episodio spense, però, gli entusiasmi: il 27 agosto 1967 il trentaduenne manager dei Fab Four, Brian Epstein, perse la vita a causa di un letale miscuglio di droghe mentre era nella sua dimora londinese di Chapel Street. Come sottolineato da Lennon, la scomparsa dell’uomo «che aveva costruito il mito dei Beatles» caratterizzò l’inizio di quel processo che, in meno di un triennio, avrebbe portato allo scioglimento della band. Su decisione comune dei quattro musicisti di Liverpool, la gestione della macchina Beatles venne affidata ai suoi stessi componenti, non senza qualche perplessità iniziale: «Nessuno dei ragazzi era in grado di diventare il manager del gruppo» avrebbe dichiarato il produttore George Martin. Secondo Lennon, «Paul tentò di andare avanti come se Brian non fosse morto».
Di ritorno da una vacanza negli Stati Uniti, Macca compose un brano, Magical Mystery Tour, che venne inciso dai Beatles immediatamente dopo la conclusione dei lavori di Sgt. Pepper e la cui pubblicazione venne presa in considerazione solo nell’autunno del 1967. La canzone si trasformò nella traccia guida del primo progetto firmato dal nuovo management dei Beatles: la svogliatezza generale prese il sopravvento e fu il bassista a completare il testo e la parte musicale della canzone, originariamente concepita come sigla di un telefilm con tanto di rumori di traffico automobilistico e clacson, ricavati dagli “archivi di rumori” delle teche di Abbey Road, già saccheggiate per Yellow Submarine.

Meditazione trascendentale sulle rive del Gange e gestione di una multinazionale della City londinese: tra queste due estremità i Beatles trascorsero tutto il 1968. Da un lato, quattro intellettuali inglesi si avvicinavano agli insegnamenti del Maharishi Mahesh Yogi raggiungendolo nel suo ashram di Rishikesh; dall’altro, quattro incauti imprenditori davano il via alle attività della Apple, una multinazionale indipendente impegnata nei settori della musica, del cinema, dell’elettronica, dell’abbigliamento e della sperimentazione.
La permanenza a Rishikesh fu per i quattro musicisti l’occasione per comporre nuove canzoni con l’ausilio delle chitarre acustiche. Molti brani nati in India avrebbero trovato spazio sui solchi di The Beatles, in lavori discografici successivi del quartetto o in progetti dei singoli componenti. Il 1968 vide assoluto protagonista il monumentale 33 giri The Beatles, costituito da ben 30 nuove canzoni firmate dalla band: l’essenziale titolo dell’album si accompagnava a una candida copertina, ideata dal teorico della pop art Richard Hamilton e considerata autentico contraltare ai variopinti splendori della foto di Sgt. Pepper’s. Fu proprio la bianca copertina a dare al doppio ellepi lo pseudonimo White Album. Sebbene il titolo lasci pensare a un lavoro collettivo della band, The Beatles è in realtà il frutto di una semplice addizione di contributi nati dalla creatività dei singoli componenti del quartetto, salvo pochissime eccezioni: la scarsa compattezza stilistica si accompagna, però, a un’innegabile energia espressiva e alla consueta ricchezza compositiva. Avrebbe ricordato molti anni dopo George Harrison: «Quell’album, doppio, era così lungo che la lavorazione durò all’infinito, e nel frattempo all’interno del gruppo stavano verificandosi parecchie altre complicazioni». Il 33 giri venne anticipato dalla pubblicazione del singolo Hey Jude / Revolution. Il 45 giri più lungo della discografia dei Beatles (oltre 7 minuti), il primo targato Apple, uno dei maggiori successi della carriera dei Fab Four, il brano più suonato nel 1968 in Inghilterra, il brano più interpretato nel triennio 1968/70 negli Stati Uniti. I mesi del 1968 fecero, però, da sfondo alla nascita di altri progetti tra cui la colonna sonora di Yellow Submarine (Il Sottomarino Giallo), un film a cartoni animati diretto da George Dunning. Ogni volta che la registrazione di un brano non era all’altezza della consueta produzione della band, Lennon commentava: «Andrà bene per il film Yellow Submarine».
L’universo Beatles fu colpito da un senso di disperata e caotica tensione sin dai primi giorni del 1969. Forti problemi di carattere economico e amministrativo si manifestarono quando il management del gruppo venne assegnato al rampante Allen Klein: Lennon, Harrison e Starr decisero di affidarsi alle sue cure manageriali, mentre il solo McCartney scelse lo studio legale newyorchese Eastman & Eastman, guidato dal padre e dal fratello di Linda, neomoglie del bassista. L’ultimo lavoro discografico registrato in studio fu l’album Abbey Road, pubblicato nel Regno Unito il 26 settembre 1969 e dichiaratamente dedicato agli studi di registrazione che accolsero i Beatles sin dai tempi di Love Me Do. La celeberrima foto di copertina – realizzata da Iain Macmillan – ritrae i Beatles mentre attraversano le strisce pedonali di Abbey Road. Si trattò probabilmente della prima volta in cui il nome di uno studio di registrazione divenne titolo di un disco: un omaggio affettuoso al luogo che, forse soltanto con il Cavern Club di Liverpool, può fregiarsi del titolo di casa dei Beatles. Gli studi hanno ospitato le registrazioni di ben 74 dischi numeri 1 nei soli primi 30 anni di classifiche discografiche ufficiali (1952/82), 15 dei quali firmati dai Fab Four: un luogo di culto divenuto leggendario per le registrazioni dei Beatles, ma anche per quelle di Pink Floyd, Dire Straits, Oasis. Oggi Abbey Road è sinonimo di Beatles, di eccellenza produttiva e, naturalmente, di strisce pedonali: ogni 6, 12 mesi il comune di Londra ritinteggia le “zebre” dell’elegante strada alberata per ripristinarne il colore, consumato da legioni di fan che le calpestano e che si fermano a riprodurre la foto di Macmillan.
Inequivocabilmente intenso e incisivo, l’ultimo 33 giri registrato dal quartetto è caratterizzato da una straordinaria compattezza espressiva: questi elementi hanno trasformato Abbey Road nel progetto “collettivo” più importante per i Beatles, accanto a Sgt. Pepper, Revolver e Rubber Soul. È anche il 33 giri di maggior successo della discografia ufficiale della band del periodo 1962/70, il primo a essere registrato su 8 piste e pubblicato soltanto in stereofonia: ottenne un Grammy Award nella categoria migliore registrazione non-classica effettuata in studio. «Non sapevamo davvero cosa farcene della stereofonia», avrebbe ricordato George Harrison in un documentario dell’Anthology, «perché avevamo sempre ragionato in termini mono in studio di registrazione: ci divertivamo a stupire gli amici alle feste facendo ascoltare le sole casse di destra o di sinistra con la leva del balance». In effetti, la competizione “sonora” più interessante si era innescata, sul finire degli anni 60, coi Beach Boys: Brian Wilson e gli altri, ben prima della pubblicazione di Abbey Road, effettuavano con regolarità missaggi in stereo con apparecchi a 8 piste.
L’anno di Abbey Road e Yellow Submarine si aprì, in realtà, con una proposta avanzata da Paul McCartney, salutata con interesse da John Lennon, approvata pigramente da Ringo Starr e immediatamente bocciata da George Harrison. Il bassista suggerì, infatti, di portare nuovamente in scena i Beatles in versione live, proprio come ai tempi del Cavern Club di Liverpool e dello Star Club di Amburgo. Il progetto di McCartney, metaforicamente intitolato Get Back («ritorno»… agli esordi), si basava sull’opportunità di eseguire nuovamente le canzoni che erano state protagoniste della crescita musicale del gruppo; un progetto discografico a carattere documentaristico avrebbe fatto da supporto alla nascita di un film diretto da Michael Lindsay-Hogg incentrato sulle fasi di realizzazione dell’album stesso e trasmesso dalla tv inglese e statunitense: il lungometraggio – anch’esso intitolato Get Back – avrebbe nuovamente portato i Beatles all’attenzione del grande pubblico. Per portare a termine in maniera sbrigativa il progetto, i Beatles scelsero infine di tenere un concerto a sorpresa il 30 gennaio 1969 sul tetto della Apple, nell’elegante strada londinese Savile Row. Fu l’ultima occasione in cui i Beatles suonarono insieme in pubblico: poco più di 40 minuti in una fredda mattinata d’inverno per chiudere la carriera live del gruppo più amato dalle folle di mezzo mondo. Il progetto Get Back si arenò miseramente, sebbene fossero state realizzate lunghe riprese delle tante prove effettuate presso i Twickenham Studios di Londra, con il supporto dell’organista Billy Preston. L’album e il film-documentario che nacquero da questa esperienza videro la luce oltre quindici mesi più tardi e accompagnarono lo scioglimento ufficiale della band, avvenuto nel 1970: il progetto venne ribattezzato Let It Be. Il film, della durata di 81 minuti, conquistò un Oscar nel 1970 nella categoria migliore colonna sonora originale. «Hanno aspettato che il film venisse editato e preparato. (…) L’album Let It Be era la colonna sonora, quindi si doveva aspettare che uscisse il film»: il road manager Neil Aspinall chiarì il motivo per il quale Abbey Road fosse stato pubblicato prima di Let It Be, la cui produzione venne affidata dal solo Lennon a Phil Spector. Il lavoro condotto da quest’ultimo fu oggetto di numerose controversie da parte dei Beatles: venne apprezzato da Lennon («Gli è stato dato il mucchio più merdoso di ignobile merda malamente registrata e ne ha cavato qualcosa. Ha fatto un gran bel lavoro»), Ringo («A me piace davvero il lavoro che ha fatto Phil») e George («Ero favorevole all’idea di coinvolgerlo»), ma pesantemente stroncato da Paul («Ho risentito la versione di Spector ed era tremenda») e da George Martin (vedi anche intervista a pagina 35).
Molti anni dopo, la produzione di Spector venne “ridiscussa” da Paul, Ringo e Harrison: quest’ultimo, poco prima di morire, affidò a McCartney e Starr la cura di una riedizione del disco, al fine di riproporre Let It Be in una versione nuda e cruda, così come originariamente concepita dai Beatles e così come realizzata da George Martin con la collaborazione del fonico Glyn Johns. L’album venne pubblicato nel 2003 con il titolo Let It Be… Naked.

Immediatamente dopo lo scioglimento dei Beatles, l’attenzione rivolta da critici, pubblico e fan alla band più popolare della storia del rock crebbe in maniera straordinaria.
Se da un lato i singoli componenti del quartetto evocavano il loro passato in pochissime occasioni, dall’altro si faceva sempre più insistente la richiesta dei promoter americani ed europei di ricongiungere ancora una volta sullo stesso palco o in studio di registrazione John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr. L’epilogo della saga beatlesiana creò un vuoto parzialmente colmato dalle produzioni soliste dei quattro. Gli anni 70 dimostrarono, d’altro canto, la clamorosa forza commerciale della band: le compilazioni The Beatles 1962/1966 e The Beatles 1967/1970 (del 1973), la raccolta Rock’n’Roll Music (1976), il live The Beatles At The Hollywood Bowl (1977), la raccolta The Beatles Love Songs (1977), The Beatles’ Rarities (1976) e, soprattutto, il cofanetto The Beatles’ Collection (1978) scalarono le classifiche di vendita in tantissimi paesi. Il pubblico sentiva la mancanza dei «quattro ragazzi che sconvolsero il mondo» e le vendite discografiche degli anni 70 lo dimostrarono efficacemente.
La tragica scomparsa di John Lennon mise fine alla possibilità di una reunion. Ciò spinse la Parlophone a stampare alcune discutibili raccolte discografiche al fine di cavalcare l’onda del mai sopito interesse per la musica dei Fab Four: risalgono agli anni 80 The Beatles’ Ballads (di poco antecedente alla morte di Lennon), Reel Music, The Beatles’ 20 Greatest Hits, il cofanetto The Beatles e i due Past Masters Volume I e Past Masters Volume II. Il 1989 segnò la fine di tutte le controversie legali tra i componenti del quartetto (o i loro eredi, nel caso di Lennon): dopo ben venti anni, la macchina Beatles poteva finalmente cominciare a correre speditamente, consentendo una maggiore cura dei progetti compilativi di là a venire e una maggiore familiarità con i repertori beatlesiani da parte di Harrison, McCartney e Starr. I tre Beatles – soprannominati ironicamente Threetles – cominciarono a inserire un massiccio numero di brani appartenenti al periodo 1962/70 nel corso dei loro personali spettacoli: per questi motivi, a partire dalla prima metà degli anni 90, la Beatlemania ha vissuto una seconda esplosione clamorosa, a testimonianza del richiamo che i Fab Four esercitano ancora sulle giovani generazioni.
L’accuratissima pubblicazione Live At The BBC del 1994 ha avuto il merito di aprire la strada all’ambiziosa operazione documentaristica iniziata nel 1995 e conclusasi nel 2003. Questi i numeri del progetto Anthology: tre coppie di album (con brani inediti, outtake e registrazioni live), un cofanetto con 8 videocassette contenenti 10 ore di documentario, un’imponente autobiografia, uno special televisivo della durata di 5 ore, un cofanetto con 5 dvd contenenti oltre 11 ore di documentario e filmati inediti. Questa monumentale operazione è stata anticipata dalla pubblicazione di due singoli, intitolati rispettivamente Free As A Bird (1995) e Real Love (1996). I nastri originali su cui furono incise le due canzoni – scritte ed eseguite al pianoforte dal solo John Lennon negli anni 70 – sono stati impreziositi dalle voci e dagli strumenti di Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr grazie a un paziente lavoro condotto in studio di registrazione sotto la supervisione del produttore e musicista Jeff Lynne. L’imponente Anthology beatlesiana si è trasformata nel fenomeno multimediale di maggior successo degli ultimi decenni, attestandosi su dati davvero straordinari: oltre 400 milioni di spettatori hanno assistito alla messa in onda del documentario nel 1995 e oltre 100 milioni di copie dei tre doppi cd vennero complessivamente vendute in tutto il mondo entro il 2000, anno in cui fu pubblicata l’omonima autobiografia. Il successo dell’Anthology ha anticipato la pubblicazione di tre successivi album: Yellow Submarine Songtrack (le versioni rimasterizzate in digitale delle canzoni contenute nel film a cartoni animati, ad eccezione delle tracce strumentali), la raccolta 1 (una delle più redditizie operazioni discografiche dell’intera storia del rock) e il già citato Let It Be… Naked.
Il 2009 è l’anno degli album rimasterizzati del quartetto: è un’altra tappa fondamentale nella storia discografica della band che più di ogni altra ha parlato attraverso i suoi album, piccolo grande documento/monumento della memoria popolare contemporanea.

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