30/03/2007

Bob Geldof

L’attore inconsapevole

Fino a qualche anno fa, Bob Geldof veniva osannato da tutti, a tal punto che egli stesso si autodefìnì “uno strano tipo di eroe”. Oggi, durante il nostro incontro, Geldof si definisce, ripetendolo più volte, “un attore inconsapevole”, riferendosi in particolare ad alcuni accadimenti estremi che, nel bene e nel male, hanno toccato la sua vita e quella dei suoi cari.

È un percorso intricato, il suo, il cui inizio ha lo sfondo di Dublino, dove Geldof trascorre l’infanzia rinchiuso in un tetro collegio. Infanzia cui seguirà, inevitabile, una fase di ribellione contraddistinta da droga, sporcizia, sesso, anarchia, ma anche musica, quando Bob esordisce sulla scia originaria della new wave e trionfa con la sua band, i Boomtown Rats. Inoltre, di lì a poco diverrà l’interprete principale del film The Wall dei Pink Floyd.

A metà degli anni 80, proprio mentre i Boomtown Rats sono una band ormai sul viale del tramonto, Bob Geldof compie il miracolo nella storia della musica rock e dei concerti a scopo benefico: questo miracolo si chiama Live Aid e raccoglie, attraverso gli oceani, l’adesione della quasi totalità dei più straordinari musicisti rock e pop presenti sulla scena anglo-americana. Era infatti l’ottobre del 1984 quando Geldof rimase scioccato da alcune scene trasmesse alla televisione che mostravano, senza ipocrisia, le condizioni disumane di povertà della popolazione etiope.

“Fin dai primi secondi, fu evidente che si trattava di un orrore su scala monumentale. La vergogna fu insostenibile e iniziai a pensare di fare qualcosa.” Dapprima, in Inghilterra, registrò un 45 giri benefico intitolato Do They Know It’s Christmas?, per il quale raccolse una prima lunga serie di adesioni, molte delle quali immediate, spontanee e amichevoli, da Midge Ure degli Ultravox (co-autore del brano) a Sting, passando per Paul Weller, David Bowie, Paul McCartney, Phil Collins, Pete Townshend e altri, che divennero i componenti di Band Aid. Ma il vero e proprio miracolo, Bob Geldof lo compì durante l’estate del 1985 con il suddetto trionfale megaconcerto benefico, in cui i nomi più prestigiosi del panorama rock internazionale si alternavano sui palcoscenici dello Stadio di Wembley a Londra e dello Stadio JFK di Philadelphia, mentre le reti televisive di tutto il mondo trasmettevano l’evento in diretta e invitavano i telespettatori a contribuire, a loro volta, con una libera offerta per aiutare le popolazioni morenti del Terzo Mondo.

Quanto appena doverosamente riassunto in poche righe ha senza dubbio cambiato la vita di Geldof che, da allora, ha ricevuto la carica di Sir e ha continuato a frequentare capi di stato e ambasciatori per proseguire la sua lotta contro le ignobili e ingiuste condizioni del Sudafrica. È a questo che si riferisce Bob quando mi ribadisce – cito le precise parole – di esser stato “un attore inconsapevole di una sceneggiatura che non ho scelto di recitare sul palcoscenico della vita, che pare essere stata scritta e diretta da fili invisibili”? Certamente, ma solo in parte.

Mentre esordisce coi Boomtown Rats, Bob Geldof incontra Paula Yates, una ragazzina piccolissima ma dalla personalità forte e controversa, che un giorno entra nel suo camerino e, nonostante il disinteresse da lui mostrato nei suoi confronti, si siede sulle sue ginocchia e prosegue un incessante corteggiamento finché Bob non si arrenderà. Da allora, un matrimonio e tre figlie. Il matrimonio ha alti e bassi ma la sua fine viene decretata quando Paula, ormai divenuta un’apprezzata intrattenitrice televisiva, incontra Michael Hutchence degli INXS e abbandona Geldof portandosi con sé le tre figlie da lui avute e, di lì a poco, partorirà un quarta figlia, avuta da Hutchence. Mentre Geldof si ritrova disorientato non tanto dalla fine del matrimonio quanto dal rifiuto di Paula di concedergli la frequentazione regolare delle sue bambine, anche le vite di Paula (che nel frattempo si è affidata alle mani di un chirurgo plastico) e Michael sono destinate al peggio. Com’è noto, Hutchence viene trovato morto nel suo letto in una stanza d’albergo, probabilmente soffocato da una cintura che, stretta attorno al collo, durante il rapporto sessuale, permetterebbe di ampliare l’orgasmo. Nell’albergo, la mattina seguente, non si trova nessuna ragazza ma la posizione di Hutchence sul letto e la cintura sembrano lasciare pochi dubbi. Paula appare prima distrutta e poi infuriata: accusa Geldof di essere l’assassino di Hutchence e di aver sempre contrastato la loro relazione, spingendo il cantante degli INXS al suicidio. Gli avvocati sono di nuovo sul piede di guerra.

Geldof sembra sempre più disorientato dal comportamento di Paula, vive appartato, non produce dischi da anni. Poi, un’altra terribile mattina del 1999, la figlia minore di Paula trova il cadavere della madre nel letto: è overdose. Suicidio o casualità? In fondo, poco importa poiché il nastro della vita non può mai girare all’indietro. I giornali di tutto il mondo mostrano Geldof che, nonostante lo sguardo atterrito e l’assoluto riserbo sulla questione, va a casa di Paula e prende con sé le quattro bambine, compresa la figlia avuta da Paula con Michael Hutchence.

Da allora, Bob Geldof ha cercato soprattutto di fare il papà.

Lo abbiamo intravisto l’estate scorsa, in occasione del G8 a Genova, insieme a Bono e a Jovanotti, per discutere ancora una volta i problemi del Terzo Mondo ma, soprattutto, lo abbiamo incontrato a Milano per parlare del suo ultimo album, un disco di canzoni particolarmente cupe e autobiografiche dal titolo Sex, Age And Death (Sesso, età e morte).

Dopo un ricordo su Live Aid, una stretta di mano e un caffè chiedo a Bob, non senza un lieve pudore, di fare una carrellata sulle canzoni del suo ultimo disco sperando, indirettamente, di lasciare a lui la libertà di sfiorare argomenti molto intimi e davvero troppo dolorosi. Si accende un sigaro e si passa la mano tra i capelli, debordanti e arruffati come sempre ma un po’ più grigi del solito. “Sì, nel mio disco c’è dentro tutto. Sai, si è trattato di una scrittura obbligatoria. Non nel senso che la sentivo come un dovere, ma nel senso che le canzoni sono scaturite inevitabilmente. Sai, la mia vita è stata finora come una sorta di soap opera. Mi sono successe cose estreme, tutto quanto è stato estremo ma è come se non avessi mai avuto voce in capitolo, io non ho potuto scegliere. Mi sono ritrovato su quel palcoscenico come un attore inconsapevole e costretto a recitare un copione scritto e diretto da qualcun altro.”

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Non credi che Freud avrebbe da ridire? Penso all’esperienza di Live Aid, per la quale c’è stato sicuramente un grosso impegno da parte tua e, a monte, anche una scelta consapevole.
Ma io non avevo garanzie che tutto accadesse, né che si svolgesse nel migliore dei modi. C’era molta ‘fede’ da parte mia, ma tutto quanto si è realizzato non è dipeso da me. È come se, fin da allora, qualcuno scrivesse la stramaledetta parte per me e io mi sveglio la mattina, ogni nuovo giorno, senza sapere cosa mi aspetterà.

Sei credente?
(Resta in silenzio, non risponde ma riflette sulla domanda., nda)

Del tuo ultimo disco, due sono state le canzoni che mi hanno colpita soprattutto per i testi, molto diretti: Inside Your Head e One For Me, che interpreti un po’ alla maniera di Bob Dylan.
Sono due canzoni che parlano di stati d’animo molto intimi e il testo è prioritario rispetto al resto. È vero, in entrambe la mia voce scorre sulle parole (da Inside Your Head: “Ti sei presa l’oro, a me è rimasto il piombo, ti sei presa il succo e mi hai lasciato la feccia, ti sei presa il palazzo e io ho avuto la baracca, ti sei presa una vita, mi hai lasciato come morto”, nda). A un certo punto, ho inserito una specie di dialogo tra la chitarra acustica e l’armonica a bocca. La più dolorosa delle due è senz’altro Inside Your Head, che finisce con un vero e proprio urlo. Ti faccio una confidenza: non lo ascolto, questo disco, è troppo duro per me ascoltarlo.

Come pensi di riuscire a cantare le tue canzoni dal vivo?
Con difficoltà e, soprattutto, con una certa distanza tra me e il pubblico. Ho capito che è necessario uno spazio tra il palco e la gente, perché altrimenti non ce la faccio a cantare. Stavolta, sono completamente indifeso e scoperto. L’intimità è troppa. Per cantare le mie ultime canzoni, non devo riuscire a mettere a fuoco gli occhi di chi mi sta guardando e ascoltando in quel momento. È una mia fragilità, un mio limite.

Hai inserito molti cori e voci fuori campo che fungono, talvolta, da contromelodia in molte canzoni: $6,000,000 Loser, Mudslide e The New Routine, in cui parli della relazione con una nuova compagna dopo un periodo di grande sofferenza ma, mentre canti, le voci fuori campo sembrano fantasmi che subentrano a guastare le note come la vita. È così?
Sì, è così. Di fantasmi è piena la mia musica perché di fantasmi è piena la mia memoria. Anche se, come scrivo in One For Me, “i brutti ricordi svaniscono e rimangono solo quelli belli. Il resto è sedimento che affonda”. Questa frase è riferita alle mie quattro figlie (ripete la parola “quattro” come a ribadire che ama l’ultimogenita con la stessa intensità delle prime tre, nda) perché sono il frutto tangibile di quanto di bello e vitale sia scaturito dal passato.

Il disco si chiude con una canzone, 10:15, dedicata a Jeanne Marine (l’attrice che è stata per un breve periodo al fianco di Geldof dopo la morte di Paula Yates, nda), dove per un attimo la tristezza viene allontanata dal congiungersi con un altro corpo femminile, dalla sua disponibilità, dalla sua dolcezza.
È una canzone in cui ringrazio Jeanne per tutto quanto (il testo dice: “Jeanne ha salvato ancora una volta la mia anima ieri notte”, nda). Ma è difficile, molto difficile. Non tanto perché una relazione finisce o si viene lasciati perché quella è una cosa che succede a tutti e si va avanti, ci si innamora di nuovo non solo delle persone ma della vita. Sono certo che anche la tua vita privata non sarà stata tutta rose e fiori, ma scommetto che credi ancora nell’amore.

Da cosa lo deduci?
Dal tuo sguardo e dalle domande che mi hai fatto sul nuovo disco. Ecco, diciamo pure che se tutti gli esseri umani, prima o poi, conoscono il sapore amaro del fallimento, il mio bagaglio è molto, molto più pesante di questo. Ed è un bagaglio molto difficile da poter condividere con un’altra persona. Non sarebbe neppure giusto, credo.

Però la vita va avanti e hai appena detto che ci si rinnamora dell’esistenza.
Sì, è vero. Ma questo fatto non dipende esclusivamente da me, te l’ho detto. Gli accadimenti della mia vita non dipendono da me.

So che Bono, che ringrazi tra le note di copertina del tuo disco, è una delle persone a te più care. Una volta, mentre parlavamo di te, mi ha detto “Bob per me è un ideale”.
(Finalmente sorride, nda) Paul è un amico, un vero amico. Mi vuole bene. Sai, me lo ricordo quand’era un ragazzino, a Dublino. Una volta è entrato in camerino dopo che io e i Boomtown Rats avevamo finito di suonare. Non era ancora famoso e ricordo che io e Paula lo guardammo mentre esprimeva tutto il suo entusiasmo, dicendo che anche lui voleva diventare una rockstar. Per quanto riguarda l’impegno che ci accomuna, penso che io e lui siamo un po’ come Stanlio e Olio, hai presente? (Ride, nda) Lo siamo anche fisicamente: io alto e magro, lui basso e tarchiato. Soprattutto, lo siamo dal punto di vista psicologico.
Io, oggi, sono più esperto rispetto ai tempi di Live Aid e ho imparato ad essere molto pragmatico, a centrare l’obiettivo e a ragionare in termini pratici. Mentre Paul è molto emotivo: a volte mi telefona e dice: “Bob, bisogna fare qualcosa per questo e quel problema. ho già convinto gli altri a suonare in quel tal posto e a registrare quella tal cosa.”. Io lo interrompo e gli dico: “Calma. Ricomincia da capo e spiegami esattamente il cosa e il come. Parliamone”. Oggi come oggi, non credo sia così rilevante come in passato organizzare concerti benefici. È più importante, essendo sia io che Bono dei personaggi che possono amplificare la voce di coloro che non ce l’hanno, pensare al modo migliore per esserci, per incontrare i politici e spiegare loro nel modo più chiaro possibile ciò che deve ma, soprattutto, ciò che può essere fatto e perché, quali benefici apporterebbe a tutti.
Ecco, per questo Bono mi telefona spesso e mi chiede consigli. Lui è un tipo eccezionale ma tende sempre a camminare con i piedi a mezz’aria per quanto riguarda le questioni pratiche. Dunque, io e lui ci compendiamo perfettamente, siamo gli Stanlio e Olio delle cause benefiche.

Nel mondo le guerre non solo persistono, ma fioriscono. Mi interessa moltissimo la tua opinione in proposito.
Se penso ai tempi dei Boomtown Rats, io ero uno che graffiava e pensava solo alla rabbia. In realtà, c’erano molte questioni per le quali arrabbiarsi era cosa assai sana e giusta, ma è altrettanto vero che bastava molto poco per essere intollerante e non ottenere alcun risultato a parte arrabbiarsi. All’epoca, non sopportavo moltissime persone. Oggi ho imparato ad essere elastico e diplomatico. Per quanto riguarda questa guerra. (fa una lunga pausa, nda) è difficile, difficile per tutti. Però mi sembrano chiare due cose. La prima è che, nella situazione di terrore generale, gli Stati Uniti e Bush – e, insieme a loro, tutti gli altri paesi civilizzati – sono stati costretti a prendere atto di una situazione insostenibile che la politica, in particolar modo quella americana, ha protratto in maniera cieca per tanti anni rispetto ai paesi più poveri. L’altro giorno seguivo la CNN. Bene, la situazione è ancora molto grave ed è chiaro che il cuore mi si stringe nel vedere certe immagini però notavo come Bush, rispetto ai suoi primi discorsi pubblici, ha quanto meno diminuito alcuni toni e tolto alcune frasi: lo so, è poca cosa, però è già qualcosa e può essere un inizio. Sai, in un periodo storico come questo, l’esperienza mi dice che chi fa da portavoce di un messaggio, anche di fronte alla più terribile delle ingiustizie, deve utilizzare il più possibile doti come la flessibilità e la diplomazia. Non per essere meno forte, ma per esserlo di più. E anche gli episodi incresciosi avvenuti a Genova devono lasciarci la voglia non solo di procedere, ma di farlo nella maniera giusta perché la sofferenza ha senso solo se ci migliora.

Alla fine dell’intervista, ringrazio Bob per avermi concesso di ricordare l’esperienza di Live Aid nel mio recente libro, Magic Bus. Gli dico anche che è stato bello parlare con lui, al di là dell’intervista. Si dilunga e mi fa qualche domanda di carattere amichevole, poi mi racconta quello che stanno facendo in questo momento le sue figlie. Lo scorso anno, le ha portate con sé in Sudafrica per una lunga vacanza ritemprante. Sorride nel ricordare quando la più piccola, che allora aveva circa quattro anni, ha incontrato Nelson Mandela, si è seduta sulle sue ginocchia e gli ha detto: “Tu sei bellissimo e colorato. Mi stai anche simpatico però non ci credo affatto che sei vecchio come mio nonno!”.
L’aneddoto mi suggerisce un’ultima domanda.

Bob, essere padre migliora la propria sensibilità umana e di artista?
No. Sono certo che, ad esempio, le immagini dei bambini africani mi avrebbero colpito nello stesso modo, al di là dell’avere o meno figli propri. Essere padre è un’esperienza in più che va ad arricchire un contesto in cui, però, si è soprattutto uomini e bisogna cercare di esserlo il più possibile con la ‘U’ maiuscola. Secondo me, nella vita essere questo è la cosa più difficile ma anche la più importante. Non so neppure se ci riesco.

A questo punto, Geldof si commuove e chiede una pausa a Max, l’assistente della sua casa discografica. Mi abbraccia e, dopo averlo salutato, mi sento perfino un po’ in colpa per avergli fatto una domanda che ha fatto sgorgare alcune lacrime.
Ripensandoci, forse erano inevitabili perché gli uomini con la ‘U’ maiuscola conoscono il sapore salato di cui è condita talvolta l’umana esistenza.

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