15/05/2007

David Bowie

Lucca, Summer Festival, 15 luglio 2002

Un palco di medie dimensioni, alcuni musicisti di contorno e un microfono davanti: tanto è bastato a David Bowie per dar vita a Lucca ad uno spettacolo magico, davanti a oltre 10mila spettatori, per la sua unica data italiana.

In molti si aspettavano che il musicista inglese, forte dell’uscita da poche settimane della sua ultima fatica discografica, Heathen, portasse sul palco buona parte di questo disco, invece si è presentato al pubblico in elegante abito nero e camicia bianca ed ha ripercorso le tappe più importanti della sua carriera oramai trentennale. Accompagnato da sei musicisti, infatti, ha aperto il concerto con un classico, Life On Mars, accolto da un’ovazione dei temerari spettatori – tra cui moltissimi stranieri, per lo più inglesi – che hanno sfidato le intemperie e sperato che il tempo fosse clemente e non bagnasse il concerto. Speranze andate a buon fine, poiché nemmeno una goccia di pioggia è venuta a disturbare l’esibizione del Duca Bianco.

Tra un classico come Ashes To Ashes ed un brano nuovo come Slip Away, Bowie ha trovato il modo di aprire un dialogo con il pubblico: ha salutato alcune persone che assistevano al concerto da una finestra che si affaccia sulla piazza, scherzando con la band, a cui li ha presentati come “amici di vecchia data”, e ha ricordato che a Lucca, lui, c’era già stato e per lungo tempo, durante le riprese del film di Pieraccioni Il mio west.

Ad accompagnarlo c’erano Michael Garson alle tastiere, Gail Ann Dorsey, al basso e voce, Sterling Campbell alla batteria, Mark Plati e Frank Madeloni alla chitarra e Catherine Judit Russel alle tastiere e voce: assieme hanno dato vita a quasi due ore di concerto, in cui si è potuto assistere alla storia musicale di questo camaleontico musicista: da Americans a Heroes a Starman, niente è davvero mancato nel concerto di Lucca. Dopo una versione più rock dell’originale di China Girl è stata la volta di un altro brano tratto da Heathen, I Would Be Your Slave, e della ‘dichiarazione d’amore’ di Bowie nei confronti di questo suo ultimo album, da lui stesso definito come uno dei suoi preferiti.

Nonostante l’aria pungente della sera, il concerto è volato ed è stato il momento del bis: richiamato a gran voce dal pubblico ha eseguito altre sei canzoni, tra cui una tiratissima Let’s Dance, Fashion e il doveroso omaggio a Ziggy, nell’anno in cui ricorre il 30esimo compleanno di questo immaginifico personaggio nato dalla fantasia di un artista che giunto alla maturità, non ha bisogno che di se stesso per fare spettacolo.

 

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Intervista a David Bowie

Il tuo modo di scrivere è cambiato nel corso degli anni?
È curioso, ma quand’ero giovane scrivevo dei ‘vecchi tempi’ come se avessi molti anni alle spalle. Adesso li ho veramente, quindi c’è una differenza nel peso della memoria. Quando si è giovani si ‘diventa’. Adesso penso maggiormente ad ‘essere’. E tra non molto mi dovrò preoccupare di ‘sopravvivere’. Mi manca quel periodo del ‘divenire’, quando non sai cosa c’è dietro l’angolo.

Scrivere ti appassiona ancora?
Mi sono rassegnato molto tempo fa a non essere chiaro quando mi esprimo a parole. Lo faccio con la musica. È lì, negli accordi e nelle melodie, che c’è tutto quello che ho da dire. Adesso quando scrivo arrivo in un luogo di pace e tranquillità come mai mi era capitato in passato. Penso che in futuro scriverò cose molto interessanti. Ho molta fiducia nelle mie possibilità. Sono fortunato: a Robert Johnson la vita ha concesso un solo disco.

Perché l’ultimo disco si intitola Heathen, pagano?
Il paganesimo è uno stato mentale. Puoi riferirlo a una persona che non vede il suo mondo. Non ha luce mentale. Distrugge senza saperlo. Non sente la presenza di Dio nella sua vita. È l’uomo del XXI secolo. Non c’è tuttavia un concept dietro Heathen, solo canzoni. Ma in qualche modo c’è un filo rosso che le unisce ed è tanto forte quanto quello dei miei album a tema.

Che cosa cercavi tornando a collaborare con Tony Visconti?
Volevo una sorta di approccio non-professionale, una forma amatoriale tipicamente britannica. Dico amatoriale in senso buono, come quando una persona durate il fine settimana si dedica a costruire una chiesa di fiammiferi: bellissima, ma è solo per la gioia sua e della sua famiglia. Volevo portare avanti una sorta di restaurazione culturale personale utilizzando tutto quel che conoscevo, senza però tornare al passato. Volevo sentire il peso e la profondità degli anni. Tutte le mie esperienze, tutte le domande, le paure, tutto l’isolamento spirituale.

Qual è il tuo approccio al lavoro?
Non sembra mai lavoro. Per questo album ho cominciato a scrivere la scorsa primavera e avevo una cinquantina di pezzi di melodia o sequenze di accordi che mi piacevano. Appena sono entrato nello studio di registrazione di Allaire vicino a Woodstock – un luogo suggestivo e silenzioso costruito negli anni Venti – le cose hanno cominciato a prendere la giusta forma.

Parlami di Pete Townshend che suona su Slow Burn.
Lo conosco da anni e l’ho sempre considerato un mentore. Era da tempo che ne parlavamo e lui doveva venire a fare la sua parte quando abbiamo suonato entrambi al Concert For New York, ma non c’è stato tempo. Allora gli abbiamo mandato le basi su Pro Tools al di là dell’oceano e abbiamo lavorato a distanza. Adoro il suo modo di suonare.

Heathen contiene alcune cover.
Sono tre. I’ve Been Waiting For You era nel primo disco di Neil Young. Quando lo sentii per la prima volta, nel 1969, mi colpì molto per la complessità dei suoni. Era maestoso e scarno al tempo stesso.
La seconda cover, Cactus, è dei Pixies: la loro musica è stata sottovalutata, mentre loro sono stati con i Sonic Youth importantissimi per gli anni Ottanta.
La terza cover è di uno dei miei miti d’una volta, The Legendary Stardust Cowboy, cui ho preso il nome ai tempi di Ziggy Stardust. Sul suo sito lui ha scritto che sarebbe stato carino da parte mia, in cambio, cantare una delle sue canzoni. L’ho accontentato. Rifare la sua I Took A Trip On A Gemini Spaceship è stato il mio modo di farmi perdonare.

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