23/03/2007

Franz Ferdinand

No, i Franz Ferdinand non vi cambieranno la vita, ma perlomeno potranno farvi ballare finché le vostre articolazioni non vi si ribelleranno contro. In Gran Bretagna parecchia gente ha già consumato la suola delle scarpe danzando al ritmo di questi quattro scozzesi, che nel giro di qualche mese sono passati dal completo anonimato alle prime pagine delle riviste musicali d’Oltremanica. D’accordo, il Regno Unito rimane e probabilmente rimarrà la fabbrica per antonomasia delle new sensations in campo pop-rock, ma quando un gruppo di ragazzi parte da zero e in brevissimo tempo diventa un nome che passa sulla bocca di tutti qualcosa di buono c’è sotto.

Tanto per cominciare ci sono quattro nomi: Alex, Nick, Bob e Paul. Vivono a Glasgow e la loro missione è quella di diventare qualcuno. La storia comincia alla fine del 2001, nella cucina di Alex: lui ha appena ricevuto in omaggio un basso elettrico dal suo amico Mick, a condizione che ne faccia un uso proficuo, così chiede a Bob se vuole imparare a suonarlo. Bob risponde che lui è un artista, non un musicista, al che Alex replica lapidario: “È la stessa cosa”, e Bob commenta: “D’accordo allora”. Questo tanto per dare un’idea di come sui Franz Ferdinand, come in tutte le vicende rock che si rispettino, siano sorte diverse storie e storielle a volte ai limiti della leggenda urbana. Contattiamo via telefono il leader, Alex, e cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

“La maggior parte delle cose che hanno scritto su di noi e sulle nostre origini corrisponde alla pura realtà”, esordisce serafico. Però è quantomeno bizzarro che una rock band tenga il suo primo concerto nella camera da letto di una ragazza, eppure a loro è andata proprio così: “I fatti si sono svolti come li abbiamo sempre raccontati. C’era questa nostra amica, Celia, che frequentava la Glasgow School Of Art insieme a Bob. Lei e altri nostri amici avrebbero dovuto tenere un’esposizione di loro opere artistiche nel suo appartamento e siccome ne avevano trasformato il resto in una galleria d’arte, noi abbiamo trasformato la camera da letto in un posto dove poterci esibire in concerto. Abbiamo portato strumenti e amplificatori e dato inizio alle danze. È stato terrificante dover suonare per la prima volta davanti a persone che conoscevamo benissimo e che avevano delle aspettative nei nostri confronti: pensa che al confronto quando qualche giorno fa abbiamo tenuto uno show alla Brixton Academy di Londra, di fronte a circa 2.500 persone, eravamo molto più tranquilli, perché in quel caso ci sono risultate quasi tutte anonime, non le vedevamo neanche bene”.

È il 22 maggio 2002 e le ottanta persone stipate in quell’appartamento di Glasgow assistono alla prima esibizione di un gruppo dal nome insolito: “Il motivo principale di questa scelta consiste nel fatto che abbiamo pensato fosse un nome che suonava bene, ma anche perché quel nome rappresenta un momento in cui la storia è cambiata: tutte le band vorrebbero essere ricordate come un punto di svolta per la musica e noi ci tenevamo a mantenere questo spirito di voler essere una formazione che apre un nuovo corso”. La vicenda dell’arciduca Francesco Ferdinando, il cui omicidio fu utilizzato come pretesto per scatenare la Prima Guerra Mondiale, è risultata così sfiziosa che tempo dopo, durante lo spettacolo al Festival di Reading, propongono una canzone che si intitola Bang Bang Gabriel Princip (dedicata a Gavrilo Princip, l’irredentista serbo bosniaco autore del delitto): “In realtà il vero titolo del brano, che è il lato B del singolo Take Me Out, è Oh For You, Sophia (dal nome della moglie di Franz Ferdinand, nda)”.

Non è solo questione di suggestioni storiche o senso dello humour: i nostri sfoggiano un retroterra che non può non destare interesse. Il loro legame con la scena artistica è qualcosa di connaturato e indispensabile. Tutto nasce quando scoprono un enorme magazzino in disuso: chiedono le chiavi al proprietario, vi si stabiliscono e lo battezzano Chateau. In breve tempo lo Chateau non diviene soltanto il quartier generale dei Franz Ferdinand, ma un punto di aggregazione per tutta la comunità artistica di Glasgow: in quegli spazi si tengono mostre d’arte, ma anche feste selvagge. “Il periodo trascorso in quel magazzino è stato molto importante, perché ha contribuito a caratterizzare la nostra identità: volevamo un posto tutto per noi, dove poter realizzare le nostre cose, tenere delle feste, fare le prove, suonare senza essere disturbati da nessuno. Ci piaceva anche perché eravamo circondati da persone che ci piacciono e che rispettiamo: abbiamo coinvolto e invitato anche alcuni esponenti della scena artistica della nostra città, come Lucy McKenzie, David Shrigley, Gregor Wright, Robert Churm, tutti artisti con grandi idee, che non vogliono essere etichettati. Sono diventati nostri amici e ci fa molto piacere avere a che fare con gente come loro”. Quando si parla di rock e arte, di provocazione e nuovi linguaggi, non si può fare a meno di citare Andy Warhol e la sua Factory, e Alex chiarisce il concetto: “Non era nostra intenzione ricreare la Factory attraverso lo Chateau. Il background artistico probabilmente è così importante soprattutto perché ci piace essere circondati da persone che possano essere una fonte di ispirazione per noi. Di sicuro la commistione tra musica e arte è un elemento molto significativo: non sentirai mai parlare un artista solo di altri artisti, perché loro prendono l’ispirazione dappertutto e penso che dovrebbe essere la stessa cosa per i musicisti”.

Peccato però che alla polizia di Glasgow non andasse troppo a genio quel covo di artisti e musicisti, che di fatto gestivano un locale non autorizzato, e così lo Chateau fu momentaneamente chiuso. Certo, momentaneamente, giusto il tempo di trovare un altro sito, una prigione vittoriana abbandonata da trent’anni, ed ecco che lo Chateau si incarna in un nuovo corpo. I Franz Ferdinand hanno trovato un’altra casa.

Il singolo Darts Of Pleasure è quello che lo scorso anno li ha rivelati al grande pubblico, un successo bissato dal più recente Take Me Out (arrivato fino al terzo posto nelle classifiche britanniche). I concerti e il sound proponevano due elementi peculiari: look tra il ricercato e l’intellettuale (un misto di Talking Heads e new wave inglese) e spiccata propulsione ritmica ideale per ballare (un misto di funk e disco). “È importante anche il look, così come lo è quando usciamo per andare a una festa o a una serata in qualche club. Pensa alla tua esperienza, è lo stesso quando esci per una nottata e incontri i tuoi amici: vuoi presentarti vestito in un certo modo per destare attenzione e questa è anche la nostra attitudine che trasportiamo sul palco. Ci piace apparire bene e abbiamo gusti molto simili in fatto di abbigliamento, ma non volevamo creare un look artificiale, anche se ci piacciono alcune band che invece seguono quella via, come The Hives per esempio. Ci piace come ci vestiamo, senza che questa sia una mossa escogitata a tavolino o cose del genere. Non seguiamo alcuna moda, anzi cerchiamo di crearne una nostra. La connessione col ballo è un aspetto ancora più decisivo: vogliamo che la gente balli ai nostri concerti, perché il ballo è qualcosa di connaturato con l’essere umano quando ascolta musica. Inutile porsi troppe sovrastrutture mentali: la danza è legata all’istinto dell’uomo, è una reazione basilare che viene innescata da determinati impulsi esterni. È per questo che mi piace la pop music, perché è veramente diretta nel comunicare sensazioni all’ascoltatore, senza utilizzare il metodo goffo che invece è costretto a usare il linguaggio parlato. Adoro per esempio quando i bambini danzano su un brano musicale, perché non si chiedono il motivo per cui lo fanno e mi auguro che chi ascolta il nostro disco lo possa fare nello stesso modo.”

Cosa ascolta Alex quando vuole ballare per conto suo? “Suono moltissimi dischi, alcuni in particolare funzionano sempre come Ring My Bell di Anita Ward, Blue Monday dei New Order, Transmission dei Joy Division, What Difference Does It Make? degli Smiths, Number One Song In Heaven degli Sparks, Heart Of Glass dei Blondie, ma anche Bo Diddley, Little Richard.”

Due singoli pubblicati, l’album omonimo di debutto in dirittura d’arrivo (quando leggerete queste righe sarà già nei negozi, vedi recensione nello spazio dischi) e la pressione è già divenuta micidiale nei loro confronti: merito anche della sponsorizzazione del New Musical Express e di un esteso tour britannico insieme a Rapture, Von Bondies e Funeral For A Friend, dal successo clamoroso. Come è possibile che una band così giovane sia in grado di affrontare una responsabilità e un’aspettativa così vasta? “Tutti i giornalisti con cui ho parlato mi hanno posto la medesima questione e ciò è interessante per me. Quello che penso è che noi non possiamo controllare la stampa e non vorremmo neanche farlo, anche se potessimo. Certo, è eccitante che così tanta gente si interessi a noi e ne scriva, ma è una cosa che dipende totalmente da loro. E poi davvero non percepisco nessuna pressione. Io e Bob continuiamo a scrivere le nostre canzoni in cucina, a lavorare dodici ore in spazi molto angusti: questa è la pressione che sentiamo. Rispondere alle domande dei giornalisti come te sulla nostra musica o suonare ai concerti non la consideriamo certo una pressione, è solo divertimento! Certo, mi ritengo fortunato, mi trovo in una situazione fantastica e non mi posso proprio lamentare.”

D’altronde Alex ha dichiarato alla Bbc: “Molta più gente potrebbe formare una band, ma spesso sono terrorizzati solo all’idea di farlo. Eppure non è così difficile, basta darsi una mossa”. Gianni Morandi canterebbe che “uno su mille ce la fa” e i Franz Ferdinand ce l’hanno davvero fatta.

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