17/05/2007

George Harrison

Tutto passa

“Era come il sole, i fiori e la luna e ci mancherà enormemente. Il mondo sarà un posto molto più vuoto senza di lui. George era un gigante, un grande con una grande anima: aveva la spiritualità e il buon senso di un uomo compassionevole.” Le parole di Bob Dylan sono le migliori per ricordare George Harrison, scomparso lo scorso 29 novembre dopo una lunga battaglia contro il cancro.

Una grande tristezza ha accompagnato la perdita di un altro tassello del mito dei Beatles. Un mito che rinverdisce continuamente, catturando ogni nuova generazione, e del quale nessun sociologo è ancora riuscito a spiegare l’immortalità. La scomparsa di Harrison (dopo quella di John Lennon) suona però come una nuova dimostrazione dell’umanità di questo mito, della sua vulnerabilità. L’incredulità seguita alla ferale notizia (purtroppo largamente annunciata) è legata proprio al dover venire a patti con la realtà.

Con la morte di Harrison, ha detto qualcuno, finiscono veramente gli anni Sessanta, quell’espressione giovanile e piena d’ottimismo che avevano incarnato i quattro ragazzi di Liverpool. Poco importa, allora, che Harrison avesse ormai centellinato le uscite discografiche e che avesse completamente abbandonato le esibizioni pubbliche (salvo rare apparizioni in qualità di ospite di lusso). L’importante era la certezza della sua presenza. Per i beatlesiani sparsi in tutto il mondo era come un amico o un familiare che non si sentiva da tempo, ma disponibile al momento del bisogno. I Beatles ancora da seguire erano Paul e Ringo, mentre le notizie che riguardavano George erano sempre poche. In occasione della recente ristampa di All Things Must Pass il musicista aveva parlato dell’intenzione di riproporre tutti i suoi dischi solisti (con aggiunta di bonus track) e aveva annunciato la prossima pubblicazione di un nuovo album, intitolato Portrait Of A Leg End.

Prima dell’acuirsi della malattia George aveva partecipato ai dischi di Bill Wyman (Double Bill), Electric Light Orchestra (Zoom), Jim Capaldi (Living On The Outside) e Jools Holland (Small World, Big Friends). Proprio nell’album di Holland appare l’ultimo brano scritto e inciso da Harrison, Horse To The Water, un nervoso rock a dimostrare che se la malattia si stava portando via l’uomo, aveva lasciato intatto il musicista. In Horse To The Water George fa riferimento al suo male: “A friend of mine in so much misery / (.) Someone I love gotta a problem”. Quasi a voler esorcizzare la morte, che ormai si era affacciata inesorabilmente nella sua vita, tanto che le edizioni della canzone sono state registrate come RIP Ldt. (Rest In Peace) al posto dell’abituale Harrisongs.

George aveva già affrontato lo sgradevole tema in una sua canzone, Art Of Dying (da All Things Must Pass): “Ognuno è preoccupato della morte”, si legge nella sua autobiografia I Me Mine a proposito di Art Of Dying, “ma la sua causa è la nascita, così se non volete morire, non dovete nascere. Quindi the art of dying è quando qualcuno può consapevolmente lasciare il corpo al momento della morte piuttosto che morire senza sapere cosa sta succedendo”. Una visione serena, derivante dalla sua religiosità, che gli ha permesso (come hanno ricordato i familiari e gli amici che l’hanno visto negli ultimi giorni di vita) di attendere sereno la fine. Una fine arrivata dopo un lungo calvario tra cliniche europee e statunitensi: una morte meno scioccante di quella di Lennon, ma altrettanto dolorosa.

Ecco il ricordo dei fan, che si sentono un po’ più soli, e quello delle persone che avevano lavorato con lui. “Siamo tutti devastati da questa notizia”, ha affermato Paul McCartney. “È veramente triste perdere una così bella persona. Era come un fratello minore, un uomo magnifico e molto coraggioso, e aveva un meraviglioso senso dell’umorismo. L’ultima volta che l’ho visto stava ovviamente molto male ma faceva battute, come sempre.” “Era il mio migliore amico, gli volevo molto bene e mi mancherà molto”, queste le parole di Ringo Starr. “Ci mancherà per il suo senso dell’umorismo, dell’amore e della musica.”

“George era un fantastico musicista”, è il turno di George Martin, il produttore dei Fab 4, “era il piccolo dei Beatles e, a differenza di Paul e John, fece fatica a sviluppare un suo talento come autore. Ma ha lavorato con enorme pazienza, costruendo meticolosamente la sua musica, che lo ha portato a scrivere una delle più belle canzoni d’amore di tutti i tempi, Something. George era un vero amico”, ha continuato Martin, “un uomo leale e molto attento con le persone che amava e dalle quali era molto amato a sua volta.”

“Per me era un amico, un discepolo e un figlio”, ha affermato il musicista indiano Ravi Shankar, “ho passato il giorno precedente alla sua morte con lui e sembrava sereno e circondato dall’amore.” Tributi sono poi arrivati da molti musicisti: “Aveva un carattere complesso”, questo il ricordo di Mick Jagger, “da una parte era davvero the quiet one, un tipo tranquillo dotato di un vero senso dell’umorismo e di un modo gentile di trattare con il mondo, ma allo stesso tempo poteva essere forte e combattivo quando ce ne era motivo. Come chitarrista”, ha continuato la voce dei Rolling Stones, “George ha creato moltissimi riff diventati classici, copiati infinite volte, mentre come autore ha scritto molte belle canzoni.” “Per me”, ha detto Keith Richards, “George era, e sarà sempre, soprattutto un gentiluomo, nel pieno senso della parola. Spero che almeno adesso stia suonando con John.”

Il ricordo di Bono degli U2: “C’era un certo mistero e un’inspiegabile qualità nella sua musica, che lo rendeva una figura molto attraente e che dava maggiore spessore ai Beatles”. “Aveva”, ha affermato Paul Simon, “una gentilezza e una spiritualità grazie alle quali era un vero piacere passare del tempo in sua compagnia.” “Mi sento fortunato ad averlo conosciuto”, queste le parole di Jeff Lynne, “alcuni dei giorni più divertenti della mia vita li ho passati in studio di registrazione con George.”

“È morto come è vissuto, con dignità, coraggio e umorismo”, ricorda Eric Idle dei Monty Python, di cui proprio Harrison produsse la versione cinematografica. “Ha ispirato le vite di tutte le persone che ha incontrato. Era una persona amata dalla sua famiglia, dai suoi amici e da sconosciuti sparsi per il mondo. Gli ho voluto bene dalla prima volta che l’ho incontrato e mi mancheranno il suo sguardo, la sua risata, la sua onestà, il suo tocco alla chitarra.”

“Anche George era un sognatore”, parole di Mike Mills dei R.E.M. “Credeva nella possibilità di fare del mondo un posto migliore e con il suo idealismo, il suo attivismo e soprattutto la sua musica ha fatto esattamente questo.” “George era una persona buona e umile che ha creduto nel potere dell’amore per sconfiggere ogni avversità. Ha vissuto la sua vita senza chiedere nulla per se stesso, e il suo coraggio ci ha ricordato che Dio ha creato un mondo per la pace”, ha affermato Billy Corgan.

Parole dettate dal senso di vuoto e dalla profonda amicizia o rispetto che legava questi musicisti a George Harrison. Parole inevitabili in occasione della scomparsa di una persona famosa. Come quelle di quotidiani e telegiornali che hanno reso omaggio ad Harrison subito dopo la scomparsa. Ora il rischio è quello di incensare acriticamente non solo il personaggio, ma anche la sua musica. La tragica scomparsa non può farne un guitar hero (che non è mai stato) o trasformare alcuni suoi dischi deludenti in capolavori.

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L’angelo misterioso

La musica di Harrison è proprio come l’ha definita Bono, “misteriosa e inspiegabile”. Uno degli pseudonimi che usava era non a caso L’angelo misterioso.

Se le sue prime prove come autore all’interno dei Fab 4 lo hanno visto seguire l’esempio di Lennon e McCartney (Don’t Bother Me, I Need You, You Like Me Too Much), con l’album Revolver George ha portato a compimento l’elaborazione di uno stile personale (vedi box a pag. 36/37) , che dapprima ha infuso nuova forza alla musica dei Beatles (Taxman, Piggies, While My Guitar Gently Weeps, Something, Here Comes The Sun) per poi caratterizzare tutti i suoi dischi solisti. Uno stile difficile: tranne rari casi, le sue canzoni non sono immediate, non vantano un ritornello orecchiabile, ma necessitano di molti ascolti per scoprirne i misteri e il fascino. Il tutto si muove nell’ambito pop, ma con una ricercatezza e una complessità melodica che hanno poco da spartire con gli aspetti più deleteri e smaccatamente commerciali del genere. È il caso di un brano come Soft-Hearted Hana (dall’album George Harrison), che dimostra tutto l’eclettismo di Harrison ed è ideale per coglierne le peculiarità: un pezzo per nulla facile, ma dal retrogusto fragoroso. Sulla stessa lunghezza d’onda molti altri, tra cui ricordiamo Cloud Nine, Cockamamie Business, It’s What You Value, Poor Little Girl.

Uno dei maggiori limiti di Harrison è sempre stata la poca prolificità. Diversamente da Lennon e McCartney, per lui il processo creativo richiedeva più tempo. Per questo dopo l’exploit di All Things Must Pass (nato utilizzando canzoni composte nell’arco di tre anni) impiegò quasi due anni per pubblicare un altro disco (Living In The Material World, che non regge però il paragone con il predecessore), ed è per questo che gli album realizzati a breve distanza l’uno dall’altro a metà degli anni 70 contengono molto mestiere e pochi brani di prima scelta.

Infine i testi, mai banali ma ricchi di ironia, di parole d’amore, di critica sociale, di esortazioni a favore della salvaguardia dell’ambiente, di messaggi religiosi attraverso i quali cercava di trasmettere ciò in cui credeva agli ascoltatori. La religiosità è uno degli aspetti più noti della personalità di Harrison, per il quale è stato spesso criticato: alcuni testi si avvicinano pericolosamente alla predica in formato canzone. Ma George agiva in perfetta buona fede, non cercava di blandire i gusti del pubblico, intendeva bensì stimolarlo ad “aprire la propria mente” per trovare nuovi valori che potessero migliorarne la vita o nuove sonorità che potessero allietarla. In quest’ottica il disco Living In The Material World rappresenta l’apice del percorso: per Harrison le dottrine orientali erano un mezzo per trovare il senso profondo dell’esistenza che andasse oltre i valori occidentali dell’avere. Ecco quindi la necessità di comunicare questo sentire ai fan, che però erano, nella maggior parte dei casi, più interessati ad ascoltare una bella canzone piuttosto che una predica.

Lo stesso discorso vale per la musica indiana. In occasione della tournée americana del 1974, a metà spettacolo, Harrison introduceva Ravi Shankar che, accompagnato da altri musicisti indiani, suonava per una trentina di minuti. “Vi chiedo di avere un po’ di pazienza e fiducia e di non avere preconcetti”, affermò in occasione della prima data del tour a Seattle. Il pubblicò ignorò il suo invito, così Harrison cercò di scuoterlo: “Per favore ascoltate la musica, aprite le vostre menti. A me piace, e forse anche a voi piacerà”.

Durante la tournée cercò, spesso inutilmente, di coinvolgere il pubblico nel coro “Christ-Krishna” di My Sweet Lord. A questi atteggiamenti vanno aggiunte la pessima forma vocale (era stato colpito da laringite durante le prove e iniziò il tour con una voce rauca che peggiorò senza tregua data dopo data), che gli impedì di interpretare al meglio il suo repertorio e la scelta di alterare drammaticamente gli arrangiamenti di molti pezzi, in particolare di quelli dei Beatles. Un misto fra un tentativo di seguire l’esempio di Bob Dylan e un atto di distruzione nei confronti del mito dei Fab 4, dall’ombra dei quali stava cercando di emanciparsi. Non c’è altro modo per spiegare la decisione di pescare dal repertorio dei suoi anni 60, ma solo per sfigurarne parole e struttura. Un fallimento che lo ha allontanato definitivamente dalla vita on the road (a eccezione del breve tour giapponese del 1991 con Eric Clapton), facendogli perdere il contatto diretto con i fan e, di conseguenza, popolarità e successo. Dopo il 1974, Harrison centellinerà le sue apparizioni pubbliche, limitandosi a lavorare in sala d’incisione.

La sua attenzione per la musica indiana, che lo ha portato a produrre dischi di Ravi Shankar con scarso ritorno commerciale, ha un’importanza che si può valutare con più serenità oggi alla luce del successo e dell’interesse raccolti dalla world music, rispetto alla quale lo si può giustamente considerare un precursore. Nel 1967 fece esordire Ravi Shankar su un palco rock, al festival di Monterey, e già dal 1965 aveva arricchito la musica dei Beatles con le sonorità del sitar (Norwegian Wood, Love You To, Within You Without You, The Inner Light). Questo aspetto costituisce l’influenza più nota di Harrison nei Fab 4. Per il resto viene ricordato come the quite one, il musicista schiacciato dalle personalità e dal talento di John Lennon e Paul McCartney.

Tutto vero, ma troppo limitativo. La grandezza dei Beatles nasceva dall’eccezionalità di ogni componente e dall’inspiegabile alchimia tra i quattro. In questo mosaico Harrison era il chitarrista eclettico, dal tocco dolce e discreto come la sua personalità, ma mai banale o scontato (al proposito basta ascoltarsi lo ‘strano accordo’ che apre A Hard Day’s Night o il secco contrappunto alla voce di Lennon in Come Together). Come le sue composizioni, le parti di chitarra vanno scoperte e assaporate poco alla volta: un album come Revolver sarebbe semplicemente impensabile senza la sua sei corde. La grandezza dei Beatles è dovuta anche alla sua presenza come leader ‘di contorno’: sono pochi i gruppi che possono vantare, oltre a due talenti del calibro di Lennon e McCartney, un terzo musicista di tale spessore artistico. Particolarità che si evince anche dalle armonie vocali che i Beatles potevano permettersi grazie al contributo di George: senza vantare una voce espressiva come quella di John e Paul, era in grado di giocare la sua parte con autorevolezza.

Inoltre, pur senza essere un virtuoso dello strumento, ispirò molti musicisti: Roger McGuinn si decise a comprare una chitarra Rickenbacker dopo averla vista imbracciare a Harrison nel film A Hard Day’s Night. “I Byrds”, ha sempre spiegato McGuinn, “sono nati dall’incontro tra Bob Dylan e i Beatles.” Oppure, per arrivare ai giorni nostri, basta ascoltare un brano dei Kula Shaker per rendersi conto di come la sua influenza sia ancora viva.

Harrison ha rappresentato però anche l’anima critica all’interno del gruppo, esprimendosi in termini negativi circa l’isteria che li circondava e opponendosi all’intenzione di McCartney di riprendere a esibirsi dal vivo. Soltanto nei tardi anni 80 è riuscito a raggiungere un compromesso tra se stesso e i Beatles, incidendo un brano che ne celebrava il mito (When We Was Fab). Tuttavia questo non gli ha impedito di essere, in occasione dell’auto-biografia Anthology, il più disincantato nel ricordare gli anni 60: “È stata una storia d’amore unilaterale. La gente ci ha messo i soldi e le urla, ma i Beatles ci hanno messo il loro sistema nervoso, che è qualcosa di molto più difficile da dare”. Ma, al momento opportuno, ha dimostrato anche molta ironia sul celebre passato, partecipando a All You Need Is Cash, film-parodia dei Monty Python sulla storia dei Beatles.

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Mystical One

Il sitar non ha rappresentato solo il contributo più noto di Harrison alle sonorità dei Beatles, ma è stato anche il ponte che lo ha fatto incontrare con la cultura orientale. All’inizio coinvolse nei suoi interessi anche i tre compagni di gruppo, prima con il ritiro a Bangor nel Galles, poi con il viaggio a Rishikesh in India nei primi mesi del 1968. Se la fine del soggiorno ha coinciso con lo scemare dell’interesse per le dottrine orientali da parte degli altri Beatles (Lennon perse di mira il Maharishi Mahesh Yogi nel brano Sexy Sadie), Harrison non ha mai perso l’entusiasmo e ha continuato ad approfondirle. Una fede vissuta come parte fondamentale della sua vita, che lo ha portato a una continua ricerca del significato vero e profondo dell’esistenza: “Sto ancora cercando chi realmente sono” ha affermato in occasione della sua premiazione ai Billboard Awards nel 1992. Una fede che lo ha accompagnato negli ultimi momenti di vita (“L’unico scopo della vita è cercare Dio”, avrebbe detto alla moglie poco prima di morire), con alcuni Hare Krishna che intonavano canti religiosi. Inoltre si è saputo che, nel suo testamento, ha lasciato una cospicua somma per finanziare la costruzione di un tempio nella città sacra di Varanasi, in India.

Inevitabilmente molte sue canzoni, in particolare quelle tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, scavano nelle sue convinzioni religiose. In Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band trova spazio Within You Without You, nella quale per la prima volta affronta il tema del rapporto con la legge divina: “Parlavamo / Dello spazio tra tutti noi / E della gente / Che si nasconde dietro un muro di illusione / Non intravede mai la verità / Poi è troppo tardi / Quanto va nell’aldilà”. Nei versi successivi il misticismo si sposa all’utopismo tipico dell’epoca: “Parlavamo / Dell’amore che tutti potremmo condividere / Quando lo troviamo / Bisogna fare del nostro meglio per tenerlo lì / Col nostro amore / Potremmo salvare il mondo”. In Long Long Long (dal White Album) invece si rivolge a Dio chiedendogli perdono per averlo perso di vista per tanto tempo: “È stato un lungo lungo lungo tempo / Come ho potuto mai perderti / Quando ti amavo / C’è voluto un lungo lungo lungo tempo tempo / Ora sono così felice di averti ritrovato / Come ti amo”.

Il brano più celebre è My Sweet Lord, un’invocazione a un Dio inteso come essere superiore e non ad Allah piuttosto che il Dio cristiano. Specificità ribadita in Life Itself (da Somewhere In England): “Ti chiamano Cristo, Vsnv, Buddha, Geova / Il nostro Signore / Tu sei Govindan, Bismillah / Creatore di tutto / Tu se l’unico / Non importa cosa”. E, se qualcuno aveva ancora dei dubbi, in occasione dei concerti giapponesi del 1991, Harrison ha ribadito il concetto: nel coro di My Sweet Lord elencava tutti i nomi con cui gli uomini si riferiscono a Dio. “Volevo dimostrare”, scrive nella sua autobiografia I Me Mine al proposito di My Sweet Lord, “che Halleluja e Hare Krisna sono la stessa cosa. Cantavo Halleluja prima di passare a Hare Krisna, così le persone avrebbero cantato il Maha Mantra prima di capire cosa stesse succedendo”. Altrettanto espliciti i versi di Awaiting On You All (da All Things Must Pass): “Non hai bisogno di un oroscopo o di un microscopio / Per vedere la confusione in cui vivi / Se apri il tuo cuore / Vedrai quello che voglio dire / Sei stato corrotto per molto tempo / Ma qui c’è una via per uscirne / Cantando i nomi del Signore / Tu sarai libero”.

Ancora “i nomi del Signore” e non un Dio in particolare: Harrison travalica le diverse religioni per concentrarsi sulla divinità superiore alla quale ispirarsi per migliorare la propria esistenza e per trovare il senso profondo della vita. Per lui, infatti, le dottrine orientali rivestono il ruolo di un rifugio. Travolto da un successo che, al pari degli altri Beatles, cercava ma non poteva immaginare così isterico, George nella seconda metà degli anni 60 trova nella religiosità una via per mantenere un equilibrio interiore. Un aspetto importante che gli permetterà di attraversare senza eccessivi traumi e senza cercare consolazione in falsi paradisi (le droghe pesanti e l’alcol) il successo dei Beatles, la loro fine, la popolarità solista nei primi anni 70 e il suo veloce scemare.

Il disco nel quale il credo di Harrison si riversa maggiormente nelle liriche è Living In The Material World del 1973. Il brano The Lord Loves The One (That Loves The Lord) è il più emblematico circa le sue convinzioni: “Le cose per cui la maggior parte delle persone lotta”, si legge in I Me Mine a proposito del brano, “sono la fama, la ricchezza, il benessere, la posizione sociale: sono le più comuni ambizioni della vita, ma nessuna di queste è importante perché alla fine la morte ci porterà via tutto. Così si passa la vita a lottare per qualcosa che è una perdita di tempo”. Parole scritte da un trentenne che aveva fama e ricchezza in abbondanza. Ma la contraddizione raggiunge l’apice nel brano Living In The Material World: “Sono condannato al mondo materiale / Sono frustrato dal mondo materiale / I sensi non sono mai gratificati / Si ingrossano come un’onda / Che può farmi affogare nel mondo materiale”, per poi giungere all’unica via di salvezza: “Io prego, sì io prego per non perdermi o smarrirmi / (.) Vivo in un mondo materiale / Spero di uscire da questo posto / Attraverso la grazia del Lord Sri Krsna”.

La contraddizione di fondo era affrontata (senza una soluzione però) da Harrison all’interno della copertina del disco, dove immagini religiose si alternano ad altre che non fanno mistero della ‘materialità’ della sua ricchezza. La religiosità di Harrison si esprime e concretizza nel suo modo di affrontare lo stile di vita occidentale cercando un equilibrio interiore nella spiritualità. Non si tratta quindi di una scelta estrema come quelle di Cat Stevens, che ha abbracciato l’Islam rinnegando il passato, o di Leonard Cohen, che ha trascorso alcuni anni in un monastero buddista. Rimane comunque un sentimento fervente che, in ogni caso, non gli ha impedito di finanziare il film dei Monty Python Life Of Brian (in italiano Brian di Nazareth, una visione consigliata a chiunque), che usa l’arma feroce dell’ironia per mettere alla berlina il concetto stesso di religione.

Nelle sue canzoni non mancano la satira e la critica sociale, ma non troviamo nulla di urlato, nessuno slogan: solo testi da leggere con attenzione. Uno dei più espliciti è Piggies, incluso nel White Album dei Beatles, nel quale, attraverso l’allegoria dei maiali, mette alla berlina l’avidità borghese e i governi (a prescindere dalla loro ideologia) che si preoccupano solo del potere per il potere, senza interessarsi alle conseguenze: “Scoprirete che i porcellini più grandi / Che smuovono il fango / Hanno sempre camicie pulite con cui giocare / Nei loro cortili con tutto il seguito / Non si preoccupano di quello che succede intorno”. Harrison aveva scritto un verso non incluso nel White Album ma estremamente pungente: “Ci sono ovunque moltissimi porcellini / Che fanno scherzi da porci / Puoi vederli sulle loro zampette / Alle banche porcine / Versare ringraziamenti porcini / A te fratello porco”.

Anche in The Day The World Gets ‘Round (da Living In The Material World) si affaccia una critica per i governanti di tutto il mondo: “L’intero problema (della povertà, nda) e del come risolverlo sta nel potere dei governi e dei leader mondiali”, ha scritto in I Me Mine commentando il brano. “Hanno le risorse, il cibo, i soldi e le ricchezze necessarie per due volte la popolazione mondiale, ma preferiscono sperperare in armi e altri oggetti che distruggono la razza umana”. Sempre a proposito della canzone, scritta dopo il successo del Concert For Bangla Desh, Harrison ha commentato disilluso: “Penso che sia decisamente una brutta situazione quando alle pop star è chiesto di dare un esempio per risolvere questi tipi di problemi (umanitari, nda)”. Ciò nonostante ha continuato a interessarsi ad attività benefiche, che hanno sortito anche un disco, Nobody’s child – Rumanian Angel Appeal (pubblicato nel 1990 con contributi di molte rockstar che hanno offerto le proprie canzoni) pubblicato per raccogliere fondi a favore degli orfani rumeni che, dopo il crollo del regime comunista, versavano in stato di totale indigenza.

L’interesse di Harrison si è rivolto, a partire dagli anni 80, anche alla salvaguardia dell’ambiente: Save The World (da Somewhere In England) è il suo grido di allarme per la situazione del pianeta, rovinato da troppi interessi economici: “Dobbiamo salvare il mondo / Qualcun altro vorrebbe poterlo usare / (.) Questo pianeta è violentato / Qualcuno ne ha abusato / Dobbiamo salvare il mondo / Siamo alla mercé di pochi / Con il diavolo nel cuore e determinati / A ridurre questo pianeta in un inferno / Per poi trovare un acquirente e concludere una veloce vendita”.

Ma il brano che rappresenta la summa del pensiero di Harrison è Cockamamie Business (un inedito incluso nel greatest hits Best Of Dark Horse 1976-1989): George canta la sua disillusione per il music business, per lo stile di vita stressante dell’occidente, per la distruzione in atto nel pianeta. Il tutto descritto attraverso una secca relazione causa/effetto, senza esprimere giudizi di sorta, anche se la valutazione negativa è implicita: “Ci piace l’aria condizionata / Nonostante l’aria non abbia più l’anello di ozono / (.) Stanno abbattendo le foreste / Per McDonalds e Burger King”.

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Didn’t Want To Be A Star

In mezzo alle diverse sfaccettature della complessa personalità di Harrison per coglierne l’aspetto saliente basta forse leggere le ultime righe di Cockamamie Business: “Didn’t want to be a star / Wanted just to play guitar”, non volevo essere una star, ma solamente suonare la chitarra.

La passione e l’abilità nel suonare la chitarra gli hanno spalancato le porte nei Beatles e gli hanno permesso di lasciare un marchio indelebile nella storia del rock, un’impronta che si può cercare non solo nei suoi dischi, ma anche in quelli di molte altre rockstar. Non assillato dalla ricerca del successo e delle luci dei riflettori, e poco propenso a esporsi in prima persona, si divertiva a suonare con musicisti di diversa estrazione. Una passione che andava al di là dell’importanza del musicista che chiedeva l’aiuto di Harrison: la sua chitarra appare in un disco dei Cream (Goodbye) come in quello degli sconosciuti Rubyhorse (la sua slide guitar si può ascoltare nel brano Punch Drunk). Da questo particolare si evince quanto sia stata vasta la sua attività come session man di lusso, segno della stima nutrita nei suoi confronti da molti musicisti, così come sono molti quelli che suonano nei suoi dischi. Un’attività sotterranea, che in un’occasione si è trasformata in uno dei più grandi super gruppi della storia del rock, i Traveling Wilburys (vedi box a pag. 40).

Infine Portrait Of A Leg End. Quello che quotidiani e telegiornali hanno strillato come disco misterioso, in realtà era stato annunciato più di un anno fa da Harrison in alcune interviste. Portrait Of A Leg End (con il gioco di parole tra “leggenda” e “fine della gamba”) è stato inciso quasi interamente da George (che ha suonato la maggior parte degli strumenti, coinvolgendo Jim Keltner per le parti di batteria) negli studi casalinghi di Friar Park. In occasione di un’intervista con Billboard, Harrison aveva affermato di avere a disposizione canzoni sufficienti per tre dischi. Per ora sono circolati alcuni titoli, da prendere però con il beneficio del dubbio: Valentine, Brainwashed, Pisces Fish. Aspettiamo con fiducia. Nel frattempo è già stata annunciata la ristampa del 45 giri My Sweet Lord, con gli incassi che saranno devoluti in beneficenza. Al momento di chiudere il giornale non si hanno altri particolari.

Finite le celebrazioni sui giornali, per ricordare George Harrison rimarrà la musica: ascoltare i suoi dischi, da solo o con i Beatles, sarà il modo migliore per tenere via la sua memoria. Caro George, non proprio “tutto deve passare”. Le belle canzoni restano per sempre.

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