28/11/2008

GRATEFUL DEAD

ROCK SOTTO LE PIRAMIDI

C’è un’immagine che più di altre sintetizza il viaggio e i concerti dei Grateful Dead in Egitto. È quella di Ken Kesey e dei deadhead (gli aficionados della band) sulla vetta della grande piramide di Cheope. La scalano nel pomeriggio del 14 settembre 1978, quello che precede il primo concerto, per piazzarvi sulla cima la bandiera del gruppo: l’inconfondibile Skull & Lightnin’, un drappo bianco con su un teschio stilizzato, colorato di rosso e di blu, squarciato da un lampo di luce. «Wave that flag, wave it wide and high», cantano i Dead nel brano US Blues: «Sventola quella bandiera, spiegala alta e larga». La piramide, sintesi mirabile della cultura, del fascino e del mistero dell’antico Egitto; la bandiera simbolo della più grande concert band di tutti i tempi, i Grateful Dead, anch’essi coagulo irripetibile di un universo, quello della musica americana, capaci di fondere rock, country, blues, jazz, rock’n’roll, bluegrass e folk in una miscela unica nel suo genere. «Non sono i migliori in quello che fanno ma sono gli unici a fare ciò che fanno», aveva detto di loro Bill Graham, il grande impresario rock, amico del gruppo che seguirà la band anche nell’avventura desertica. Infine Ken Kesey, autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, ispiratore degli acid test, grandi feste psichedeliche a base di musica e allucinogeni. Kesey e i suoi amici, come Paul Krassner dei Merry Pranksters, e i deadhead, tutti insieme, un’altra grande sintesi, quella della controcultura americana,che unisce i miti letterari della beat generation, le rivolte nei campus universitari, le teorie lisergiche del professor Timothy Leary, gli hippy e gli hobo, Neal Cassady e Woody Guthrie, Jack Kerouac e Bob Dylan, le coffee house di San Francisco e quelle del Greenwich Village di New York. Due mondi quindi, quello antico e quello moderno, che si toccano per una scintilla di tempo. «Cosmic connection», dirà Jerry Garcia, anima della band, col suo consueto e visionario linguaggio. «Una prima assoluta negli annali della musica moderna, un capitolo unico nelle storiche relazioni d’amicizia tra egiziani e americani», scriverà allo stesso Garcia l’ambasciatore del Cairo negli Usa, Ashraf Ghorbal. Un evento storico, quello musicale, idealmente collegato a un’altra cosmic connection che vede insieme americani ed egiziani. Proprio in quei giorni, il 17 settembre 1978, con la mediazione del presidente americano Jimmy Carter, il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin sottoscrivono gli accordi di Camp David con i quali si mette fine alla guerra del Kippur iniziata nel 1973.

Quella di un concerto ai piedi delle piramidi era un’idea che balenava da tempo nella testa dei Dead fino a quando, nel settembre 1978, il sogno della band diventa realtà. In quel mese, nei giorni 14, 15 e 16, i Grateful Dead si esibiscono in tre spettacoli al Sound And Light Theatre di Giza in Egitto, alle spalle delle tre piramidi di Cheope, Kefren e Micerino e sotto lo sguardo enigmatico della Sfinge. A incrementare il fascino, il mistero e la magia, la terza sera un’eclissi totale di luna piomba, attesa, a inizio concerto. Sono tre performance storiche, quelle della band californiana, non tanto per la parte più propriamente musicale, buona ma non eccelsa per gli standard dei Dead in quel periodo, ma per quella sperimentale del viaggio, condensata nel tentativo di trarre dalla speciale location una rinnovata ispirazione musicale. Lodevole, ancorché bizzarra, l’idea della band di utilizzare la camera mortuaria del Faraone come speciale camera d’eco e parte del loro imponente sistema di amplificazione. Attraverso un complesso sistema di cavi e microfoni, il suono sarebbe stato “trasportato” nel grande antro funerario e poi riversato all’esterno, nel teatro della Sfinge. Erano convinti i Dead, e anche i loro ingegneri del suono, che questo esperimento avrebbe consentito di impreziosire la musica con un singolare effetto eco. L’eco del passato, dell’ignoto, del regno di Iside e Osiride? Sta di fatto che il tentativo, per le indubbie difficoltà tecniche, riuscì solo a metà, come documenta anche il recente Rocking The Cradle: Egypt 1978, doppio cd con allegato dvd edito dalla Rhino Records. Il suono di quelle tre notti settembrine, nella potenza e nella qualità, risulterà inferiore alle attese, e di eco e misteri del passato se ne sentiranno in realtà pochi. Ciò, però, non tolse un’incredibile suggestione all’evento, impatto emotivo di cui è intrisa la musica suonata in quei giorni. Tre spettacoli unici nella lunghissima carriera dei Grateful Dead che si segnalano per la strana energia che li sostiene. L’energia e la suggestione dei luoghi, quelli sì, stanno tutti dentro ai brani e alle immagini ora disponibili. Di quei tre concerti esistono molte e più estese versioni in bootleg, a cominciare dal primo dedicato agli show egiziani, quel From Egypt With Love edito da bootlegger italiani.

Ma facciamo un passo indietro e ricostruiamo la genesi di quello che fu un vero cammeo nella trentennale saga dei Grateful Dead. L’idea, il sogno di suonare ai piedi delle piramidi si affaccia nel circuito della band sin dalla fine degli anni 60. Nel 1975 il gruppo realizza uno dei dischi più complessi della propria produzione in studio, Blues For Allah, che in sé già contiene dei forti richiami arabeggianti: indubbiamente nella grafica di copertina e altrettanto nella enigmatica title track, il cui titolo completo è Blues For Allah (Sand Castles And Glass Camels Unusual Occurrences In The Desert). È soltanto nel 1978, però, che l’idea comincia a concretizzarsi quando Richard Loren, all’epoca manager dei Dead, di rientro da un viaggio esplorativo in Egitto, mostra al gruppo alcune foto del Sound & Light Theatre, location decisamente adatta al progetto. Alle spalle del possibile palcoscenico le piramidi che si stagliano alte sullo sfondo e conferiscono a quel posto una dimensione quasi irreale, metafisica. Trovato il posto, però, comincia una maratona burocratica superata grazie agli sforzi del bassista dei Dead, Phil Lesh, dello stesso Loren e di Alan Trist, business manager del gruppo. La prima tappa è l’ambasciata egiziana a Washington dove, ovviamente, i funzionari cercano di capire il fine di quello strambo (ai loro occhi) progetto. «Volete portare con voi tonnellate di amplificatori e centinaia di persone al seguito?», dice stupefatto l’ambasciatore Ashraf Ghorbal. «Certo» gli risponde Lesh «ma pagheremo tutto noi e doneremo i proventi dei concerti in beneficenza, magari al dipartimento egiziano per le antichità». La risposta convince il diplomatico: il primo passo è fatto. Il secondo è col governo americano, al Dipartimento di stato, dove c’è da superare la fama di pazzoidi che la band si porta dietro. «I Grateful Dead» dicono i tre negoziatori «sono ambasciatori di cultura che portano, in segno di amicizia, la musica dei giovani americani in una travagliata regione. Lo scambio culturale è un contributo alla comprensione e una via alla pace tra le nazioni». Secondo ostacolo superato. Il terzo, e ultimo, è quello del Ministero della cultura egiziano. Lesh, Loren e Trist volano in Egitto – è l’estate del ’78 – e qui incontrano il ministro Saad ed Din. «Per quale ragione volete suonare ai piedi delle piramidi?», chiede il capo del dicastero culturale. Efficace e studiata la risposta di Lesh: «Nel corso degli anni abbiamo suonato per genti diverse in posti diversi e abbiamo capito che è il contesto a fare la differenza. Come musicisti, dediti principalmente all’attività concertistica, questo è per noi un tema di grande interesse. Siamo sicuri che non esista al mondo un posto con un’ispirazione più grande di quella che possono dare le piramidi». A quel punto fiorisce un sorriso sulle labbra del ministro: autorizzazione concessa.

Sono i primi di settembre del 1978 quando arrivano in Egitto, via Europa con trasbordo a Londra, 25 tonnellate di amplificazione. Uno sforzo erculeo. Subito, a ruota, il giorno 6 arriva la crew della band per l’allestimento del palco e del sound system. È poi la volta dei Grateful Dead. Il gruppo arriva in Egitto accompagnato da Ken Kesey e Bill Graham. «Abbiamo fatto cose buone» dirà Garcia al ritorno negli States «e gli egiziani si sono innamorati degli hippy». Buone cose, dice quello che è il vero “morto riconoscente”, Jerry Garcia. E le cose buone cominciano proprio con le note di good ol’ Jerry, nascosto dietro l’amplificazione. È la prima notte, 14 settembre ’78, buio sul palco, sullo sfondo il disegno delle piramidi scontornato dai bagliori lontani della città. Su di un lato, nell’oscurità, il profilo indecifrabile della Sfinge. Luci spente e musica. Dal palco arrivano le prime note, quelle ipnotiche di un gruppo di performer nubiani, il Cairo Youth Choir, che accompagnano Hamza El-Din, versatile musicista egiziano e gran suonatore di liuto e percussioni. Ai suoni mesmerizzanti degli egiziani si aggiunge, prima lentamente, poi sempre più insistente e anch’esso ipnotico, il fraseggio della chitarra di Garcia. Le luci si accendono sul palco, sul pubblico scatenato dei deadhead, sugli indigeni sorpresi da tutto quello che sta accadendo. Le luci si accendono su una delle più grandi traveling band di tutti i tempi, i Grateful Dead, che si presenta nella tipica line up degli anni 70: Jerry Garcia (voce e chitarra solista), Bob Weir (voce e chitarra ritmica), Phil Lesh (basso), Bill Kreutzmann e Mickey Hart (batterie e percussioni), Keith Godchaux (voce e tastiere), Donna Jean Godchaux (voce e cori).
Ollin Arageed, è il pezzo degli egiziani che apre la prima delle serate. Si aggiungono ai nubiani, man mano che la musica prosegue, tutti i componenti la band facendo delle sonorità arabe una potente intro a una ispirata Not Fade Away, classico di Buddy Holly. In poche battute cala d’un tratto la musica americana in terra d’Egitto. Purtroppo le difficoltà tecniche della prima sera hanno inciso notevolmente sulla qualità delle registrazioni. Decisamente migliori, sul piano del suono, la seconda e la terza sera. Ollin Arageed, la jam con gli egiziani, apre anche la seconda serata e stavolta si fonde con Promised Land (Chuck Berry) seguita da Friend Of The Devil, tre brani che rappresentano gli episodi migliori del primo set. La terza sera, infine, che è la più bella. La band è entrata ormai in sintonia con persone e luoghi, con le piramidi e con quegli egiziani che «pur non capendo le parole» come disse Bill Kreutzmann «erano tutti in piedi a ballare dentro i loro costumi». È da questo show che il nuovo cd attinge la maggior parte dei pezzi. «Remember! Play in tune», sussurra Garcia agli altri prima che la musica parta. «A rare and different tune», un tono raro e diverso, come dice in Terrapin Station un bel verso di Robert Hunter, il paroliere della band e alter ego di Garcia. La terza è anche la sera dell’eclissi totale di luna, un evento nell’evento, appositamente cercato dal manager Richard Loren. Quella luna, sulla quale altri americani erano sbarcati nove anni prima che i Dead sbarcassero in Egitto, sparisce nell’ombra della terra nel momento esatto in cui la band inizia a suonare e gli egiziani cominciano a scrollare lattine piene di ghiaccio, quasi in un rito dal sapore apotropaico. La luna, altro mito americano, quella dell’Apollo 11, riappare sulle note di una sognante Ramble On Rose purtroppo non inclusa nel disco che oggi, ufficialmente, racconta di quei concerti. La terza sera è anche l’occasione per richiamare sul palco l’indimenticato e indimenticabile Pig Pen, anima blues del gruppo, morto già da cinque anni e che, per un attimo, torna nelle note di Good Lovin’, preceduta da una grande versione di Bertha. Ad aprire la seconda parte è la versione di Ollin Aragged contenuta nel disco concatenata a Fire On The Mountain, la martellante Iko Iko, classico tratto dal repertorio musicale di New Orleans. Chiude il concerto e l’avventura musicale egiziana il brano One More Saturday Night. Un altro sabato notte. Un sabato notte unico quello che congeda la musica dei Dead dal deserto.

La band resterà, dopo gli show, ancora una settimana in Egitto, alla scoperta di un universo fantastico e lontano dall’America. Nel dvd allegato al disco c’è un reportage di questo soggiorno: The Vacation Tape. Ci sono, sempre nella parte dedicata alle immagini anche i brani Bertha e Good Lovin’ non contenuti nei dischi. Le immagini, poco più che amatoriali, sono però efficaci per documentare l’atmosfera magica ed euforica di quei giorni e di quei concerti. I Grateful Dead si esibiranno, dopo l’Egitto, per cinque consecutive serate al Winterland di San Francisco oggi disponibili nel cd From Egypt With Love. Dall’Egitto al Winterland, con amore. Quell’anno, il 1978, i Dead lo concluderanno proprio all’ex palazzo del ghiaccio di San Francisco che il 31 dicembre chiuderà per sempre i battenti. Farewell To Winterland, addio al Winterland, è il titolo del bootleg più conosciuto della band, quello che celebra il concerto forse più bello e ispirato dei Grateful Dead. Quella notte di fine anno 1978, anno magico per la band, c’erano insieme ai nostri anche i Blues Brothers, i New Riders Of The Purple Sage, il leggendario e indimenticabile John Cipollina dei Quicksilver Messenger Service. C’erano, al Winterland, anche gli amici di sempre: Ken Kesey e Bill Graham. Oggi che Jerry Garcia (cuore e mente dei Grateful Dead), Ken Kesey e Bill Graham sono nuovamente insieme, in un altro spazio e in un altro tempo, il cerchio è chiuso. C’è scritto, nel libro egiziano dei morti: «Ora noi restituiamo le nostre anime al Creatore e quando saremo sulla vetta del buio eterno lasciate che il nostro canto riempia il vuoto affinché gli altri possano saperlo: nella terra della notte la Nave del Sole è condotta dal Morto Riconoscente».
La saga musicale di San Francisco continua a vivere: nel cuore di chi resta.

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