09/12/2010

IAN CURTIS

1980-2010 La coscienza tormentata del post punk

È la voce di John Peel, statica e cupa, a lacerare le frequenze di Bbc Radio 1 durante la sua trasmissione del lunedì: «Pessime notizie, ragazzi. Ian Curtis dei Joy Division è appena morto». Nelle prime ore del 18 maggio 1980, il poeta del gruppo di Manchester compie il gesto estremo di liberazione e sofferenza: è l’alba quando una corda spezza la sua esistenza e pone fine alle inquietudini che turbinano confuse nella sua mente. Sino a quell’istante, una miriade di ombre ha offuscato una personalità forse troppo fragile per la sua stessa grandezza, lasciando solo una data a segnare la fine di una vita terrena e, suo malgrado, l’inizio del mito di un artista e della sua opera.
Nell’arco di pochi mesi, la pressione di una band ormai consacrata alla straordinaria rivoluzione musicale intrapresa lo travolge, catalizzata dall’approssimarsi del primo tour oltreoceano e di un potenziale contratto milionario. Sempre più insidiosa poi, la malattia tormenta le sue performance mentre la vita sentimentale gli sfugge di mano giorno dopo giorno. Sino a quella domenica di primavera, Curtis affronta in prima linea le inquietudini che affollano la sua anima, racchiudendole in versi e trascinandole sul palco, tra le scosse epilettiche che lo lasciano spossato sempre più di frequente, mentre il naufragio del matrimonio con Deborah, dalla quale ha avuto la piccola Natalie, e la relazione con l’affascinante belga Annik Honoré, conosciuta durante un concerto al Plan K di Bruxelles, non fanno che straziare il suo cuore.
Poi, il silenzio e l’inizio della leggenda.

Quell’ultima notte, Ian è solo.
Nella casa al 77 di Barton Street a Macclesfield, a una ventina di chilometri da Manchester, solo le note di The Idiot di Iggy Pop fendono il silenzio, scortate dal fruscio della puntina sul vinile esausto. Il musicista ha rivisto per l’ultima volta la moglie, in procinto di chiedere il divorzio, e le ha scritto una lettera, ha fumato e bevuto molto caffè e whisky. Ricorda ancora le immagini del film La ballata di Stroszek, di Werner Herzog, guardato poche ore prima: il protagonista, un musicista esiliato da una società che non lo accetta, si uccide anziché sopportare il peso di un’esistenza lacerante.
Quando Deborah rincasa, come racconterà molti anni più tardi nella biografia Così vicino, così lontano, l’atmosfera è cristallizzata nel silenzio, persino l’odore del tabacco si è dissolto e ha lasciato posto al vuoto. Nei pochi istanti che precedono il crollo di un intero universo, l’illusione è che il frontman dei Joy Division abbia lasciato la casa e raggiunto il resto della band verso l’inizio di una nuova era, inaugurata dallo sbarco negli Stati Uniti. Ma le cose andranno ben diversamente. Ian è lì, immobile, il corpo inerte poggiato poco distante dalla lavatrice, la corda della rastrelliera per il bucato stretta intorno al collo in una presa mortale. La sua vita finisce così, non ancora ventiquattrenne, nella solitudine e nel silenzio di una domenica mattina colmata da rabbia impotente, incredulità e sbigottimento di chi gli è stato accanto e di quanti hanno avuto la fortuna di apprezzare la sua arte e la sua sensibilità fuori del comune.
Per quanto la rottura sia stata tanto brusca e inaspettata, la memoria non può che tornare alla spirale di eventi che l’hanno preceduta in modo sempre più frenetico, e che in pochi anni sembra aver raggiunto un punto di non ritorno drammaticamente descritto nei versi del brano In A Lonely Place: «La corda si tende e poi si spezza. Un giorno moriremo nei vostri sogni. Come vorrei tu fossi qui con me ora».

La storia umana e artistica di Ian Curtis e dei Joy Division, del resto, non è mai stata lineare sin dal giorno in cui Bernard Sumner, Peter Hook e Stephen Morris (ultimo ingresso nella line up e originario della non più amena Salford) consacrano il proprio sodalizio, affidando a quel tipo pallido ed emaciato, che si nutre avidamente di riviste specializzate e di musica malinconica e ribelle, il ruolo di cantante. Questi è Ian Kevin Curtis, nato il 15 luglio del 1956, che si distingue sia per la sua naturale propensione alla lettura sia per i gusti eccentrici, con una spiccata propensione per tutto quanto è tinto di anticonformismo. Basti pensare a quando, ancora adolescente e col visto delle buone maniere, s’intrufola nelle case di anziane signore per sgraffignare farmaci e testarne gli effetti allucinogeni. Accanto al lato più borderline, compare poi il giovane uomo che lavora in un centro per l’impiego sino a che gli impegni con la band lo consentono. Proprio in questo contesto, conosce una ragazza epilettica che non sopravvivrà a un attacco, la quale pare aver ispirato i versi di She’s Lost Control.
Proprio l’epilessia sarà un punto cardine nella vicenda dell’artista. Diagnosticata un anno prima della scomparsa, per una melodrammatica fatalità proprio quando la foto di Curtis, trench nero e sigaretta tra le dita, troneggia sulla copertina di NME, lo affligge sino all’ultima notte. E i farmaci per contrastarla, in unione velenosa con alcol e stress, non sembrano che minare ancor più il fisico e la mente dell’artista. Persino durante l’ultimo concerto, il 2 maggio alla High Ball di Birmingham, il cantante finisce sconvolto a terra tra sussulti che sembrano dover spezzare le sue membra a ogni millesimo di secondo. Se nessuno può sapere esattamente cosa abbia comportato l’insorgere della malattia, è facile notare come i suoi disastrosi effetti siano stati tangibili, e non solo durante le performance. «I barbiturici ti cambiano la personalità, perdi il senso della realtà», ha dichiarato Viny Reilly, cantante dei Durutti Column nonché grande amico di Curtis. «È questo che gli accadde e lui si allontanò sempre di più, oltre il punto di non ritorno».
Negli ultimi mesi, sempre di più la sua intera esistenza appare fuori controllo, tanto da fargli tentare il suicidio già un mese prima della morte, con un’overdose di fenobarbital. Tuttavia, viene salvato e rimesso sul palco subito dopo la breve degenza ospedaliera. Gli ultimi concerti vedono i Joy Division suonare anche due o tre volte a sera, ma accade che Curtis non porti a termine lo show, sostituito da altri artisti come Alan Hempsall dei Crispy Ambulance e Simon Topping degli A Certain Ratio, che costringa a posticipare il concerto o che, per sedare una vera e propria insurrezione popolare, si esibisca ugualmente, come durante una data al Factory Club nella quale, allo stremo delle forze, riesce a malapena ad eseguire Atrocity Exhibition. In tutto questo, urgono i preparativi per il video promozionale di Love Will Tear Us Apart, mentre le crisi comiziali da rituale catartico diventano vera e propria morsa letale.

Nonostante fisico e psiche minati da veleni, chimici ed esistenziali, e ritmi incessanti, Ian Curtis è descritto da più parti come una persona tutt’altro che ostile, anzi dai modi sempre accomodanti. La sua natura riservata può aver contribuito al suo esponenziale isolamento, ma quel che resta è il suo ineguagliabile contributo artistico.
Insieme ad alcuni demo del 1977, il brano At A Later Date, nella compilation Short Circuit – Live At The Electric Circus sancisce l’inizio ufficiale del groviglio inestricabile tra arte e vita dell’artista e della sua band, che all’epoca porta ancora il nome di Warsaw, omaggio a un brano del David Bowie berlinese di Low. È l’omonimia con un gruppo esordiente di Londra a spingere i quattro verso la «divisione della gioia», ispirandosi al romanzo La casa delle bambole di Yehiel De-Nur e alle descrizioni delle baracche dove, nei campi di sterminio, venivano rinchiuse le fanciulle rese poi schiave dei militari.
La formazione con il nuovo nome è battezzata dal vivo nel gennaio del 1978 e da quel giorno l’attività live è intensa e costante, con un seguito sempre più denso di appassionati e fedeli. Tra questi, Robert Gretton, giornalista di NME e ben presto manager dei quattro, scrive: «Gli altri gruppi salivano sul palco perché volevano essere musicisti, ma i Joy Division stavano lì perché avevano qualcosa da dire». Opinione condivisa ben presto da un altro personaggio fondamentale nella storia: Tony Wilson, futuro deus ex machina della Factory Records. Proprio a quest’ultimo si deve la prima esibizione televisiva del gruppo, nelle ormai leggendarie registrazioni di Shadowplay per la Granada Tv, presso la quale Wilson conduce il programma musicale What’s On. Ma è l’anno successivo a rappresentare la chiave di volta, non solo con la registrazione delle prime session per John Peel, ma anche per il debutto discografico ufficiale con Unknown Pleasures. Con il primo lp gli impegni si fanno sempre più incalzanti: la band sbarca sul continente con un minitour, pubblica vari singoli e, nella primavera del 1980, si trasferisce ai Britannia Row Studios di Londra, già occupati dai Pink Floyd, per le registrazioni del secondo album Closer, disco diametralmente diverso rispetto al debutto, vero e proprio specchio della parabola esistenziale dell’autore dei versi.
Ciò che trafigge già i contemporanei è l’intensità trasmessa da Curtis e dai Joy Division, un’energia che sembra raschiare nell’anima le emozioni più profonde, senza ricorrere agli eccessi dirompenti del punk e dell’hard rock. Un impeto che prende origine da elementi tangibili, come la staticità scenica, sconvolta dalle reazioni improvvise e compulsive del frontman (dai balletti meccanici ai reali spasmi), il palpitare ipnotico e ossessivo della sezione ritmica, i delay e gli echi delle chitarre, le sperimentazioni con le sonorità meccaniche del sintetizzatore. La combinazione alchemica di queste entità li trasforma in archetipi di molta musica a venire, dai quali è impossibile prescindere nonostante la discografia tanto breve e disarticolata. Il patrimonio dei Joy Division è costituito infatti dai due album, il secondo dei quali pubblicato postumo, ornati da una manciata di singoli ed ep, con circa un centinaio di esibizioni live tra Regno Unito, Olanda, Belgio e Germania, alcune delle quali vere e proprie rarità immortalate su nastri audio e video.
Dei dischi, Unknown Pleasures è un’opera prima di eccezionale importanza: è la sintesi del punk che ha ispirato i Warsaw, in perfetto e quasi antitetico equilibrio con le melodie oscure e le ritmiche avvolgenti. Già dai primi solchi con Disorder emergono gli elementi chiave della musica della band, tra la voce abissale e magnetica di Curtis, le chitarre algide e l’intreccio ritmico ipnotico. Versi di decadenza post industriale, combinati con atmosfere oscure e sinuose, non sono che l’inizio. Ancor più che nell’album di debutto, è Closer a manifestare in modo compiuto l’estetica dei Joy Division, rallentando i ritmi e condensando atmosfere fumose. Se il primo album è infatti più coerente nelle strutture, questo lavoro lascia in certi punti la sensazione di essere meno levigato e definito, parte inestimabile del suo stesso fascino e dell’impalpabilità delle sensazioni descritte. I testi subiscono una definitiva virata intimistica, chiudendosi nella desolazione dell’individuo, tra gli alberi spogli di The Eternal e l’innocenza ormai perduta di Twenty Four Hours, le linee melodiche frenano, l’attenzione al suono è chiusura ulteriore verso una realtà sempre più ostile, mentre Curtis canta in Passover, peraltro accendendo le domande tardive se i suoi testi fossero o meno una tacita richiesta di aiuto: «Questa è una crisi che sapevo doveva arrivare. Demolendo l’equilibrio che avevo mantenuto. In dubbio, sconvolto e volubile. Incerto su ciò che verrà dopo. È questo il ruolo che volevi vivere? Sono stato sciocco a chiedere tanto. Privo di protezione e nutrice. Crolla tutto al primo contatto». Un ulteriore ed eloquente contrasto emerge poi tra le stesse copertine, opera di Peter Saville: se la prima raffigura infatti uno schema degli impulsi del collasso di un corpo astrale, la seconda ritrae un’immagine in bianco e nero della tomba Appiani, presso il cimitero genovese di Staglieno.
«La strana contraddizione dei Joy Division è che era divertente essere in quella band. Abbiamo fatto un sacco di buffonate, ci siamo divertiti. Ma credo che ognuno abbia almeno due lati della propria personalità, e la musica riflette l’altro aspetto. Con Ian c’erano sicuramente sempre due ordini del giorno in corso, ma posso solo dirlo con il senno di poi, poiché al momento l’unico indizio per la sua oscurità erano i suoi versi. E noi non abbiamo mai ascoltato i suoi testi», ha dichiarato Sumner lo scorso marzo ad Uncut, a proposito della realizzazione di Closer. «Siamo stati molto una band, ma anche molto poco una band. Mi piace pensare che stessimo tutti in piedi sui nostri piedistalli, senza una fertilizzazione incrociata. Eravamo tutti intenti a fare il nostro disco personale e non ne parlavamo tra di noi. Cosa che immagino abbia contribuito al sound piuttosto insolito che ne è venuto fuori».

Tre decenni più tardi, scrutando con occhio critico l’esperienza dei Joy Division, è possibile individuare una spaccatura evidente con la contemporaneità. Nei cinerei dintorni di Manchester, l’ispirazione di Curtis non si sfoga in ribellione verso un sistema oppressivo: egli conosce W.S. Burroughs e J.G. Ballard, ascolta Lou Reed e i Velvet Underground, scrive poesie. I suoi testi sono solcati da immagini ricorrenti come «morte», «freddo», «isolamento», «fine», «silenzio» e queste parole, insieme alla musica, si addentrano nel senso di solitudine e inquietudine del singolo individuo, lasciando da parte sia l’edulcorato mondo del glam rock sia, ben presto, persino l’irruenza distruttiva del punk, in luogo di una presa di coscienza della condizione d’isolamento e sofferenza, in sintonia tra versi e melodie.
Per questo motivo, insieme ai contenuti, anche le potenzialità musicali vengono spinte più in là, quasi alla provocazione di uno stato ipnotico, a dar voce alle più sottili sfumature della coscienza. Ragione per cui non è possibile considerare i Joy Division una semplice band poggiata sullo scaffale alla voce post punk, ma veri precursori dell’art rock e della new wave. E la sperimentazione si nota anche nella gestione stessa dei brani. È sufficiente una scorsa alle scalette dei concerti per notare la volontà di presentare inediti o brani poco conosciuti mentre, da un punto di vista discografico, gli album principali non contengono i singoli, in luogo di una profonda distinzione tra questi ultimi e gli lp, contro le regole commerciali di allora come di oggi.
Musicalmente parlando, se monoliti come i Sex Pistols impongono ritmi irrefrenabili e distorti e il rock degli anni 70 si presenta carico di sovraincisioni e maestoso, l’atipicità dei Joy Division diventa palese tanto più quanto i ritmi rallentano o, sebbene restino veloci, siano piuttosto magnetici, con atmosfere dilatate e impalpabili come una sottile nebbia. In questo contesto, la solitudine nell’animo del poeta Curtis si unisce ai vuoti e alle sospensioni nelle melodie, ottenuti con gli effetti delle chitarre e la tensione costante della sezione ritmica.
Proprio in sala d’incisione emerge il ruolo cardine del «quinto membro» della band, Martin Hannett. Lo stesso brano Digital reca nel titolo un omaggio all’Ams, delay digitale tra gli ammennicoli preferiti dal produttore e utilizzato per creare i riverberi di una dimensione sonora inedita. Sempre a lui si devono inserti rumoristici, come il vetro infranto di I Remember Nothing, o sperimentazioni più ardite, quali la separazione dei suoni sia dei singoli strumenti sia di parti dello strumento stesso, come per la batteria, che anticipa i loop e gli espedienti delle drum machine che satureranno i dischi degli anni 80.
La vocazione sperimentale, insomma, è più profonda di quanto possa apparire e in studio raggiunge i suoi vertici, come nel caso dei due synth che Sumner si costruisce durante le session di Closer. Tutto questo non fa che stimolare l’effetto alienante del timbro baritonale di Curtis, che canta i propri flussi di coscienza più oscuri. Sul versante dei concerti, d’altro canto, la presenza fisica di Ian è decisiva e riempie con un effetto straniante il senso di sospensione ricreato dalle parti strumentali. La ricerca stilistica e la raffinatezza estetica di melodie e arrangiamenti sono di una precisione assoluta. Proprio su queste strutture metalliche s’insinuano pulsando le visioni di Ian Curtis, facendo di questo contrasto un unicum perfetto.
Anche durante i concerti, tra il sudore e il trasalire nelle crisi fisiche del cantante, l’urgenza espressiva della band non tradisce, come testimonia Martin O’Neill per il volume Io c’ero – I più grandi show della storia del rock: «Feci molte più foto ai Joy Division che agli altri gruppi, quindi già all’epoca doveva esserci qualcosa di speciale in loro», racconta a proposito del concerto al Bowdon Vale Youth Club di Altrincham, nel marzo ‘79. «Appena Ian Curtis cominciò a ballare in quello strano modo mi venne quasi paura. Mi chiedevo cosa ci fosse in lui che non andava. C’è una foto dove guarda dritto nell’obiettivo ma nelle altre sembra perso nel suo mondo, forse erano le medicine. Di sicuro non riusciva a controllare i movimenti visto che non andava quasi mai a tempo con la musica. Molti sotto il palco erano a braccia conserte. Non ricordo ragazzi che ballassero o pogassero, sembravano totalmente sconcertati. Però alla fine di ogni pezzo gli applausi e le urla erano forti, segno che il messaggio stava cominciando ad arrivare».

Se rottura con il passato e travalicamento dei limiti espressivi sono le due caratteristiche che più calamitano nel campo gravitazionale della band, l’eredità dei Joy Division non si esaurisce solamente nel mito e nel culto di un’esperienza che ha raggiunto l’apice con la morte di Ian Curtis.
Da un lato, infatti, il cammino degli altri suoi tre protagonisti continua a scorrere nei New Order, il «nuovo ordine» stabilito da Sumner, Hook e Morris, con il baricentro più spostato verso l’elettronica e la continua volontà di una ricerca espressiva, sebbene differente rispetto a quella intrapresa anni prima. Dall’altro, prima oltremanica e poi in quel continente americano mai toccato da Curtis, il fermento affastellato nel calderone new wave e dark trova nei Joy Division la propria radice, sia nelle atmosfere musicali e poetiche, sia negli spunti di canoni musicali e vocali. Dalla loro esperienza è impossibile non guardare alla filosofia del suono come creatore di atmosfere, lavorare per sottrazione anziché per ridondanza, dare ai testi un lucido e autoanalitico ripiegamento esistenzialista: più che di eredità spirituale o di un insieme di metodologie, ci si trova invischiati in un fluido che s’insinua sottopelle e che fa dell’accenno e della suggestione i suoi punti di forza. La stessa figura di Ian Curtis, legata indissolubilmente al mito romantico dell’artista che si consuma troppo in fretta, assume il ruolo di icona ma ha anche valore intrinseco, per i versi da lui scritti, per il modo di cantare e per il suo tormento.
La musica dei Joy Division appare come uno squarcio su un baratro e probabilmente non ci sono parole migliori che quelle scelte da Jean-Pierre Turmel, creatore dell’etichetta Sordide Sentimental che pubblica il 7” Licht Und Blindheit, contenente le tracce Atmosphere e Dead Souls. Nel dicembre del 1979 scrive che «I Joy Division oltrepassano il semplice intrattenimento e ritrascrivono musicalmente i mondi di penombra e l’intensità dell’estasi. A volte accenti disillusi o nostalgici s’intromettono, perché l’esperienza è multiforme e la sua complessità non può essere tradotta in un concetto unico. Una musica all’incrocio di mondi luminosi e scuri, tra il silenzio e il grido, un ponte tra i simbolismi mistici del passato e del presente».

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