30/10/2013

Jack White

Il nuovo sound di Nashville secondo Jack White. L’ennesima prova del formidabile talento di autore, musicista e arrangiatore del leader dei White Stripes

Inizia con un uomo che cade a pezzi. Letteralmente. Si ritrova senza mani, gambe, orecchie, una metafora di quel che accade quando finisce un amore e la tua ex «porta via una parte di te». Finisce con una preghiera dolcissima: «Portami con te quando te ne andrai, nulla più mi trattiene qui». Inizia coi toni caldi di una tastiera elettrica attraversata dagli spasmi di una chitarra. Finisce con una frase jazzata di pianoforte doppiata dal Rhodes, una frase che rimanda alla versione di My Favorite Things di McCoy Tyner con John Coltrane, una frase che potrebbe andare avanti all’infinito, abbinata a un coro femminile di ammaliante bellezza. In mezzo, altre 11 canzoni che mostrano il formidabile talento di autore, musicista e arrangiatore di Jack White. Uno dei grandi musicisti rock del nostro tempo.

Blunderbuss è il primo album a suo nome. Costruito su timbri sonori di gran gusto, rimanda ai giorni migliori della musica che amiamo senza sembrare passatista o revivalistico. È il trionfo del songwriting di White, in grado di maneggiare con personalità materie rock, country, rhythm & blues. È anche la fotografia di quel che Jack White fa a Nashville, della scena che gira attorno alla sua etichetta, la Third Man Records. Possiede la spontaneità dell’opera registrata praticamente dal vivo e l’accuratezza del lavoro supervisionato da un orecchio infallibile. White avrebbe potuto inciderlo tutto da solo, come aveva ipotizzato in una vecchia intervista. Invece ha chiamato un ampio cast di musicisti amici che lasciano la loro impronta sulle canzoni. Chi ha bisogno dei White Stripes?

Blunderbuss è tenuto insieme dalla personalità artistica dell’autore (che suona chitarre, basso, batteria, pianoforte e Rhodes), ma è godibile anche nei particolari, nei dettagli: il timbro così peculiare della chitarra elettrica in Sixteen Saltines; il back up di Wurlitzer e la delicatezza delle rifiniture di clarinetto di Love Interruption; le armonie trascendentali create dalla pedal steel in Blunderbuss; la ripresa della voce di Jack in Trash Tongue Talker, che rimanda ai dischi dei primissimi anni 70 di John Lennon. E poi la formidabile eleganza del pianoforte di Weep Themselves To Sleep (si sente che la musicista, Brooke Waggoner, ha alle spalle studi classici); lo sferragliare ritmico del mandolino e la punteggiatura del pianoforte in Hip (Eponymous) Poor Boy; la combinazione della voce di Jack con quella delle cantanti ospiti che culmina nel finale di On And On And On. L’assoluta modernità della frase di Rhodes di Missing Pieces e del pattern di batteria di Freedom At 21, ma anche la musica senza tempo della strepitosa I Guess I Should Go To Sleep, suonata con Pokey LaFarge e i suoi South City Three. Ascoltarlo è una gioia.

Metà del disco è dominata da temi amorosi. Il protagonista di Love Interruption chiede un amore tanto intenso da essere doloroso, per imparare dalla sofferenza, quelli di Hypocrital Kiss si scambiano accuse in un continuo e spiazzante cambiamento di punti di vista. Altrove i temi sono più curiosi: il versante razziale del concetto di autenticità nella musica, la responsabilità nell’era di Internet, sogni e allucinazioni. Si va da un inizio pieno di energia – non a caso i pezzi più vicini ai White Stripes nei suoni, nello spirito e in certi riferimenti ai testi sono in apertura – a un finale quasi spirituale, col protagonista di On And On And On che anela all’immutabilità degli oggetti inanimati e quello di Take Me With You When You Go che s’arrende a un sentimento terreno con una tale grazia da far pensare a un «amore supremo». L’unica cover è I’m Shakin’, scritta da Rudy Toombs e interpretata con successo nei primissimi anni 60 da Little Willie John (se ne ricorda anche la versione del 1981 dei Blasters). Jack l’ha portata in studio come esercizio di riscaldamento per la band femminile, la stessa che suona con tanta delicatezza Love Interruption. È nata una versione talmente potente e viscerale da convincere il musicista a includerla nell’album.

Blunderbuss è uno di quei dischi che vi fa dimenticare che forse il rock ha già dato il meglio e che tutto quello che ascoltate è solo la versione scadente di uno stile codificato quarant’anni fa. Siete nati troppo tardi per godervi il meglio dei talenti musicali dei “padri” del rock. Consolatevi: siete contemporanei di Jack White.

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