27/04/2010

JAKOB DYLAN

Women And Country (Columbia / Sony)

«Conosco Jakob da quando era un ragazzino e ho seguito la sua evoluzione artistica con molto interesse. Quando mi ha cantato Nothing But The Whole Wide World ho capito subito che il suo songwriting aveva fatto passi da gigante. Stava scrivendo musica folk… che è un altro modo di guardare alla musica popolare». Parola di T-Bone Burnett, produttore del secondo album solista di Jakob Dylan e fresco vincitore di un Grammy per la colonna sonora del film Crazy Heart.
Evoluzione sembra proprio il termine adatto a descrivere Women And Country: un disco maturo, raffinato, di un’eleganza romantica e oscura, il cui percorso inizia esattamente dal punto in cui si era “fermato” il precedente Seeing Things (2008). Allora Dylan si era affidato a Rick Rubin e ci aveva sorpreso regalandoci una raccolta di piccoli gioielli folk. Quelle canzoni sembravano provenire da una terra lontana, erano diamanti grezzi che raccontavano storie polverose, senza tempo. Jakob, smessi i panni della rockstar e lasciatosi alle spalle l’imponente ombra di Mr. Tambourine Man, sembrava aver trovato il proprio linguaggio abbeverandosi alla fonte della musica popolare americana. Oggi Women And Country bussa alle porte dei nostri padiglioni auricolari presentandosi come l’evoluzione di Seeing Things, la sua più naturale conseguenza, e appare chiaro fin dalle prime note che il percorso iniziato nel 2008 non era un capriccio artistico ma una vera e propria dichiarazione d’intenti. «Mi considero un tradizionalista» dice. «Mi piacciono cose la cui sostanza e il cui valore sono stati comprovati». Jakob ha scelto di usare un linguaggio antico eppure così attuale, traboccante di immagini, suggestioni, saggezza; una lingua forgiata tanto tempo fa ma che oggi, nelle mani giuste, può ancora trasformarsi in una potente arma espressiva. Dylan ha capito che la semplicità è ciò che di più prezioso e complesso esiste a questo mondo e lo dimostra a partire dal titolo del suo nuovo lavoro: «Tutto ciò a cui teniamo è un’estensione delle donne e del nostro paese. Non lo dico come americano, credo sia così in ogni angolo del mondo. Queste sono le cose in cui crediamo e per cui lottiamo, le fondamenta su cui poggiano i nostri desideri, ciò di cui ci prendiamo cura e cerchiamo di proteggere. Io mi muovo all’interno dell’immaginario rurale americano, ma in realtà le donne e la nostra terra sono i punti focali, rappresentano il principio e il fine di ogni nostro sforzo, di ogni nostra azione. Sono convinto dell’importanza di questi concetti… oggi più che mai». Per questo motivo Jakob ha chiesto l’aiuto di un veterano come Burnett per forgiare il suono delle proprie idee; avevano già lavorato fianco a fianco durante la lavorazione di Bringing Down The Horse (1996), ma «a quei tempi il suo non era ancora un meccanismo così ben oliato» dice Dylan. «È facile reclutare bravi musicisti, ma T-Bone è andato oltre, ha coltivato un rapporto speciale con i suoi collaboratori. È in grado di tirare fuori il meglio dalle persone ed è proprio ciò di cui avevo bisogno affinché il disco avesse il suono compatto, naturale e omogeneo di una band affiatata». Registrato a Los Angeles in meno di una settimana, Women And Country avanza compatto, dall’inizio alla fine, attraversando il nostro emisfero come una sorta di perturbazione musicale: la voce di Jakob, sostenuta dalle evocative armonie vocali create ad hoc da Neko Case (New Pornographers) e Kelly Hogan, striscia attraverso le nuvole del passato per raccontarci il presente e metterci in guardia sulle ombre del futuro. Le 11 tracce che lo compongono ci offrono una collezione di immagini rurali vivide, ricche di sfumature ottenute dall’impasto dei colori primari del folk, del country e del blues. Il violino straziante e insidioso di David Mansfield attraversa in punta di piedi Nothing But The Whole Wide World e ci conduce ai versi fieri ed evocativi di Down On Our Own Shield: «È una battaglia, è una fatica / È tutto un dare senza mai prendere / Di qualunque cosa si tratti, ci siamo immersi fino ai fianchi». La batteria di Lend A Hand (Jay Bellerose) ha il suono della tempesta attraversata da Joe Henry nel suo ultimo lavoro, Blood From Stars; una tempesta preannunciata da Darrell Leonard, Ira Nepus e George Bohanon ai fiati, mentre l’inconfondibile chitarra di Marc Ribot scaglia qua e là dei lampi d’avvertimento: ci siamo dentro tutti, «ogni uomo e ogni donna devono dare una mano». La desolazione di We Don’t Live Here Anymore ci lascia completamente spaesati, costretti a fare i conti con la realtà, le incertezze e le paure che popolano Everybody’s Hurting: «Abbiamo sfruttato fino allo stremo quelle colline / Siamo sopravvissuti al rigore dell’inverno e abbiamo bruciato ormai da tempo anche l’ultima scorta di legna». Cosa succederà adesso? È questo il momento in cui sopraggiunge la tristezza? Già… Yonder Come The Blues. Scrutiamo il futuro nei colori cangianti del sole al tramonto di Holy Rollers For Love prima di metterci in viaggio seguendo il contrabbasso di Dennis Crouch, che ha l’incedere lento ma costante di una carovana di pellegrini in cerca dell’amore perduto. Attraversando i deserti dell’anima impareremo a nostre spese che la vita non è facile: «Occhio per occhio, verità per verità» canta Jakob in Truth For A Truth, e la consapevolezza ha il suono squillante del mandolino di They’ve Trapped Us Boys. Ci guardiamo attorno e la notte sembra non passare mai: l’amore che così a lungo abbiamo cercato ci ha messo in ginocchio e così cerchiamo conforto nel suono languido della pedal steel di Greg Leisz che, in Smile When You Call Me That, sussurra versi che sanno di tequila: «Sono ubriaco e tu sei pazza / Io non posso lasciarti e tu non cambierai… Perché mi tratti così?». La fine si avvicina galoppando a ritmo serrato: puoi fiutarla nell’aria, ha l’odore di una parata funebre che attraversa le vie di New Orleans riempiendole di tamburi e ottoni. Non si tratta di una resa pacifica ma di una marcia di guerra, perché qualunque sia il nemico, dobbiamo restare uniti e affrontarlo.

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