20/03/2007

James Brown

Addio Mr. Dynamite

La prima volta che vidi James Brown in concerto fu a Milano, verso la fine degli anni 70. Si trattò di uno spettacolo fulminante e irripetibile. Pensandoci successivamente ho capito che si poteva apprezzare davvero James Brown solo avendo la possibilità di vederlo in azione; sentirlo su disco non bastava, lì mancava tutta la dimensione scenica che fa parte del suo spettacolo. È necessaria, per dirla con gli psicologi, una memoria episodica più che semantica: come spesso succede per le cose che si ricordano con maggiore intensità, non basta leggerle, ascoltarle o farsele raccontare, bisogna viverle, possibilmente da vicino.

James Brown, fin dagli esordi, aveva le idee chiare e sapeva cosa voleva, sopra ogni cosa desiderava emergere, dimostrare a se stesso che il colore della sua pelle era una possibilità ulteriore di scommessa: farcela era una questione di orgoglio e voleva dire dare una mano alla sua gente oltre che a se stesso. Non era un eroe, non metteva certo a repentaglio la propria vita per una questione ideologica, non aveva né la pasta di Malcolm X, né quella di Martin Luther King, eppure due tipi duri come Stokely Carmichael e H. Rap Brown, leader dello SNCC, misero gli occhi su di lui quando negli anni 60 c’era da compattare il popolo nero per i diritti civili, e addirittura Leroy Jones, lo salutò come “il nostro poeta numero uno d’America”. Come scrisse Peter Guralnick nel suo celebre Soul Music, “quando verso la metà degli anni 60 James Brown trovò il suo passo, non lo mollò più, mandando a pezzi lungo la strada non solo le false certezze del pop, ma anche alcune delle tradizioni più consolidate della musica soul. In contrasto con quasi tutti gli altri appartenenti alla grande comunità soul, per cui il successo di un artista rappresentava un nuovo scalino percorso, ogni passo avanti fatto un progresso per l’umanità, James Brown era un solista che andava avanti per proprio conto e anziché accettare qualche compromesso per raggiungere un pubblico più vasto, esigeva che fosse il pubblico stesso a tirarsi su ad ascoltare quello che lui aveva da dire”. Certo questo atteggiamento di intransigenza gli costò anche qualche “rappresaglia”: i musicisti della sua band lo bollarono come “il negro imbrillantinato” e Solomon Burke, dall’alto della sua istituzione pastorale, si rifiutò sempre di considerarlo un vero cantante soul. Eppure mentre Ray Charles faceva delle scelte certamente più commerciali che ideologiche e lo stesso Sam Cooke si sarebbe presto fatto lusingare da Las Vegas e Hollywood, Brown rimase tra i pochi a cercare nuove espressioni che, da una parte, non scendessero a compromessi con il business, e dall’altra superassero le formule ormai scontate del vecchio rhythm’n’blues. La sua musica era asciutta, spigolosa, raramente si è abbandonato alla ballata lenta e quando l’ha fatto, l’ha ammantata di quel sudario funk che sarebbe presto diventato una sua nuova peculiarità che avrebbe aperto una porta a decine di altri musicisti. Non di rado i testi delle sue canzoni erano esplicitamente politici, dei manifesti che le stesse Black Panthers non disdegnarono di adottare. You’ve Got The Power e Say It Loud, I’m Black And I’m Proud hanno fatto il giro del mondo e sono diventati slogan scontati in mille manifestazioni.

La potenza di James Brown sul palco si costruisce negli anni e riassume le più svariate esperienze della sua vita: prima di tutto il ballo, che fin da bambino esercita in modo frenetico per guadagnarsi quattro soldi, e poi lo sport, il pugilato su tutti che gli conferisce agilità e resistenza alla sofferenza. Ci sono poi quegli artifici spettacolari che ricava guardandosi intorno e che proprio nel mondo del soul raggiungono le vette più estreme. Se si mescolano tra di loro questi ingredienti si capisce il personaggio James Brown che si rotola per terra ripetendo per venti minuti filati in modo ossessivo “please please please”, salvo poi essere portato stremato dietro le quinte dai suoi musicisti e ritornare subito dopo con immutata energia a ripetere davanti al pubblico la stessa frase per altri dieci minuti.

Quando finalmente si rialza con il volto stravolto dalla fatica, qualcuno gli depone il mantello regale sulle spalle e la corona sulla testa permettendogli finalmente di allontanarsi dietro le quinte caracollando. Una manfrina trita e ritrita? Una recitazione kitsch da avanspettacolo? Forse, se non si tiene conto della cultura nera del blues e del gospel che viene direttamente dall’Africa e che John Landis seppe tratteggiare così bene nel suo Blues Brothers, affidando proprio al “reverendo” James Brown il compito di esaltarla nella sua dimensione ibrida di religiosità e secolarizzazione.

L’importanza di James Brown è anche quella di rappresentare la negritudine americana nella sua nuova dimensione soggettiva che rompe con quella che tanto rassicurava i bianchi. Meglio spaventare il potere con un’inattesa aggressività che tranquillizzarlo con una secolare sopportazione, sembra dirci Brown nei suoi spettacoli. “Così sapranno che il popolo nero è vivo e ha voglia di dimostrarlo”.

La sua vittoria la ottiene con il concerto all’Apollo di Harlem nel 1962 in cui impone il suo stile e dal quale viene tratto forse il suo disco più celebre. Quel disco rimase per quattordici mesi nelle hit parade pop dell’epoca, raggiungendo a un certo punto il secondo posto e terminando al trentaduesimo della classifica annuale. Un riconoscimento mai decretato precedentemente a un musicista di R&B, al quale concorse abbondantemente anche il pubblico bianco, segno che Brown era riuscito a crearsi una nuova nicchia senza adulterare ciò che aveva da offrire. E che dire del suo rapporto con Syd Nathan, boss della King, etichetta per la quale incise per molti anni le sue cose migliori? Nathan non amava molto James e quando lo conobbe ebbe addirittura dei dubbi se metterlo sotto contratto: era convinto che il suo stile non portasse da nessuna parte. Naturalmente si dovette ricredere e quando Brown, forte del suo successo, manifestò la volontà di mettersi in proprio, dovette cedere di malavoglia alle sue richieste. James Brown ottenne la propria casa editrice, una percentuale maggiore sui diritti, un minimo di 25mila singoli e un numero analogo di lp da distribuire come riteneva opportuno e inoltre un controllo più serrato sulla parte artistica. Una serie di bonus impensabili per quei tempi che gli fecero guadagnare ulteriore rispetto. Il suo ascendente sulla comunità nera portò molti presidenti americani a cercare il suo appoggio durante le elezioni e James Brown, da buon capitalista nero, si schierò arrivando talvolta ad assumere addirittura atteggiamenti patriottici impensabili come nel caso di America Is My Home e successivamente di Living In America. Per buona parte degli anni 70 rimane ancora una star di prima grandezza salvo poi venire schiacciato dall’avvento del funk, a cui proprio lui aveva dato inizio. Nelle decadi successive ha ancora qualche guizzo da fuoriclasse, ma si parlerà di lui soprattutto per una serie di scelte sbagliate fatte nella vita personale che vanno dal fallimento dei suoi matrimoni a storie di droga e violenza.

La parabola di James Brown si chiude alle prime ore del giorno di Natale dello scorso anno: una complicazione cardiaca dovuta a un polmonite mette la parola fine alla vita di uno dei più grandi fratelli neri della storia della musica.

 

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