02/11/2011

JIMI HENDRIX

«QUANDO MUOIO, SUONATE LA MIA MUSICA»

«When I die, just play my music» (quando muoio, suonate la mia musica).
Così (e più di una volta) ha parlato Jimi Hendrix profetizzando una morte prematura ma auspicando, al tempo stesso, l’eternità della sua arte suprema.
Ci ha azzeccato: la sua musica oggi è più viva che mai e, purtroppo, la sua fine è giunta in età davvero precoce (27 anni).
Non solo. Restano molti punti oscuri sulle circostanze che hanno portato alla morte colui che è stato definito (parole di Bono) «il genio musicale del Novecento».
Per anni, si è pensato a un avvelenamento da barbiturici (il Vesparax, pericoloso medicinale poi ritirato dal commercio).
Ma c’è qualcuno che racconta un’altra storia.
Si chiama James “Tappy” Wright, nei Sixties lavorava come roadie per Michael Jeffery (il manager inglese di Hendrix) e sostiene che proprio Jeffery gli ha rivelato di aver ucciso Jimi. Con l’aiuto di un paio di scagnozzi, Jeffery ha immobilizzato Hendrix e lo ha costretto a ingurgitare un litro di vino rosso. È una forma di tortura militare conosciuta con il nome di waterboarding (annegamento controllato): il soggetto viene disteso con le gambe sollevate e il liquido gli viene forzatamente infilato in gola. Dalla trachea finisce direttamente nei polmoni provocando il soffocamento.
Movente: Hendrix aveva deciso di licenziare il suo manager che, tra l’altro, era pesantemente indebitato (si dice anche con la mafia del New Jersey).
Pare che, se Jimi fosse morto, avrebbe potuto incassare un’assicurazione sulla vita stipulata un paio di anni prima. Qualcuno ha parlato di 2 milioni di sterline…
«Sai, Tappy, non ho avuto scelta… ho dovuto farlo».
Così, Mike Jeffery, in una notte londinese di fronte a una bottiglia di whisky ha confidato a Wright il suo segreto.
Sarà vero?
«Il Dottor John Bannister (il medico che ha compiuto l’autopsia sul corpo di Hendrix, nda) ha dichiarato che la mia teoria è plausibile», mi ha detto Tappy Wright, «sfido chiunque a dimostrare il contrario».
L’ho incontrato a Londra lo scorso mese di febbraio. Era venuto apposta da Newcastle per i miei Delitti Rock. Siamo stati insieme a Lansdowne Crescent (Notting Hill), di fronte al condominio che all’epoca si chiamava Samarkand e che ospitava l’appartamento di Monika Dannemann, lo stesso in cui Jimi sarebbe morto.
Tappy mi ha aperto il cancello e mostrato la scala che conduce alla porta della casa che ha ospitato Jimi per l’ultima volta. Poi, mi ha fatto da guida attraverso Londra, mostrandomi i luoghi dove Hendrix viveva e amava divertirsi. Mi ha anche fatto vedere dove stava l’ufficio di Mike Jeffery.
Wright si divide tra la natia Newcastle e la Florida, dove vive circa sei mesi l’anno. Da quando ha pubblicato il suo libro di memorie Rock Roadie (in cui racconta gustosi aneddoti sul backstage del rock al fianco di star come Eric Burdon, Ike & Tina Turner o Elvis Presley) gira l’America a fare conferenze.
Il suo libro è finito sulle prime pagine dei giornali da quando Tappy ha raccontato la storia del presunto omicidio di Jimi.
Se devo essere sincero, più che la sua storia è stato il buon Tappy a non avermi convinto. Tracagnotto, capello (tinto) nero corvino e inguardabile vestito della festa, Wright non mi è sembrato nemmeno avere il physique du rôle. Piuttosto, mi è apparso come il classico sempliciotto cui qualche “furbastro” ha suggerito l’idea del secolo.
Al contrario, devo ammettere, mi ha invece colpito la sicurezza con cui un personaggio ai miei occhi più credibile (David Henderson, biografo di Jimi, da me incontrato al Cafe Wha? di New York) ha affermato che Hendrix è stato assassinato.
A dar corpo alla stessa tesi, proprio un anno fa, un altro biografo piuttosto stimato (Harry Shapiro, coautore insieme all’olandese Caesar Glebbeek del puntuale Electric Gipsy, in italiano Una foschia rosso porpora) ha pubblicato sulla rivista Classic Rock un articolo nel quale si è dato credito all’ipotesi dell’omicidio.
Ipotesi che Caesar Glebbeek, neanche un mese fa, ha respinto con forza dalle colonne del suo Univibes, la fanzine di tutti gli hendrixiani d.o.c.
Glebbeek afferma senza mezze misure che la teoria di Tappy Wright o le tesi di Shapiro, Henderson e di Michael Fairchild (studioso di Jimi da Rochester che sostiene addirittura un’ipotesi di complotto da parte della famiglia Hendrix) siano delle bufale tremende.
Senza mostrare la benché minima perplessità, Glebbeek precisa che Hendrix è morto al St. Mary’s Abbotts Hospital (come confermato dal medico del pronto soccorso, il Dott. Marty Seifert) e non al Samarkand (quando è stato portato via respirava ancora). Quindi, confuta il racconto di Tappy in diversi punti. Innanzitutto dice che ci sono prove che dimostrano che la notte in cui Hendrix sarebbe stato ucciso, Mike Jeffery si trovava a Maiorca e non a Londra. Mette in dubbio l’attendibilità del Dott. Bannister («Ha detto che la camicia di Hendrix fosse inzuppata di vino rosso… ma di quale camicia sta parlando?») e soprattutto spiega che «l’assicurazione sulla vita di Jimi stipulata da Mike Jeffery era di un milione di sterline che il manager non ha mai incassato».
Infine, smentisce l’articolo del suo vecchio coautore Harry Shapiro in più punti. Glebbeek si schiera, contro tutto e tutti, in favore di Monika Dannemann, accusata di inattendibilità e falsa testimonianza.
«Dov’era Monika mentre Jeffery e gli altri ammazzavano Jimi? In cucina a preparare loro un bel tè caldo?».
Caesar Glebbeek non ha dubbi: Jimi Hendrix, il 18 settembre 1970 ha ingoiato 9 pastiglie di Vesaparax (quando la normale posologia era di mezza pasticca).
«Una dose» spiega «che avvelenerebbe chiunque…».
Secondo Glebbeek, dunque, Jimi è morto così.
Ma il mistero rimane. Così come rimangono, ed è questa la cosa più importante, la grande musica di Hendrix e quella sua impareggiabile sei corde cosmica, aliena…
Già, a noi piace pensare che Jimi Hendrix è morto perché, come ha detto qualcuno, Dio aveva bisogno di lezioni di chitarra…

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