15/05/2007

Joan Baez

Dark Chords On A Big Guitar – Sanctuary/Edel

È il disco più triste della mia carriera”, ha detto Joan Baez a proposito del suo nuovo lavoro discografico (vedi cover story in questo numero di JAM). Ha ragione. Lei dice che la tristezza di questo disco è motivata dalla situazione politica mondiale, non da motivi personali. Certo è che la scomparsa, due anni fa, della sorella Mimi ha sicuramente contribuito al clima fortemente drammatico di questa sua prima raccolta di canzoni in circa sei anni. Un clima perfettamente rappresentato dalla produzione che richiama le tinte scure e i ritmi percussivi dell’anima tanto cari a Daniel Lanois, il Lanois però meno ‘presenzialista’, quello cioè degli anni 80. Per intenderci: atmosfere alla Oh Mercy, non certo quelle claustrofobiche di Time Out Of Mind (per citare – è ovvio – il vecchio amico Bob… Ma, se volete, il sound di questo disco richiama molto anche quello dell’ultima fatica di Emmylou Harris, Dirt).

È comunque un disco molto bello, questo Dark Chords On A Big Guitar, vuoi per il sound, appunto, vuoi per l’ottima scelta del materiale di altri autori da ‘coprire’. C’è però una cosa che va detta, per onestà, e chiunque, come il sottoscritto, ha amato in passato la voce squillante, le aperture vocali che facevano pensare alla fresca brezza mattutina o al chiaro risplendere di una sorgente montana, non potrà fare a meno di notare che la bella voce di Joan Baez è andata persa. Per sempre. La sessantenne cantante fa una fatica notevole, e si sente, e dispiace: i toni sono tenuti volutamente bassi, le canzoni sono tutte lente ballate in cui la voce si può adagiare in tono sommesso e confidenziale e quando tenta di raggiungere il suo celebre acuto da soprano… ahimè, non ce la fa.

Con questa avvertenza sarete pronti ad affidarvi a un disco ricco di momenti pregevoli: dalla bella rilettura con percussioni in forte evidenza di Caleb Meyer (di Gillian Welch, tipico motivo appalachiano) alla sensualità quasi gospel di In My Time Of Need (Ryan Adams).

Sono però l’attacco e la conclusione dell’album che ci riportano alla Baez che il sottoscritto ha amato di più, quella dei primi 70, quando cominciava a farsi accompagnare in modo discreto da valenti senssionmen di Nashville e la sua voce si adagiava su gentili e appassionate melodie di stampo country. Sto parlando di Sleeper, splendida ballata di Greg Brown, e del gioiello del disco, Christmas In Washington, di Steve Earle. Momenti di classe purissima.

Detto questo, il disco ha sempre momenti pregevoli: il blues doloroso di Rosemary Moore, in cui spicca il pregevole lavoro chitarristico; l’inquietante Rexroth’s Daughter (ancora Greg Brown) mentre Elvis Presley Blues (Gillian Welch) è uno shuffle dai toni davvero ‘sanguinanti’. Piace infine King’s Highway, di Joe Henry, quasi un rock’n’roll.

Forse solo Motherland perde il confronto con l’originale, ma d’altro canto sfidiamo Natalie Merchant: vedremo cosa saprà fare l’ex 10,000 Maniacs quando avrà anche lei 62 anni…

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Voto: 7/8
Perché: è una bellissima raccolta di brani di notevole spessore che la Baez, nonostante una voce che accusa le fatiche del tempo, rende sue e a cui dona il fascino che solo lei sa imprimere a una canzone. Splendida la produzione, notturna e dai toni drammatici e lode al coraggio di Joan Baez nel fare un disco che è tutto tranne un’operazione nostalgia: come una volta ha portato alla ribalta i songwirter della sua generazione (Dylan in testa), oggi la cantante californiana mette in spolvero i nomi migliori dell’ultima generazione di folksinger.

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