18/05/2007

John Lee Hooker

The Healer (Chameleon, 1999)

«Non ci sono superlativi che possano  descrivere il profondo impatto che John Lee ha lasciato nei nostri cuori. Tutti noi proviamo gratitudine, rispetto, ammirazione e amore  per il suo spirito. Quando ero un ragazzino, John Lee Hooker è stato  il primo ‘’circo musicale’’ che avrei voluto seguire». Così  ha parlato Carlos Santana il 22 giugno del 2001. La notte prima, nella  sua casa nei pressi di San Francisco, era morto nel sonno John Lee  Hooker, 83 anni, da Clarksdale, Mississippi, l’ultima leggenda del  blues a lasciare questa terra.

Amico sincero e ammiratore incondizionato,  Santana ha avuto con il grande bluesman un rapporto speciale. Che è  andato oltre la comune passione musicale, trasformandosi quasi in una  liaison spirituale o, come a lui piace definirla, «sovrannaturale».

Non è un caso che quando (alla fine del  1988) John Lee comincia ad accarezzare l’idea di un album di duetti  con musicisti che hanno dichiarato che lui è il loro idolo, il nome  di Santana balza in mente per primo perché «Carlos ha influenzato  me», dice in quei giorni The Hook, «almeno quanto io ho influenzato lui. È un grande uomo, un musicista fantastico, un amico carissimo».

«Ho ancora in testa il giorno in cui ci  siamo trovati per registrare The Healer, a Sausalito», ricordava John  Lee. «Eravamo entrambi così su di giri al pensiero di poter  finalmente fare un pezzo insieme che abbiamo attaccato gli strumenti e  registrato il brano tutto d’un fiato. E la prima take è stata  quella definitiva: non avremmo mai potuto rifarla meglio!».

E così, con il fido Jim Gaines alla consolle  e sotto l’orecchio vigile di Roy Rogers, Santana con la sua Paul  Reed Smith dall’inconfondibile timbro liquido e sensuale disegna  trame chitarristiche folgoranti che seguono, intercalano e sorreggono  il back up e i gemiti di Johnny Lee.

«Il blues è il grande guaritore», canta  Hooker, «può curare tutto il mondo», mentre i percussionisti della band di Santana aggiungono un raffinato tocco caraibico alle fangose  dodici battute del blues di The Hook. Ma è solo l’inizio. Hooker ha  già in mente altri ospiti. Come l’amatissima Bonnie Raitt che poco tempo prima aveva dichiarato: «Volete farmi il più bel regalo che  possa mai ricevere? Fatemi suonare con John Lee Hooker. Lui è il  blues».

«Quando ho sentito che Bonnie aveva  pronunciato frasi così belle nei miei riguardi, mi sono messo in contatto con lei», raccontava John Lee. «La prima cosa che mi ha  detto è stata: ‘’Se davvero vuoi che facciamo qualcosa insieme, a  me piacerebbe tanto poter cantare con te I’m In The Mood: è la mia canzone preferita’’. L’ho accontentata».

Anche con la Raitt la registrazione è  emozionante e velocissima. «Al primo colpo, come con Santana», ricordava Hooker. I’m In The Mood è così bello e intenso che la  Raitt decide di inserirlo in Nick Of Time, il disco multimilionario  che segnerà il suo grande ritorno. Il pezzo fa vincere a John Lee  Hooker il primo Grammy della sua carriera, a più di 50 anni dai suoi  esordi. Ed è pure immortalato da un fantastico videoclip in cui i due  scherzano tra lick chitarristici infuocati, sguardi maliziosi, botte e  risposte vocali. «Bonnie Raitt», urla John Lee prima che la rossa  californiana attacchi la sua strofa vocale, contrappuntata dagli  inimitabili interventi di The Hook, che si conclude con l’emblematica  affermazione: «Sono nello stato d’animo dell’amore, Johnny Lee».  Tutto questo poco prima di lanciare un formidabile solo di slide,  specializzazione nella quale la Raitt è davvero sensazionale.

E non è finita: sotto la preziosa  supervisione di Roy Rogers, The Healer prende definitivamente quota. L’album  prosegue infatti con Baby Lee, classico pezzo alla Hooker impreziosito  dalla chitarra cristallina di Robert Cray. Proprio alla fine di quelle  session il chitarrista di Columbus, Georgia, racconta che «quello che  più colpisce nelle canzoni di John è che il significato delle parole  segue di pari passo le inflessioni della musica. La maggior parte dei  bluesmen tendono a limitarsi alle dodici battute e invece la musica di John non ha regole fisse».

Se ne accorgono anche i Los Lobos, chiamati a  insaporire di sound latino e a dare un piglio rock alla entusiasmante  Think Twice Before You Go. «La prima volta che l’ho visto dal  vivo», raccontava allora David Hidalgo, «sono rimasto a bocca  aperta. Non avevo mai incontrato nessuno che mi comunicasse emozioni  così forti. E poi quel suo vocione… dio, è stato incredibile».

Più convenzionali (ma non per questo meno  eccitanti) sono i due duetti con il bravissimo Charlie Musselwhite (l’incalzante  shuffle Cuttin’ Cut e il sensualissimo slow blues That’s Alright)  la cui armonica si lega magnificamente con la Gibson di The Hook. Ma  certamente è speciale il duetto chitarristico con il rocker George  Thorogood: i quattro minuti e rotti di Sally Mae ci riportano alle jam  rurali nei garage del South Side o sulle rive del Grande Fiume.  Proprio come la spartana Rockin’ Chair che Hooker pennella con la  sua National, in un episodio esemplare di Delta Blues griffato, in cui  lo stile vocale e chitarristico di John Lee emerge sin dalla prima  battuta. E che trasporta l’ascoltatore in un mondo surreale  attraverso la dolcissima My Dream e soprattutto con la conclusiva,  affascinante, No Substitute, accompagnata soltanto da una dodici corde  acustica.

Più di dodici anni dopo The Healer è un  disco che continua a stupire ma soprattutto a emozionare. E, forse,  come nelle intenzioni del suo grande autore, anche a guarire dai mali  del mondo. «Il blues è il vero guaritore. Con me ha funzionato e non  vedo perché non debba fare lo stesso con tutti gli uomini», diceva  John Lee alla presentazione del disco che ne ha segnato il grande  ritorno, gli ha fatto vincere il primo Grammy e superare per la prima  volta dopo mezzo secolo di musica, il milione di copie vendute.

«Tanti anni fa, quando ho cominciato a  suonare», ricordava sempre all’epoca del successo di The Healer, «avevo un pubblico di neri. Potevo esibirmi solo in locali riservati  ai neri. Oggi accade il contrario: suono davanti a un pubblico bianco.  I neri ascoltano il rap, solo qualche vecchio si ricorda del blues.  Eppure il blues è alla base di tutte le musiche, anzi ne costituisce  la radice più forte e profonda. Non riesco a immaginare una canzone  che non abbia il blues». E continuava: «Il blues c’è dall’inizio  del mondo. Quando c’è passione tra un uomo e una donna, quando ci  sono problemi quotidiani, lì c’è il blues. Le sofferenze della  gente, i dolori, le delusioni: tutto questo fa nascere il blues».

Il blues che Johnny Lee ha cantato fino al  giorno in cui è morto. Perché come diceva sempre: «Le parole e lo  spirito delle mie canzoni sono poesia. E come la poesia colpiscono e  danno forti emozioni. A volte, sono talmente coinvolto che quando  canto un brano mi metto a piangere. Ecco perché quasi sempre, quando  mi esibisco, porto gli occhiali neri. Non voglio che la gente mi veda  piangere».

Già, occhiali neri, borsalino, vestito scuro  e chitarra a tracolla: quella è l’immagine che chiunque abbia avuto  la fortuna di vederlo dal vivo ha ben impresso nella sua mente.
 E che non potrà mai più scordare.

DISCHI DELLA  MEDESIMA VENA ARTISTICA

The  Ultimate Blues Band / The Hot Spot (OST) (Antilles, 1990)
Colonna sonora di un film prodotto da Dennis Hopper, l’album  presenta una band stellare che vede John Lee Hooker in compagnia di  colossi della black music come, tra gli altri, Miles Davis e Taj Mahal.  Dietro le quinte c’è sempre il fedele Roy Rogers. Molto belle le  musiche, firmate da Jack Nitzsche, genialoide californiano scomparso  prematuramente nell’agosto del 2000.

B.B. King / Blues Summit (MCA,  1993)
Dodici duetti in studio (uno dei quali proprio con The Hook)  registrati appositamente per questo Blues Summit. B.B. King non cerca  (come John Lee con The Healer) contaminazioni particolari: suonare il blues con Koko Taylor, Buddy Guy, Albert Collins, Lowell Fulson, Etta  James o Irma Thomas per lui è più che sufficiente.

Santana / Supernatural  (Arista/BMG, 1999)
Un album di duetti con giovani epigoni, lo stesso fonico di The  Healer e una chitarra colma di blues che vuole guarire il mondo. Come il  suo «eroe», Santana viene premiato da pubblico e critica. Come The Healer per Johnny Lee, Supernatural segna il grande ritorno di Santana e  lo consacra leggenda assoluta della musica del Novecento.

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