03/10/2011

KEN KESEY – MAGIC TRIP

California, estate del 1964.
Da qualche mese a La Honda (un’ora e mezza a sud di San Francisco) ci sono strani movimenti. In una spaziosa casa in legno immersa nel verde si vedono sempre più spesso personaggi eccentrici che lavorano intorno a un vecchio scuolabus degli anni 30: gli hanno tolto tutti i sedili, lo hanno ridipinto con colori psichedelici e sul tetto hanno posizionato casse e amplificatori.
Ma che intenzioni hanno? Il padrone di casa a La Honda si chiama Kenneth Elton Kesey, non ha ancora compiuto 30 anni ma, al suo attivo, vanta già una convocazione nella nazionale olimpica di lotta libera, una discreta carriera come mago/prestigiatore/ventriloquo e, soprattutto, due romanzi di successo. Uno, in particolare, ambientato in un ospedale psichiatrico (poetica metafora sulle oppressioni della società americana) e intitolato Qualcuno volò sul nido del cuculo, gli vale premi e riconoscimenti vari.
Jack Kerouac (non uno qualsiasi…) di lui dice che è «il nuovo scrittore più apprezzato negli Usa».
Kesey, che frequenta l’ambiente della vicina università di Stanford, raduna intorno a sé un gruppo di amici/artisti/pensatori che ribattezza The Merry Pranksters, gli allegri burloni. Dopo essersi sottoposto, proprio nei laboratori dell’università, ad alcuni test che la Cia sta compiendo su una nuova sostanza psicotropa (una sintesi scoperta casualmente dal chimico svizzero Albert Hoffman e chiamata Lsd), introduce le droghe allucinogene nei loro incontri e festini.
La casa di La Honda diventa «la capitale mondiale della pazzia». Eppure, l’idea più pazza non si è ancora concretizzata.
Non ci vuole molto, però. Sometimes A Great Notion, il nuovo libro di Ken Kesey, diventa una scusa formidabile. «Lo promuoveremo in tutta l’America, andremo a New York alla World’s Fair», esclama un giorno con grande entusiasmo.
Pochi giorni dopo, si trova anche il mezzo: uno school bus abbandonato nel giardino di uno dei suoi vicini. Per far capire le sue vere intenzioni, Kesey fa dipingere davanti, dove di solito i bus hanno la targa con la destinazione finale, la scritta “Furthur” (oltre). Dietro, a scanso di equivoci, il cartello “Weird load” (carico bizzarro).
Kesey e i Prankster partono per la East Coast fermandosi di tappa in tappa a fare i “test dell’acido” (chi li supera riceve regolare patentino). «Can you pass the acid test?», recita un improbabile Uncle Sam nei poster che pubblicizzano quegli stravaganti meeting. L’avventura dei Pranksters diventa presto un evento. Il bus colorato e musicale (dagli altoparlanti esce musica jazz, rock e R&B) attraversa l’America sino a New York City. Pazienza se gli incontri con Jack Kerouac (favoriti dallo stralunato Neal Cassady, il driver del “Furthur bus” ma anche il personaggio che aveva ispirato proprio Kerouac per il suo On The Road) o Timothy Leary (l’altro guru della nascente cultura psichedelica) non vanno a buon fine.
«O sei sul bus, o resti a piedi», dicono in coro Kesey e i suoi Pranksters.
Il loro viaggio è la scintilla che fa scoccare l’inizio di una nuova era: quella della rivoluzione controculturale, della psichedelia, dell’Estate dell’Amore.
Quarant’ anni dopo, due documentaristi di successo (Alex Gibney e la sua co-regista Alison Ellwood) leggono un articolo interessante sul New Yorker.
«Stavamo per partire per il Sundance, il film festival ideato da Robert Redford, quando ci è capitato per le mani questo pezzo in cui si parlava del viaggio in bus di Kesey e dei Pranksters, ma anche del fatto che loro avevano filmato tutto. Si parlava di un centinaio di ore di riprese…».
La scintilla scatta immediatamente.
«Abbiamo contattato la famiglia Kesey (Ken era morto già da quattro anni) per sapere se erano interessati a farci visionare il materiale allo scopo di farne un film», ricorda Alex Gibney. Da lì inizia un’epopea infinita. «Le pellicole erano ammonticchiate dentro al granaio della fattoria dei Kesey », spiega Ellwood. «La prima visione è stata sconvolgente: i Pranksters riprendevano tutte le loro mattane senza soluzione di continuità. Sembrava di vedere scene da un manicomio… e poi, audio e video erano completamente fuori sync».
Il solo lavoro di restauro (e riversamento su supporto digitale) dura tre anni. «Ma ce ne sono voluti altrettanti a me e a Alison per capirci qualcosa», spiega Gibney. «Lavoravamo su altri progetti anche per prendere le distanze e ritornare sul Magic Trip con la giusta attitudine».
Una volta trovata la traccia narrativa («Abbiamo deciso di seguire la cronologia»), i due registi devono risolvere il problema dell’audio.
«Per un momento, volevamo ridoppiare il tutto con i personaggi originali. Ma erano passati troppi anni: alcuni erano morti e i sopravissuti avevano voci diverse, invecchiate dall’età… Quando abbiamo trovato delle cassette, che contenevano le parti audio permettendoci di ricostruire le scene, i dubbi sono spariti. Abbiamo scelto un narratore (l’attore Stanley Tucci) che ha anche il ruolo di far domande dirette ai vari personaggi del bus».
Finanziato dalla Fondazione Martin Scorsese e da History Channel Magic Trip: Ken Kesey’s Search For A Kool Place non è un’operazione nostalgia. Piuttosto, riporta a galla un incredibile pezzo di storia del Novecento che vi può essere riproposto in modo divertente alle giovani generazioni.
La fantasia, la creatività e pure il tasso di sperimentazione di Kesey e dei Pranksters è, infatti, ancora oggi una lezione di vita, di arte e di cultura.
La musica è fornita dalla band psichedelica per eccellenza, quella che accompagnava gli acid test di Ken Kesey. Allora, si facevano chiamare The Warlocks. Avendo scoperto che c’era un’altra band che si chiamava allo stesso modo, decidono di cambiare nome: dopo aver sfogliato a caso le pagine di un’enciclopedia scelgono quello di Grateful Dead.
«Ho letto più volte nel corso della mia vita il saggio di Tom Wolfe The Electric Kool-Aid Acid Test» spiega Alex Gibney «che racconta proprio del viaggio di Kesey e dei suoi Pranksters. È per me motivo d’orgoglio sapere che, come molti hanno scritto, il nostro Magic Trip può essere considerato la versione cinematografica di quel libro leggendario».
Già, perché come diceva sempre Ken Kesey, «se Shakespeare fosse vissuto oggi non avrebbe certo scritto con penna e calamaio».

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