27/03/2007

King Crimson

Intervista a Adrian Belew

Un nuovo disco dei King Crimson è sempre un evento, anche se la leggendaria band inglese ci ha abituati, nell’ultima decade, a una pioggia non sempre giustificata di pubblicazioni, in gran parte album dal vivo tratti dagli ultimi tour, ma anche con notevoli ripescaggi dal glorioso passato.
The Power To Believe, invece, è l’album di studio che arriva a due anni da The Construkction Of Light, il disco che aveva visto, in seguito alla defezione di Tony Levin e Bill Bruford, la riduzione della line up dai sei elementi del cosiddetto double trio (perché formato da due chitarristi, due bassisti e due batteristi) a una formazione più classica a quattro.
Ce ne parla il chitarrista e cantante Adrian Belew, in visita promozionale milanese.

The Power Of Believe è stato preceduto da un ep intitolato Happy With What You Have To Be Happy With, che contiene un’altra consistente manciata di canzoni nuove. Dunque sono state session molto prolifiche.
Abbiamo iniziato a scrivere poco più di due anni fa e abbiamo testato il materiale sottoponendolo al giudizio del pubblico in due tour differenti. Volevamo che The Power To Believe rappresentasse più o meno un unico tipo di musica, ma avevamo tanto altro materiale che ci entusiasmava, pur non sembrando adatto a questo disco. Così abbiamo deciso di pubblicare queste altre canzoni sull’ep, dove trovi una canzone acustica, una canzone blues, la versione live di Larks Tongues In Aspic Part IV e altre cose che ovviamente non sarebbero potute andare sull’album nuovo.

Cosa cercavate in particolare in questo disco?
All’inizio delle session compositive abbiamo cercato di indirizzare le canzoni in una direzione musicale caratterizzata da riff di chitarre, ma allo stesso tempo di ottenere un suono ricco. È un disco su cui abbiamo lavorato molto tempo, ma nonostante questo lo trovo pieno di feeling, forse perché noi quattro adesso siamo stati insieme per tre dischi, quindi abbiamo maturato quella confidenza che non avevamo agli inizi di questa line up.

Si direbbe però che questo album abbia meno delle tue consuete influenze beatlesiane, sei d’accordo?
Sì, assolutamente. Già nel disco precedente avevamo cercato di trovare un nuovo modo di scrivere canzoni, stavolta abbiamo deciso di smettere di rispettare i classici schemi. Ho preferito invece cantare semplici frasi un po’ qua e un po’ là, e poi condurre questo approccio verso un songwriting più tradizionale. Così è nata anche la versione a cappella della title-track. Stavo pensando a come impostare i testi, così mentre registravamo un giorno lessi questa poesia e la cantai con quella melodia senza accompagnamento. Pensammo che sarebbe stato carino includerla nel disco in mezzo alle altre canzoni, come una sorta di spazio divisorio fra le canzoni principali.

Su quel brano usi un vocoder. Non trovi anche tu che abbia un’atmosfera anni 80?
Beh, sai, usare il vocoder sulla voce è un po’ come applicare il pedale wah-wah alla chitarra. Ma il modo in cui l’ho usato è strano e carino, non suona come una macchina, un computer, come è stato fatto tante volte, ho cercato di usarlo più che altro come un’estensione della mia voce.

Come dividete le parti di chitarra tu e Robert Fripp?
Non ci sono dei ruoli prestabiliti. Sappiamo esattamente chi dei due suona cosa e, dato che solitamente suoniamo in tempi diversi, poi scegliamo le parti. C’è poi il discorso di scegliere i suoni e di chi deve suonare gli assolo, e direi che questo avviene abbastanza facilmente, perché entrambi conosciamo bene il modo di suonare, le tendenze e la forza dell’altro. Per me è più abituale scegliere suoni naturali, lui sceglie più facilmente soundscapes, o suoni pazzoidi di chitarre.

Come nasce un brano dei King Crimson? È davvero uno sforzo collettivo, o gran parte delle idee vengono da un singolo musicista?
Direi che la band intera lavora allo sviluppo delle canzoni, ciascuno contribuisce a colorarle a modo suo. Quando il materiale tende a svilupparsi in forma canzone, allora tocca a me fare i cambiamenti necessari per adattarli a questa formula. Quando invece è un pezzo strumentale, come ad esempio Level Five, è tutta la band che lavora sul pezzo con diversi arrangiamenti e armonizzazioni. Ma se parliamo essenzialmente di songwriting, Robert e io siamo i compositori.

Dopo la reunion del 1994, questo è il secondo album con la line up a quattro elementi. Come ti senti con questa formazione ridotta?
Ho sempre preferito unità più piccole. La band a sei elementi era grande, ma non è mai stata la mia situazione preferita. Sai, con i King Crimson c’è così tanto materiale proveniente da ciascun musicista che già quattro persone producono tantissima musica, figuriamoci sei. Sentivo anche che con troppi musicisti ciascuno di noi era sottoposto a qualche compromesso, e io preferisco avere Bill Bruford al 100% o Pat Mastelotto al 100% piuttosto che costringerli entrambi a un ridimensionamento. La parte negativa di questo, però, è che Tony e Bill sono andati via. Sono fra i miei musicisti preferiti e mi mancano, ma credo che per suonare la musica dei King Crimson il quartetto sia una forma decisamente migliore. Può darsi che in futuro Tony torni a collaborare con noi, mentre ho i miei dubbi su Bill.

Dopo il tour di Thrak, i membri della band hanno lavorato in separati vari gruppi più piccoli, i famosi ProjeKcts. Cosa ti ha dato quella esperienza?
L’idea era di costruire dei blocchi che ci aiutassero ad individuare la prossima generazione dei King Crimson. Tutti quei progetti erano improvvisati e io ero il batterista in uno di essi. Non mi consideravo davvero pronto a farlo, ma fui felice di sperimentare e divertirmi come un pazzo. Ma per me la potenza dei King Crimson è inarrivabile. Preferisco suonare musica che richiede molta attenzione alle semplici e pur divertenti jam.

Che ruolo ha l’improvvisazione nelle esibizioni live dei King Crimson? Guardando i vostri concerti si direbbe che persino l’improvvisazione sia in buona parte perfettamente prestabilita, è così?
Credo che il più delle volte con i King Crimson persino le parti improvvisate siano molto lavorate, è normale quando hai così tanto materiale, cerchi di finalizzarlo. Così alla fine succede che l’85% di quel che suoniamo sia esattamente uguale ogni volta, o almeno ci proviamo. c’è solo una piccola percentuale di improvvisazione dove ciascuno mette qualcosa di suo. un assolo di batteria, o di chitarra, o alcuni minuti di collegamento fra un brano e l’altro, magari suonando qualcosa che non abbiamo provato prima. Credo che abbiamo conservato una tendenza all’improvvisazione, ma non in maniera così ampia come alcune persone si aspettano.

Avete recentemente cambiato casa discografica, come mai?
Questa è una decisione presa dal management, che non mi ha coinvolto più di tanto. Ma credo che i King Crimson oggi stiano vivendo una fase della loro carriera nella quale potrebbero raggiungere alcune nuove fasce di pubblico, quindi abbiamo bisogno di qualcuno che ci appoggi da questo punto di vista. La Sanctuary sembra la perfetta via di mezzo fra piccole e grandi case discografiche, essendo una sia pur grande label indipendente. Le major si perdono in tante altre cose e non ti danno l’attenzione necessaria.

I King Crimson hanno influenzato gruppi moderni come i Tool e i Nine Inch Nails, e sono una delle pochissime band della vecchia guardia considerata influente per i più giovani: come mai secondo te?
Penso che sia perché non abbiamo mai fatto compromessi riguardo la nostra musica. Non abbiamo mai cercato di fare niente altro che sfidare noi stessi per raggiungere il più alto standard possibile, e non abbiamo nessun tipo di riguardo verso la popolarità, i video musicali e le altre trappole del successo. Forse grazie a questo ci siamo posti in una posizione leggermente avanzata rispetto alla norma, e siamo stati capaci di proiettarci verso il presente nonostante la nostra lunga storia. Quando ascolto The Power To Believe penso che potrebbe essere il nostro primo album di sempre.

Durante la tua carriera hai suonato con molte leggende del rock, ma ci piacerebbe sapere che ricordo ti hanno lasciato David Bowie, Frank Zappa e i Talking Heads.
Frank Zappa è l’uomo che mi ha scoperto. Era un genio, e con lui ho avuto la migliore educazione musicale che avrei potuto sperare come artista da studio di registrazione e musicista professionista. Quel periodo della mia vita è stato veramente speciale per me perché stavo a contatto con musicisti giganti. Provo sentimenti simili per David Bowie. Lui è una superstar, ma ha una grande capacità di sintesi. Lavorare con David è stato un onore per me: lui mi ha dato un sacco di incoraggiamento e la libertà di fare quello che ritenevo opportuno. Quello trascorso insieme ai Talking Heads è stato un periodo bellissimo. Loro erano vicini al grande successo, ma necessitavano ancora forse di uno o due elementi, e io penso potevo essere uno di questi. Avevano bisogno di qualcuno che potesse mettere del colore nel loro suono e suonare qualche buon assolo. David Bryne è un personaggio originale e i Talking Heads hanno definito il sound dei primi anni 80.

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