27/03/2007

Led Zeppelin in America

Suonavano per due, tre, a volte persino per quattro ore di fila. Ogni volta che salivano sul palco, il concerto si trasformava in un evento. E di quel rito collettivo il pubblico sembrava non averne mai abbastanza. “Se stiamo tutti calmi”, diceva il cantante Robert Plant ai fan sovreccitati, “possiamo restare qui tutta la notte!”

Il tour americano del 1972 – di cui il triplo compact disc dal vivo How The West Was Won, in uscita il prossimo 26 maggio, offre un sostanzioso assaggio (vedi box a pagina 56) – fu nel bene e nel male uno dei momenti più significativi nella carriera dei Led Zeppelin. Con lo straordinario album IV nei negozi e in corso di lavorazione quello che sarebbe diventato Houses Of The Holy, i quattro musicisti inglesi erano all’apice delle proprie capacità di compositori e di performer. Leggendario almeno quanto le primissime esibizioni – con la differenza che quest’ultime sono circondate da un maggiore alone di mistero – il tour del ’72 fu un successo strepitoso, una progressiva e inarrestabile “conquista dell’Ovest”. Davanti a sale da concerto i cui posti erano regolarmente esauriti, i Led Zeppelin dimostrarono di possedere un grado di confidenza speciale col pubblico americano e una straordinaria padronanza dei propri mezzi. Nel ’72 lo stile chitarristico di Jimmy Page era pienamente fiorito – secondo molti fan, il Page migliore è proprio quello del biennio ’72/73 – e il gruppo era talmente affiatato da lanciarsi in lunghe improvvisazioni che potevano raggiungere la mezz’ora di durata. “Eravamo tutti è quattro alla massimo della forma”, ha commentato Page.

Ma non è solo per motivi stilistici che il tour nordamericano del ’72 rappresenta un momento topico nella storia dei Led Zeppelin. La tournée riassume in sé tutti i caratteri mitologici attribuiti alla band: gli eccessi su e giù dal palco; gli scandali; le incomprensioni con la stampa; il rapporto con la California dei figli dei fiori.

Non era la prima volta che i Led Zeppelin partivano alla conquista dell’America. Erano sbarcati negli States per la prima volta nel 1968, spinti dal manager Peter Grant all’esplorazione di un mercato più ricettivo di quello inglese. Era una scommessa, forse persino un azzardo, ma c’era un precedente: per qualche motivo, anche gli Yardbirds, la band nella quale aveva militato Jimmy Page e dalle cui ceneri erano nati gli Zep, erano amati negli Stati Uniti ma ignorati in Inghilterra, che pure aveva accolto a braccia aperte ensemble che proponevano una rilettura assordante del rock-blues come i Cream e l’Experience di Jimi Hendrix. Per la stampa inglese, i Led Zeppelin erano un gruppo costruito a tavolino. Una montatura. Così Grant, dopo aver strappato un vantaggiosissimo contratto discografico con l’americana Atlantic e aver subissato le radio di copie promozionali del formidabile Led Zeppelin I, affidò i ragazzi alle ‘cure’ del tour manager Richard Cole. Destinazione: California. La band arrivò a Los Angeles nel dicembre ’68 e la città, come ricorda il biografo Stephen Davis (Il martello degli dei, Arcana, 1988), diventò per loro una specie di parco giochi: “Robert Plant e Bonzo (soprannome del batterista John Bonham, nda), che raramente erano stati fuori dall’Inghilterra, non riuscivano a credere ai propri occhi”.

Nel corso della celebre intervista rilasciata nel 1975 a Cameron Crowe, allora giornalista di Rolling Stone, Plant ha ricordato che “Los Angeles è stato il primo luogo che vidi dell’America, la prima volta che vidi un poliziotto con un fucile, la prima volta che vidi un’auto lunga sei metri. Avevo 19 anni e non ero mai stato baciato. C’era un sacco di gente divertente con cui passare il tempo. La gente ci accoglieva con benevolenza e noi iniziammo col piede giusto”. Ben presto gli Zeppelin, come scrive Davis, “diventarono gli amici del cuore del principale gruppo di groupies di Hollywood, le Girls Together Outrageously (Ragazze Unite Oltraggiosamente). A differenza della maggior parte delle star inglesi, i Led Zeppelin amavano veramente intrattenersi in squallidi rock club e stare tutta la notte in giro”. Ma, come racconta Cole, “le groupies non erano puttane o troiette o cose simili. Più di una volta le loro scopate mi hanno salvato il culo in fatto di pazienza, perché qua stiamo parlando di ragazzi di vent’anni via da casa. Le ragazze si prendevano cura di loro e li facevano sentire come in una seconda casa”.

La West Coast diventò davvero una seconda casa per i Led Zeppelin. Nacque un rapporto profondo con la California, uno scambio alla pari: il pubblico riceveva il rock’n’roll britannico più sfacciato, chiassoso ed eccitante in circolazione, i musicisti del gruppo erano accolti alla stregua di divinità – ed esisteva, come ha fatto notare Jimmy Page, una stampa underground più sviluppata ed aperta di quella inglese, “dove non erano affatto aperti alle novità”. Quando arrivavano a Los Angeles e si stabilivano all’hotel Chateau Marmont, se ne vedevano di tutti i colori: la mitologia del musicista rock era nata da tempo, ma in quelle stanze – appartate, così che le orge degli Zeppelin non dessero fastidio agli altri ospiti dell’albergo – acquistò nuova forza e un significato ancora più estremo. Secondo BP Fallon (www.bpfallon.com), addetto alle relazioni con la stampa dal ’72 al ’79 (vedi foto con Jimmy Page a pag. 58), “la verità su orge, droga e alcol non è poi così lontana dalla leggenda”. Ma in fondo, come ha spiegato Plant, “non eravamo mostri. Solo ragazzi che si divertivano, amati dai fan e odiati dai critici”.

Della California psichedelica gli Zeppelin non raccoglievano il messaggio di pace universale o le vibrazioni cosmiche. Come lupi affamati nel recinto degli agnelli, prendevano sesso facile e divertimento sfrenato. Mentre la disillusione provocata dalla prematura fine dei sogni del ’68 portava molti a rifugiarsi nell’intimismo e nel cantautorato confessionale, loro incarnavano il lato più edonista, selvaggio e incontrollato del rock. Forse, ragiona Davis nel suo libro, era “una reazione all’ambiente puritano e della Gran Bretagna del dopoguerra, all’epoca dei razionamenti e delle privazioni”. Di sicuro, Plant e Bonham scoprirono negli Stati Uniti un nuovo mondo e un nuovo modo di vivere, loro, ragazzetti che non avevano mai messo piede fuori dall’Inghilterra. Come ci ha detto Fallon, “rispetto alle inglesi, le ragazze americane erano disposte a fare sesso in più giovane età. e molto più spesso. L’America amava i Led Zeppelin, e ancora lo fa, e a loro volta i Led Zeppelin amavano l’America”. Fallon ha ragione: oggi i Led Zeppelin sono il secondo gruppo rock che ha venduto più dischi in assoluto negli States: quasi 64 milioni di copie (che nel mondo diventano oltre 200) contro i 100 milioni dei Beatles.

Il gruppo risentì dell’atmosfera californiana anche dal punto di vista musicale: il cantautorato West Coast, e in particolare le canzoni di Joni Mitchell, divennero una fonte d’influenza piuttosto forte, tanto da spingere il quartetto a includere nei propri album ballate sognanti e nei concerti intermezzi acustici. L’adorazione per il Golden State raggiunse il picco con la canzone Going To California, il luogo dove, cantava Plant, “c’è una ragazza con l’amore negli occhi e i fiori tra i capelli”. Qualcuno ha voluto vedere il profilo della Mitchell dietro alla “regina senza re” che “dicono suoni la chitarra, che canti e che pianga”.

Ecco perché quando, nell’estate del ’72, i Led Zeppelin atterrarono nuovamente negli Stati Uniti, non ci arrivarono da conquistatori stranieri, ma paradossalmente quasi da eroi locali. Il pubblico aveva voglia di loro e loro avevano voglia del pubblico. Nessuno forse immaginava che l’orgasmo musicale provocato da quell’incontro sarebbe stato così appagante.

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Burning Ticket

Nel 1968 Peter Grant era stato costretto a telefonare alle radio delle città statunitensi nelle quali i Led Zeppelin si sarebbero esibiti, sollecitando qualsiasi forma di supporto. Il tour del ’72 – l’ottavo in terra americana – si vendette per così dire da solo. Quasi tutti i biglietti andarono a ruba senza alcuna campagna pubblicitaria, tale e tanto era il seguito del gruppo. Le cronache dell’epoca parlano di autentici “assalti alle biglietterie”, un fenomeno che negli anni a seguire sarebbe diventato consueto per gli Zep.

Visti gli spostamenti cui sarebbe stato soggetto il gruppo, Grant affittò un aereo, una cosa piuttosto singolare per l’epoca. La tournée segnò anche un nuovo picco di spregiudicatezza della politica manageriale di Grant. In quel periodo, i gruppi rock più famosi arrivavano a guadagnare fino al sessanta per cento degli incassi. Nell’organizzare il tour estivo negli Stati Uniti, Grant pretese per sé e per la band la fetta più grossa della torta, chiedendo agli impresari americani il novanta per cento degli incassi. “Grant ne sarebbe diventato il vero impresario e avrebbe pagato tutte le spese”, scrive Stephen Davis. “Gli impresari locali avrebbero eseguito il lavoro di contorno e avrebbero ricevuto il dieci per cento e la gloria di essere associati al ‘complesso con i più alti incassi del mondo’. Naturalmente, gli impresari americani insorsero contro Grant ma quello non cedette. Disse loro sfacciatamente che il dieci per cento degli incassi dei Led Zeppelin era meglio che il cinquanta per cento di nulla. Gli impresari non avevano scelta. I Led Zeppelin avrebbero incassato più denaro di ogni altro complesso rock in tournée e la nuova formula di Peter Grant sarebbe diventata rapidamente la norma tra le grandi celebrità del rock.” Lontani erano i tempi del primo tour americano, quando la banda accettava ingaggi da fame: se nel ’68 gli Zeppelin accettavano di suonare anche per soli 200 dollari, nel ’72 erano i fan a pagare un biglietto 200 dollari per vedere gli Zeppelin.

La tournée partì il 6 giugno da Detroit, Michigan, per poi proseguire il giorno seguente a Montreal, Canada. Il 9 giugno a Charlotte, North Carolina, fu suonata una rarissima (per questo tour) versione di Celebration Day. Il mood era talmente rilassato quella sera che la parte acustica divenne particolarmente lunga, mentre Whole Lotta Love, che solitamente ospitava un medley di classici del rock’n’roll e blues, venne conclusa senza le improvvisazioni che si sarebbero sentite a New York (Lawdy Miss Clawdy) o a Seattle (Only The Lonely). A Baltimora, l’11, Plant regalò la sua migliore imitazione di Elvis intonando Heartbreak Hotel e I Need Your Love Tonight. Il successo del gruppo era tale da spingere il cantante ad affermare che “abbiamo venduto più biglietti di Presley”.

Al Nassau Coliseum di Long Island, il 14 giugno, il gruppo offrì una delle performance più brillanti del tour, oltre quattro ore di show infuocati, con replica il 15. Fu probabilmente durante lo show del 14 che Plant inserì per la prima volta l’esclamazione “does anybody remember laughter?!” all’interno di Stairway To Heaven, subito dopo il verso “and the forests will echo with laughter”, un tic che sarebbe diventato abituale nei concerti successivi. Si racconta che il batterista John Bonham fu fermato dalla sicurezza, che non credeva facesse parte della band, e arrivò appena in tempo per l’inizio dello show: “Se fai parte del gruppo, com’è che non indossi gli abiti di scena?”, gli chiesero. Ovviamente non c’erano abiti di scena: nelle tournée successive il gruppo avrebbe curato anche l’aspetto visuale, ma nei concerti americani del ’72 gli Zeppelin si vestivano proprio come i loro fan. Nonostante questo, fu proprio durante questa tournée americana che la band dovette assumere rigide misure di sicurezza per evitare l’assedio dei fan, come farsi scortare dalla polizia nei trasferimenti dall’aeroporto ai luoghi dei concerti o evitare al minimo il tempo di percorrenza del tratto tra il palco e le limousine che aspettavano a motore acceso.

In mezzo a tanta frenesia, non stupisce che il tour sia stato funestato da qualche piccolo incidente – niente di drammatico se confrontato con quanto era avvenuta l’anno prima a Milano (vedi box a pag. 58). La band doveva esibirsi a Vancouver. Mentre i fan erano in fila per acquistare biglietti, si verificarono atti vandalici contro il luogo che avrebbe ospitato il concerto, il Coliseum. Non erano i primi incidenti che si verificavano a Vancouver: l’anno precedente 3mila ragazzi rimasti senza biglietto avevano tentato di forzare il cordone di polizia, inutilmente. Le autorità cittadine decisero che non ci sarebbe stato alcun concerto dei Led Zeppelin, che spostarono l’esibizione a Seattle il 18 giugno, nonostante ne fosse già prevista una per il 19. Nella città dello Stato di Washington, i fan tentarono a più riprese di sfondare il fronte del palco. Quando la situazione divenne insopportabile, Grant richiamò la band nel backstage e ci fu un quarto d’ora di pausa per permettere che tornasse l’ordine. Sempre a Seattle il gruppo rese omaggio al chiassoso garage rock del Nordovest con una versione di Louie Louie, inno locale suonato dai Kingsmen che, assieme ai Led Zeppelin, negli anni Ottanta avrebbero esercitato un’influenza decisiva sulla nascita del Seattle Sound.

Quando, il 25 giugno, il gruppo arrivò al Forum di Inglewood, Los Angeles, un posto che il gruppo poteva chiamare casa, era chiaro che quel tour era qualcosa di speciale – e che si era rivelata un’esperienza massacrante. Quel concerto e quello di due giorni dopo alla Long Beach Arena sono oggi parzialmente immortalati nel triplo live How The West Was Won. Fece scalpore anche quello che accadde prima e dopo le esibizioni. Gli Zeppelin tennero banco lungo il Sunset Boulevard e nei club di Hollywood e Page conobbe Lori Maddox, una groupie quattordicenne di cui s’innamorò e che incappò nell’ira della regina di tutte le groupie, Miss Pamela. Sarà proprio Lori a descrivere Page come “la persona più romantica del mondo”, un uomo “dolce e gentile”.

Il clima particolarmente arido di certe zone degli States non fece bene alla voce di Plant. Racconta Davis: “Nei climi desertici del Texas e dell’Arizona, gli Zeppelin uscivano dal loro aereo con l’aria condizionata, piombavano per pochi istanti nel caldo opprimente del deserto e poi entravano in una limousine con l’aria condizionata. La voce di Plant si incrinò rapidamente; per il resto della tournée mantenne una dieta di tè caldo con limone e miele. Alle carenze della voce, compensò con la cruda energia sessuale. Si piegava all’indietro e il suo intero corpo tremava mentre emetteva potentissime urla”.

In primavera il gruppo aveva cominciato le session di registrazione del quinto album, Houses Of The Holy, la cui pubblicazione, inizialmente prevista alla vigilia del tour statunitense, era slittata. Nella scaletta dei concerti apparivano perciò alcune canzoni appena registrate e ancora inedite, di cui gli Zep testavano l’impatto sul pubblico: The Ocean, Dancing Days, lo strumentale Walter’s Walk e Over The Hills And Far Away, quest’ultima uscita come singolo da meno di un mese. Durante il set acustico fu eseguita anche Black Country Woman, che avrebbe visto la luce solo nel 1975, nell’album Physical Graffiti. Quando arrivarono a New York, i quattro Led Zeppelin ne approfittarono per tenere alcune session agli studi Electric Lady con Eddie Kramer, per lavorare a Houses Of The Holy, che in un concerto Plant presenterà come Burn Like A Candle.

Fu proprio durante i concerti americani del ’72 che Stairway To Heaven divenne non solo il brano più famoso del gruppo, ma un autentico monumento rock. In quegli stessi giorni, John Paul Jones si ritagliò maggiore spazio all’interno del gruppo, passando dal ruolo di anonimo bassista a quello di strumentista di punta che suonava anche organo, piano e mellotron, finalmente al centro della scena nei bis, durante l’esecuzione di Thank You.

“I Led Zeppelin dal vivo erano unici”, ricorda Fallon, “per la loro capacità di essere al tempo stesso intensi e sottili, potenti e delicati, tecnicamente dotati ed espressivi, arrapati e romantici.”

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Silently Ravaging America

Qualcuno contendeva la scena ai Led Zeppelin. Nel giugno ’72, lanciati verso la vetta della classifica statunitense col doppio Exile On Main Street, i Rolling Stones si esibivano negli stessi luoghi in cui suonavano gli Zeppelin, a volte a distanza di pochi giorni: la Cobo Hall di Detroit, Michigan; il Forum di Montreal, nel Quebec; il Garden di Boston, Massachusetts; il Coliseum di Charlotte, North Carolina; lo Spectrum di Philadelphia, Pennsylvania; il Coliseum di Seattle, Washington; il Coliseum di Denver, Colorado; l’International Sports Arena di San Diego, California (gli Stones il 13 giugno, gli Zep il 23); il Forum di Inglewood, a Los Angeles. Quando si trattò di suonare a New York, gli Stones scelsero il prestigioso Madison Square Garden, ricevendo tutta l’attenzione possibile della stampa, mentre gli Zeppelin si ‘accontentarono’ del Nassau Coliseum di Long Island. “Suoniamo qui e non al Madison Square Garden”, disse John Paul Jones, “perché affittare quel posto costa 5mila e 300 dollari, un’assurdità.”

I due gruppi si sfidavano a distanza e la loro affermazione strabiliante dimostrava che il rock non era più un bizzarro passatempo per fricchettoni in attesa di qualcosa di meglio da fare nella vita, ma un’industria che muoveva un sacco di soldi e provocava reazioni viscerali nel pubblico. Una forza con cui fare i conti. Se i fan accorsi in massa agli show di Zeppelin e, in misura minore, Rolling Stones dettero ragione a entrambi i gruppi, la risonanza mediatica degli eventi fu impari: gli Zep furono snobbati, mentre tutti si concentravano sui Rolling e sul pittoresco seguito che si portavano appresso e che comprendeva lo scrittore Truman Capote, il regista Robert Frank, che stava girando il rockumentario Cocksucker Blues, un sacco di groupie e barili di droga (vedi anche il libro di Robert Greenfield A Journey Through America With The Rolling Stones). La corte che seguiva gli Stones in America era un miscuglio di freak e di intellettuali, una carovana che portava in giro per il Paese, da ovest verso est, un messaggio di liberazione sociale e culturale – o almeno così veniva descritta dai mass media statunitensi rapiti da tanta bizzarria – nell’atmosfera d’imperante paranoia che si respirava negli Stati Uniti, nel bel mezzo dell’escalation in Vietnam e della radicalizzazione dello scontro sociale.

La strafottenza e brutalità dei Led Zeppelin, al contrario, non piacevano alla stampa. Il loro viaggio andava in direzione opposta, da est verso ovest, e non portava alcun messaggio di libertà: la prendeva con la forza e tante grazie. Lo sapeva bene la giornalista di Life Ellen Sander, che accusò il batterista John Bonham di tentato stupro. Come aveva scritto Variety, “l’ossessione di questo quartetto per il potere, il volume e la teatralità melodrammatica lascia poco spazio per le raffinatezze messe in mostra dagli altri gruppi britannici”. Se le trasgressioni di altre band permettevano una lettura intellettuale, forse perché quei gruppi erano nati e cresciuti con la contestazione e i loro dischi ne erano diventati in qualche modo la colonna sonora, i Led Zeppelin erano troppo rozzi per permettere un simile meccanismo e la loro musica troppo rumorosa e volgare per attirare la benevolenza dell’intellighenzia sinistroide. Erano il prototipo d’un nuovo tipo di rock star, apparentemente insensibile alla correttezza politica dei figli dei fiori: gli Zeppelin richiedevano un’adesione viscerale, istintiva, non mediata. La loro noncuranza del parere dei mass media attirava antipatie tanto quanto la determinazione nell’esplorare il lato oscuro dell’esistenza esercitava un fascino sinistro e irresistibile sui ragazzi che andavano ai loro concerti.

Gli Zeppelin soffrivano il confronto con gli Stones, anche se, come ricoda Fallon, “quel che contava per loro era la musica”. Davis ricorda che l’influente Rolling Stone, in quegli anni ancora in sintonia con quanto accadeva nel mondo della controcultura americana, menzionò a malapena il tour dei Led Zeppelin. “A chi interessa sapere che i Led Zeppelin hanno stabilito il record di presenze”, si chiese Page (citato da Davis), “in questo o quel posto quando Mick Jagger se ne va in giro con Truman Capote?”

Per contrastare l’indifferenza, se non l’ostilità dei mass media, dal successivo tour britannico sarebbe stato ingaggiato proprio BP Fallon. Nell’intervista di Cameron Crowe, Plant ricordava: “Decidemmo di affidarci a un PR proprio durante quell’estate: facevamo incassi maggiori di tanta gente glorificata dalla stampa. Senza essere troppo egocentrici, pensammo che era arrivato il momento di far sapere alla gente che facevamo altro oltre a mangiare donne e tirare le ossa fuori dalla finestra. Ma non ci sentivamo in competizione con gli Stones”. Ricorda oggi Fallon: “A un certo punto il padre di Robert chiese al figlio come mai non comparisse mai sui giornali. Quel giorno decisero di ingaggiarmi. Per me non era un dovere: diffondere la musica dei Led Zeppelin e godermi i loro concerti brillanti era un piacere. Non feci poi molto: visto il rapporto magico tra il gruppo e il pubblico, sapevo che la stampa sarebbe tornata in ginocchio da noi. Lavorai con loro fino all’ultimo concerto inglese a Knebworth nel ’79. Se li sento ancora, dopo tutti questi anni? La magia, come l’amore, non finisce mai”.

Nonostante gli sforzi tesi a ricucire lo strappo tra il gruppo e la stampa, il tour americano del ’72 fu dal punto di vista mediatico una piccola debacle: i Led Zeppelin s’imposero come forza musicale e commerciale, non culturale. Ma per dirla con Capote, che in quei giorni preferiva seguire gli Stones, in fin dei conti “il fallimento è il condimento che dà sapore al successo”.

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