07/03/2011

LUCINDA WILLIAMS

BLESSED (LOST HIGHWAY / UNIVERSAL)

Lo ha dichiarato più volte, Lucinda Williams, e l’ha confermato anche nel corso dell’intervista concessa a JAM: questo nuovo album è il primo nel quale finalmente è riuscita a scrivere quelle canzoni che prima non le riuscivano. A scrivere guardando oltre la propria esperienza personale, trasformandola, provando a universalizzarla. Che cosa è cambiato, allora, dalla sua precedente prova discografica, Little Honey, di tre anni fa? Non è un mistero ormai per nessuno, perché è ancora lei stessa a raccontarlo, ed è tutto molto semplice, in verità. Si è sposata, durante un concerto a Minneapolis nel settembre del 2009 (e se i matrimoni vi commuovono su You Tube trovate la cerimonia, lancio del bouquet incluso), ha una nuova casa a Los Angeles e una nuova vita, felice. Certo, il rischio che questa stabilità, tutto sommato molto piccolo borghese per una come lei, le tagliasse la benzina dell’ispirazione, c’era. E prima di provare a raccontare cosa è questo nuovo Blessed, diciamo quindi subito ciò che non è. Non è un happy album, per fortuna (ma era davvero difficile immaginarselo), non è il racconto buonista di una realtà trasfigurata da una condizione (finalmente) di serenità. È però, senz’altro, un album diverso dagli altri, che conserva le caratteristiche distintive della personalità artistica di Lucinda Williams, nei testi quanto nei suoni, ma che si espande, evolvendosi lungo quelle stesse direttrici. L’essere oggi una moglie felice (lui è Tom Overby, già suo manager), non le impedisce di aggiungere due nuovi ritratti alla galleria dei suoi bad boys e proprio all’inizio di Blessed, nell’accoppiata di Buttercup (il primo singolo dell’album) e Don’t Know How You’re Living. Ma questi non sono ritratti come gli altri. Se il protagonista di Buttercup, come Lucinda ha dichiarato da qualche parte, è lo stesso che ha ispirato la Jailhouse Tears contenuta in Little Honey, certamente lei non è più la stessa. Lo dicono le parole – «Dici di sentirti un fallito e vorresti riportare tutto indietro / Ma devo dirti, dolcezza, che è un po’ troppo tardi per farlo» -, lo dicono l’intonazione e la declinazione del testo quasi rabbiosa contrappuntata dagli incisi delle chitarre. È una sofferenza che non lascia spazio al rimpianto, un addio senza rimorsi, così come il ricordo cristallizzato di Don’t Know How You’re Living, incartato, a differenza di Buttercup, nello slow motion pacificato di una chitarra slide. Un mood che si dilata nella traccia successiva, una delle due che Lucinda Williams ha inserito in memoria di persone a lei vicine, scomparse prematuramente. Copenhagen è dedicata all’ex manager Frank Callari, morto nell’ottobre del 2007, mentre Lucinda si trovava proprio in quella città, in tour. Un lutto forse troppo duro da elaborare, se ci sono voluti oltre tre anni per condividerlo su album, che Lucinda sublima nella diretta trasposizione, lirica e musicale, di uno stupore che non si può dire se non raccontandolo per tale, nella accettazione attonita, ma placata, di un destino che non possiamo governare. E la morte dell’amico si stempera e si frantuma, allora, nella irrealtà di una città straniera, nella neve e nei suoni di un luogo straniante, nelle parole di un racconto amplificato da un consolatorio tappeto elegiaco di chitarre (che riecheggiano quelle di Chris Isaak in Wicked Game). Ben diverso, invece, il tentativo di elaborazione del suicidio di Vic Chesnutt, un tentativo irrisolto che esplode nel bagno di sangue e chitarre di Seeing Black, uno dei climax dell’album. Qui l’incapacità di accettazione di un gesto tanto definitivo quanto umanamente inspiegabile si trasforma in un magma potente e rabbioso alimentato anche dalle tastiere di Rami Jaffee, una miccia che la chitarra di Elvis Costello conduce ad esplosione, seguendo sentieri cari al più rugginoso Neil Young.
Se fin qui Lucinda, in fondo, pare limitarsi a scavare nel passato per chiudere qualche conto ancora in sospeso, è la title track, giusto a metà album, a inquadrarne l’intero percorso. Col suo incedere solenne da mantra profano, nella cinematica sequenza di una umanità silenziosa e senza volto, disperata, abbandonata, violentata, Blessed celebra la bellezza e la ricchezza della vita, di ogni vita, una ricchezza che può essere patrimonio di tutti, a patto che la si voglia cercare proprio dove, invece, i nostri occhi non vogliono guardare. Ed è questa capacità di guardare oltre il suo (e il nostro) privato, la scoperta che Lucinda Williams condivide nelle canzoni di Blessed, nelle tenere canzoni d’amore come Sweet, Sweet Love e Kiss Like Your Kiss (nuova bellissima versione), nella pietas civile di Soldier’s Song, nei ritratti dei bad boys, nella contemplazione della morte e nella celebrazione del risveglio di The Awakening. Prodotto da Don Was, che regala profondità tridimensionale alla voce di Lucinda e alle canzoni un suono Seventies dall’intensità di un live, Blessed viene pubblicato anche in versione deluxe con un secondo cd, The Kitchen Tapes (non ancora disponibile mentre scriviamo queste note) che contiene le versioni demo di tutte le canzoni.

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