04/01/2011

MARIANNE FAITHFULL

HORSES AND HIGH HEELS (NAIVE)

Come dite? Un disco della Faithfull prodotto da Hal Willner e registrato a New Orleans? Probabilmente anche migliore del precedente Easy Come Easy Go, che tanto ci era piaciuto da dedicare alla musa degli Stones una cover story tutta sua, poco più di due anni fa? E quanti dischi avrebbe inciso questa signora? Ventitrè? Impossibile. Ma vero. Come d’altronde è sempre stato per Marianne, una che ha fatto dell’eccezionalità la sua normalità, nell’arte così come nella vita – che poi, per lei, sono un po’ la stessa cosa. Ogni sua opera non può infatti non avere una valenza anche esistenziale, non può non rispondere a un’esigenza espressiva strettamente legata al vissuto. Se l’album del 2008 segnava la miracolosa ripresa dopo un’improvvisa malattia, Horses And High Heels la vede riemergere indistruttibile da una profonda fase di depressione, cui si era accompagnata la fine di una relazione importante: in tal senso, gli sgargianti colori arcobaleno della copertina lasciano adito a pochi dubbi. Insomma, ancora una volta arte come necessità, questione di vita o di morte: dai tempi di Broken English, in fondo, non è cambiato molto. E si sente. Come da ormai cinque decenni a questa parte ci ha abituati, la nuova tappa dell’affascinante percorso dell’artista britannica è assieme una conferma e una sorpresa. Conferma perché il coinvolgimento del produttore newyorchese, che si ricorderà già in cabina per il precedente lavoro nonché per l’acclamato Strange Weather (1987), è sicura garanzia di qualità. Sorpresa perché nella rodata formula di Easy Come Easy Go (session men e guest straordinari + cover ricercate) stavolta la Faithfull innesta semi di vita vissuta, in forma di 4 brani autografi come sempre diretti, sinceri e disarmanti.
Un po’ di dati: le canzoni di Horses And High Heels sono state registrate nel corso degli scorsi settembre e ottobre nel quartiere francese di New Orleans, con l’aiuto tra gli altri del chitarrista John Porter (già al fianco degli Smiths in veste di produttore), il fenomenale organista Bob Andrews (dei mai troppo elogiati e ricordati Brinsley Schwarz), la figlia d’arte Jenni Muldaur (di Geoff e Maria) ai cori, gli arrangiamenti per archi di James P. Walsh e Mark Bingham e le ospitate illustri del piano di Dr. John, di Wayne Kramer degli MC5 e della chitarra dissonante e minimale di Lou Reed. E se leggendo i crediti viene già l’acquolina in bocca, l’ascolto non tradisce certo le aspettative, rivelando un amalgama di soul, rock, folk, r&b e blues davvero riuscito e ispirato nella sua spontaneità (come per Easy Come Easy Go, il tutto si è svolto rigorosamente in presa diretta). Gli arrangiamenti dunque non possono che essere impeccabili, precisi e caldi, a fronte di una varietà di toni e stili invidiabile; e ancora una volta a tenere tutto insieme non può esserci che lei, la sua voce e la sua interpretazione. «Non c’è un vero tema», ha dichiarato a proposito della scelta delle cover, «il tema sono io». Niente di più autentico, semplicemente perché qualsiasi canzone nelle mani di Marianne assume un nuovo significato, acquista una potenza espressiva inedita e, in definitiva, unica. Se due anni fa la selezione era caduta in egual misura tra novità e passato remoto della musica popolare, come a voler coprire il più ampio spettro possibile (dagli Espers a Billie Holiday, per intenderci), stavolta il criterio appare più istintivo, in linea con il sentimento globale dell’album, in un gioco di chiaroscuri emozionali. Archiviato l’ennesimo flirt con i rocker maledetti di turno (The Stations dei Gutter Twins di Mark Lanegan e Greg Dulli, episodio suggestivo ma forse il più prevedibile del lotto), la cupezza fa spazio alla malinconia tutta folk di That’s How Every Empire Falls di RB Morris e Love Song di Leslie Duncan, mentre No Reason, Gee Baby e Back In Baby’s Arms (rispettivamente di Jackie Lomax, Sylvia Robinson e Allen Toussaint) sono di gran lunga i momenti più rilassati e scatenati, nelle loro vibrazioni r&b tipicamente New Orleans. Niente però tocca le vette di lirismo di Past Present And Future delle Shangri-Las (forse l’apice della scaletta) e Goin’ Back di Carole King, le interpretazioni che più si accostano al mood intimo e irrimediabilmente personale degli inediti: nella prima si rivive la terribile rassegnazione di non potersi più innamorare dopo essere stati feriti, dove la seconda vuole guardare alla vita e al futuro con indefesso ottimismo («Vivere i miei giorni, anziché contare i miei anni»). Stessi temi che ritroviamo in Why Did We Have To Part (struggente ma risoluto addio a un compagno di lungo corso), Prussian Blue (elogio all’amata Parigi), la title track (allegoria di un’esistenza attraverso immagini poetiche, rievocate da vecchi ricordi) ed Eternity (il piacere di tornare a vivere al massimo); fino a The Old House (testo scritto dal drammaturgo irlandese Frank McGuinness), la ballata maudit che Nick Cave forse non riesce più a scrivere. Chiude il sipario. Applausi.

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