“Le mie canzoni parlano da sole”: così Neil Young ha commentato i brani del suo nuovo disco, e l’impressione che si ha guardando la bella copertina è quella di essere di fronte a un lavoro molto personale in cui si rincorrono i ricordi dell’infanzia vissuta in Canada.
Nonostante il periodo poco felice appena trascorso, caratterizzato dal ricovero in ospedale per asportare un aneurisma cerebrale e dalla morte del padre, Neil Young, che ha quasi sessant’anni (li compirà il prossimo 12 novembre), con questo disco tira le somme di tutta la sua carriera. Parlando delle canzoni ha detto: “Ho semplicemente seguito le mie inclinazioni; tuttavia questo tipo di musica (il country, nda) mi permette maggior successo nel comunicare”.
Il raccontarsi è dunque diventato anche l’occasione, prosegue Young, per “dimostrare il rispetto per le radici della country music e per la terra dove possiamo stare oggi”. Le continue autocitazioni e la costante sensazione di déjà vu che pervadono Prairie Wind sono il chiaro segno che con questo disco il canadese ha voluto chiudere un cerchio aperto nel 1972 con il capolavoro Harvest e proseguito con alterne fortune con Comes A Time, Old Ways, lo splendido Harvest Moon e Silver & Gold. Cambiano rispetto a questi dischi i contenuti, l’impatto lirico, la profondità dei testi: mai come ora Neil Young parla direttamente di sé nelle canzoni in cui il protagonista è lui insieme ai suoi ricordi.
Ad affiancarlo troviamo un gruppo di vecchi amici riscoperti per l’occasione tra cui spiccano i nomi di Spooner Oldham alle tastiere, Ben Keith alla pedal steel, Chad Cromwell alla batteria, Rick Rosas al basso ed Emmylou Harris ai cori.
Il disco è un fluire continuo di immagini poetiche che, come le pagine di un vecchio album di famiglia, vengono sfogliate davanti ai nostri occhi. Si comincia con The Painter, la cui dolcissima melodia entra dentro sin da subito fino a colpire al cuore con il verso “Se segui tutti i sogni, potresti perderti”. Seguono poi due perle come l’elegia epica di No Wonder, un brano che se fosse stato scritto vent’anni fa avrebbe fatto gridare al capolavoro, e le confessioni in falsetto di Falling Off The Face Of The Earth in cui Neil Young sfoggia una insospettabile capacità di sfruttare tutto il suo registro vocale. Il disco pecca un po’ di incostanza e non è sempre su alti livelli come nel caso della title-track, dedicata al padre, su cui pesano le eccessive lungaggini strumentali o della quasi stucchevole ninna nanna Here For You dedicata alla figlia. Altri spunti interessanti vengono però dalla trascinante Far From Home, che durante il film-concerto al Ryman Auditorium di Nashville tenuto lo scorso agosto Young ha introdotto dicendo: “Questa canzone significa molto per me. L’altro giorno ho cominciato a piangere mentre la suonavo. Sono ricordi di famiglia”; o ancora la ballata orchestrale It’s A Dream.
This Old Guitar, cantata in duetto con Emmylou Harris e dedicata alla chitarra da cui non si è mai staccato (“L’ho prestata solo a Bob Dylan quando gli diedi il mio tour bus”) e che un tempo apparteneva ad Hank Williams. L’ultima zampata del disco è He Was The King, dedicata ad Elvis Presley e caratterizzata da un andamento travolgente, con i fiati di Wayne Jackson dei Memphis Horns in bella evidenza. Chiude il disco When God Made Me, una ballata pianistica già eseguita nel corso del Live 8 che non lascia il segno se non la sensazione che con questo brano Young abbia voluto scrivere la sua Imagine.
Come nel caso di Greendale al disco è allegato un dvd contenente le immagini delle session di registrazione, mentre a fine anno ne verrà pubblicato un altro contenente il film concerto diretto da Jonathan Demme, registrato allo storico Ryman Auditorium di Nashville gli scorsi 18 e 19 agosto.