16/05/2007

New Guitar Heroes

La storia del rock è fatta di momenti, di piccoli episodi destinati però a passare direttamente dalla cronaca alla leggenda. Vengono in mente, in ordine sparso, l’esibizione di Bob Dylan al Newport Folk Festival del ’65, il brano Eruption sul primo album dei Van Halen o Voodoo Chile (Slight Return) dal capolavoro Electric Ladyland di Hendrix; i virtuosismi di Frank Zappa sui solchi incandescenti di Shut Up’n Play Yer Guitar, accompagnati dalle impossible guitar parts del piccolo genio di origine italiana Steve Vai, e i riff assassini di Rock’n’Roll e Livin’ Lovin’ Maid di zeppeliniana memoria. Veri e propri orgasmi musicali, senza ricorrere a creme o pillole azzurre.

L’elenco potrebbe continuare, le sequenze da immortalare in un’ipotetica cineteca rock si sprecano. A legarle idealmente uno strumento, che da mezzo secolo vive et impera nel regno delle note: la chitarra.

Grazie all’intuito e al talento di un manipolo di benemeriti, equamente divisi tra tecnici e artigiani, abbiamo così assistito all’evoluzione di una specie capace di trasformare radicalmente la scena musicale, il concetto stesso di canzone. Gente come Les Paul e Leo Fender hanno sovvertito ogni regola preesistente, donando dignità e onore a uno strumento considerato alla stregua di figlio di un dio minore, relegato per lungo tempo nelle retrovie quasi timoroso a mostrarsi al pubblico. Modelli come la Fender Stratocaster o la Gibson Les Paul sono diventati vere icone, spesso in simbiosi con chi ne accarezza le corde. Un legame indissolubile, che spesso solo la morte scioglie. Molto meglio di una donna, come ha sottolineato ironicamente qualcuno, perché “non fa scenate se rientri tardi, non russa a letto e non soffre mai di mal di testa”.

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Storicamente, gli anni Cinquanta segnano la nascita della chitarra elettrica, i Sessanta la sua ascesa al trono, i Settanta l’evoluzione tecnica in chiave progressiva e metal, gli Ottanta una battuta d’arresto e i Novanta il ritorno in auge, grazie anche al movimento grunge con gruppi come Nirvana e Pearl Jam. E oggi, ma soprattutto domani, cosa ci riserva il futuro a sei, a volte sette, corde? Credo sia importante analizzare il presente per capire meglio l’eredità, a volte ingombrante, che le nuove leve si sono trovate a gestire, con cui far di conto. Con l’avvento del terzo millennio la chitarra resta uno state of the art, uno stato dell’arte, o perde terreno? Ma soprattutto viene da chiedersi come i protagonisti, dall’epoca dei Cream e di Hendrix, ma pure del primo Eddie Van Halen e dei Clash, plasmino un proprio stile. Perché, se è vero che dietro ad un grande uomo c’è sempre una ancor più grande donna, è altrettanto vero che in natura, come nella musica, nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma: in fondo, come un giorno mi confidò Keith Richards, “le note sono solo sette, cosa pretendono da noi?”.

Ma chi sono i nuovi dei e perché suonano in quel modo l’Ibanez Universe, la BC Rich Warlock, una Esp o una Schecter Scorpion Tribal? E possedere un bagaglio tecnico aiuta o si può rivelare solo un’inutile zavorra?

Billie Joe Armstrong dei Green Day ha sull’argomento idee chiare: “Non so leggere la musica e conosco solo qualche accordo, ma questo è tutto ciò di cui hai bisogno ragazzo!”. Boutade di un punk ormai con un solido conto in banca? Forse no, se il vecchio Keith ebbe a dire, con quella voce strascicata ancora impastata di Jack Daniels: “Non sopporto più la gente che mi rinfaccia di sapere tre accordi. Non è vero, ne so suonare solo due!”. Ma comporre una bella canzone con due accordi è la cosa più difficile del mondo, da qui il genio della Pietra Rotolante.

Dunque la tecnica è solo un optional? L’impressione è che i tempi del virtuosismo siano alle spalle, oggi si tende a preferire il suono di gruppo ai voli pindarici solisti, e questa è una piccola svolta storica, perché se andiamo ad analizzare il passato molte leggende si sono create attorno alla personalità e al tocco di singoli musicisti, dotati sì di enorme carisma, ma pure di una preparazione, come direbbe qualcuno, non indifferente. Mark Tremonti dei Creed ammette di essere un autodidatta, cresciuto consumando i polpastrelli tendendo l’orecchio al suono classico della Stratocaster di Stevie Ray Vaughan, la MusicMan di Eddie Van Halen o la Jazzmaster di Kurt Cobain. Come lui tanti altri, a cominciare dall’enfant terribile Deryck Whibley, altrimenti noto come Bizzy D., dei Sum 41. “Ho iniziato a suonare la chitarra al culmine della fase Guns N’ Roses/Metallica”, spiega. “Tutto era basato sulle chitarre di Slash e Kirk Hammett, così mi sono detto: devi imparare a suonarla. Un mio cugino mi prestò una sgangherata acustica e iniziai a strimpellare, senza capire assolutamente ciò che facevo. ‘Quell’accordo non va’, mi diceva. E io: ‘Ah questa corda qui, dove devo mettere il dito?’.”

Ciò non ha impedito a lui, e ad altri, di assurgere al ruolo di idoli di una generazione. Naturalmente c’è anche l’altra campana. Greg Tribbett dei Mudvayne, l’ultimo acuto in ordine di tempo di un rock devastante, ammette: “Ammiro molto Rob Zombie ed è da lui che ho preso ispirazione nel creare uno stile personale. Ritengo sia necessario avere solide basi su cui costruire un sound concreto e d’impatto”.

Riguardo la valenza tecnica, può essere utile anche l’osservazione di Mick Thompson degli Slipknot, forse oggi l’act più trasgressivo e famoso del genere ribattezzato ‘rock metallurgico’. “Io e Jim (Root, l’altro chitarrista, nda) abbiamo un passato di insegnanti, e siamo colpevoli di aver istigato a delinquere musicalmente molte band, oltre ad aver militato noi stessi in alcuni gruppi shredded (il verbo to shred ha, tra i vari significati, quello di grattugiare, e così è stato appunto definito il suono distorto e greve caratteristico di questo genere, nda). In qualche modo credo che tale preparazione abbia influito sulla nostra musica, e dunque consiglio ai ragazzi di dedicare un po’ del loro tempo a lezioni o video didattici, ma in una band come gli Slipknot ci sono altre cose altrettanto importanti: il lavorare come una squadra e lavorare sodo, senza pensare al proprio tornaconto solista.”

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Sulla querelle torneremo più avanti. Ora analizziamo l’aspetto forse più interessante: capire perché certe band oggi suonino così. E ancor prima, cosa offre il mercato di interessante sul fronte chitarristico? Cercando di fare il punto, di tastare il polso bisogna subito ammettere che, in verità, le novità non sono poi molte. Negli ultimi anni si può verosimilmente affermate che l’unica vera svolta è avvenuta grazie al movimento nu metal, un genere che ha spazzato via la concorrenza offrendo una nuova prospettiva del lavoro chitarristico. I nomi che vengono subito alla mente sono almeno due, i Linkin Park e i P.O.D.

Marcos Curiel, chitarrista di questi ultimi (P.O.D. è l’acronimo di Payable On Death) spiega: “Per me il metal, inteso nel significato classico della parola, è stato stravolto, come fagocitato: sento solo urla, chitarre scordate e bassi che vanno per conto loro. Si è persa la voglia di rischiare, per questo il nu metal, anche se non condivido la necessità di appiccicare sempre etichette, si è imposto. Perché ha cercato di mescolare in giuste dosi l’hip-hop, il punk, il rap e l’hard rock canonico. Molti mi hanno chiesto da dove arriva quel suono particolare della mia chitarra. Sono cresciuto ascoltando gli U2 di The Edge, gli AC/DC di Angus Young ma soprattutto Carlos Santana. Non è un caso che abbia modellato su di lui il mio stile. Io sono di origini messicane e da ragazzo non mi perdevo un suo concerto, macinando a volte centinaia di chilometri. Quando lui usava la Les Paul me ne comprai una, poi passò alla Paul Reed Smith, ed io pure”.

Certo fa specie notare come uno dei simboli del nu metal dichiari pubblicamente il suo amore per Santana, gran genio delle sei corde ma, francamente, con poco in comune con la musica dei P.O.D.: “Di lui ho sempre ammirato il modo in cui tratta le note, quel suo sustain e il calore della musica”. Sorprendente, ma è sufficiente ascoltare Guitarras de amor dall’album Satellite per capire tante cose. “Si tratta di una chitarra classica, un brano in stile flamenco: un mio amore giovanile.” Curiel, il musicista che non ti aspetti. “Consiglio ai ragazzi di andarsi a risentire i primi album di Santana, soprattutto Abraxas. Un nome, il suo, spesso snobbato in questo mondo ma, al contrario, fonte continua di ispirazione.”

Di altra estrazione Brad Delson dei Linkin Park: “Ho imparato tutto dagli Skid Row, i Deftones e i Radiohead”, racconta. “Il mio modo di suonare risente molto di questi gruppi, anche se poi ho cercato di metterci del mio: se copi qualcuno, per bene che tu lo faccia, andranno sempre a sentirsi l’originale”. Una canzone che può rappresentare bene il suono futuro dei Linkin Park? “Senz’altro Papercut (dall’album Hybrid Theory). L’idea è di mescolare vari generi, dando origine a un ibrido che sino ad ora si era tentato solo in via teorica.”

Sullo stato attuale della chitarra Jerry Horton dei Papa Roach si dichiara bipartisan. “Esistono due facce della stessa moneta, il recto e il verso. Lo stesso vale nella musica. Da una parte si muove qualcosa, si tenta di superare una certa stagnazione, una staticità pericolosa, per spingersi oltre il già sentito; dall’altra le case discografiche, il business insomma, puntano invece proprio sul proporre cose collaudate. Mangiandosi la coda, perché se il successo immediato è probabile, alla lunga mostrerà certamente segni di stanchezza provocando disaffezione da parte del pubblico. Lo stesso vale per il mio strumento. Certi riff, determinate costruzioni e fraseggi possono risolverti molte situazioni, possono cioè fare da hook, da amo, ma approfittarne sarebbe un errore. Per questo sono alla continua ricerca di nuove vibrazioni, magari andando a ripescare in un passato remoto, quando un certo sound si definiva classico. Penso a due indiscussi maestri come Jimmy Page e Angus Young, anche se la mia prima influenze sono stati i Metallica. Seguiti da Fugazi, Pixies e Red Hot Chili Peppers.”

I nomi di Young e Page, insieme quello di Van Halen ricorrono spesso. E sarebbe interessante andarsi a risentire certi episodi di Led Zeppelin II, Back In Black o Van Halen per capire il link tra quei suoni e certi fraseggi di oggi. Influenze più o meno profonde che d’altronde i diretti interessati non negano né rifiutano stizziti. “Quando ho sentito per la prima volta il brano Eruption di Eddie Van Halen sono saltato sulla sedia”, ammette con disarmante candore Mike Mushok degli Staind, rivelazione del panorama rock americano con l’album Break The Cycle (quattro milioni di copie vendute e quotazioni al borsino rock in continua e rapida ascesa). “Se poi pensi che è riuscito a fare certe cose con una chitarra costruita praticamente in casa con pezzi presi da altri modelli, una sorta di Frankenstein, ti rendi conto chi hai di fronte.”

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L’osservazione di Mushok offre il destro per toccare un altro punto interessante. Quanto il suono risente della cosiddetta ‘customizzazione’ dello strumento?

Argomento da non sottovalutare. Una volta era un punto d’orgoglio per ogni musicista che si rispettasse modificare la chitarra secondo gusti e soluzioni tecniche. Pensiamo a Hendrix, alle corde disposte al contrario perché pizzicate da un mancino, o alla mitica Blackie di Clapton, assemblaggio di alcune Stratocaster comprate per qualche centinaio di dollari e poi sezionate scegliendo le parti migliori di ognuna. E Brian May, che ha ricavato la sua rossa da un pezzo di legno del caminetto di casa aggiungendovi, per la parte meccanica, materiale acquistato dall’elettricista sotto casa. Oggi, direte, si è perso il gusto per una gratificazione di questo tipo. Errore. La differenza è una sola: l’elemento puramente artigianale di allora è stato soppiantato dal progresso tecnologico. Nascono dunque i signature model, alla realizzazione dei quali il musicista collabora attivamente con lo staff tecnico della casa produttrice.

“Alcune piccole differenze possono influire molto sulla resa cromatica del suono, modificarne il timbro”, ricorda sempre Mike Mushok. E aggiunge: “Forse oggi non si trasforma radicalmente una chitarra, ma vi si apportano lievi modifiche, ai pick up o alla circuitazione interna: elementi non visibili ma che contribuiscono a creare un sound riconoscibile”. Dello stesso avviso è Robert Turner dei Black Rebel Motorcycle Club, interessante novità americana capace di firmare un debutto sublime. “Oggi non c’è bisogno di snaturare uno strumento, cambiarne l’anima: basta sfruttarne al meglio certe potenzialità. Il mio suono, il mio approccio risente molto di certe influenze passate, dagli Stooges ai Ride. I due album della band di Iggy Pop sono veri monumenti rock. Spesso mi ritrovo a suonare alcuni passaggi, un riflesso quasi involontario, e di inserirli in qualche brano del gruppo. Certo è che quando ascolto I Wanna Be Your Dog o 1969 mi vengono ancora i brividi.”

Con gli Stooges dell’Iguana Iggy il discorso prende una piega diversa. Nel senso che non si tratta più di un singolo musicista, ma di una band. Il gruppo di Ann Arbor, Michigan, è citato spesso dai nuovi maitre à penser del pentagramma. Circondati da un alone di leggenda, nella loro formazione originale incidono due album esplosivi come Stooges (’69) e Fun House (’70), lasciando un segno indelebile nella storia del rock ed esercitando come pochi altri, mi vengono in mente i Velvet Underground, un’influenza palpabile sulle generazioni a venire. Non so se tutti quelli che hanno comprato il loro primo disco abbiano poi fondato un gruppo, Lou Reed & co. docet, sta di fatto che la forza devastante della chitarra di Ron Asheton, da sempre maldestramente sottovalutato, e la presenza magnetica di Iggy danno vita ad una combinazione esplosiva. P.O.D. e Linkin Park sono soliti proporre cover di loro brani, e James Jewel Osterberg è riconosciuto tra i padrini del punk prima, e del nu metal poi.

Un altro nome gira tra i bene informati, quello degli MC5 di Wayne Kramer e Fred Sonic Smith. Brian Welch e James Shaffer: le due chitarre dei Korn, i rappresentanti più famosi del rap metal (il loro album Follow The Leader debuttò nel ’98 direttamente al primo posto in America, con un impatto paragonabile a quello di Nevermind dei Nirvana), si dichiarano fan della band di Lincoln Park e confessano di aver attinto molto allo stile secco ed essenziale di Kramer. “Hanno inciso solo tre album”, dichiarano mentre gli occhi si illuminano d’immenso, “ma valgono più di un’intera carriera.”

Chi sono, i Motor City Five (MC5)? Sono stati definiti i più violenti oppositori dell’establishment a cavallo degli anni 60 e 70, con una forte connotazione politica che sposa suoni radicali e per quegli anni assolutamente innovativi. Proto punk potrebbe essere un aggettivo calzante, così come proto metal sono stati, e anche qui varrebbe fare una breve digressione, i Blue Cheer, anch’essi più volte tirati in causa, e a Wayne Kramer non dispiacerebbe, dati i ripetuti apprezzamenti per quel movimento vera, grande novità degli anni 70. Con la differenza rispetto al punk di Sex Pistols e Clash, che loro credevano veramente che il rock avrebbe potuto cambiare il mondo. Nel 1969 esce il loro album Kick Out The Jams ed è un pugno nello stomaco al perbenismo imperante. Fosse solo perché, per la prima volta, si ode, pur debitamente omesso nella prima stampa, il termine “motherfucker” nell’intro delle title-track. Ma tutti e tre i lavori a firma MC5 meritano un ascolto, potrebbero sorprendervi. Chitarristicamente parlando Kramer è un istintivo, fenderiano convinto, e un autodidatta che guarda con interesse al blues dei grandi maestri. Dal vivo, non a caso il debutto è la testimonianza di uno storico concerto tenutosi alla Grande Ballroom di Detroit nell’ottobre del ’68, è ancora più evidente l’eredità lasciata ai nipotini di oggi.

Ho incontrato qualche tempo fa Wayne, in occasione di un suo tour da solista, e il discorso è caduto sul futuro della chitarra. Mi ha fissato con aria interrogativa, poi ha borbottato qualcosa di cui ricordo distintamente poche parole, tra queste “oggi se uno vuole imparare a suonare come si deve uno strumento hai solo l’imbarazzo della scelta: ci sono i video didattici, i corsi in dispense, le clinics, i programmi multimediali via computer che garantiscono l’apprendimento almeno delle basi senza muovere il culo dalla poltrona di casa. Ai miei tempi dovevi arrangiarti: l’importante era riuscire a mettere qualcosa nello stomaco. Meglio se a pranzo e a cena”. Gli chiesi allora se rifarebbe tutto: “Sono stato un paio d’anni in galera nei 70 per detenzione di cocaina, e questo lo eviterei. Per il resto eravamo figli del nostro tempo, con tutte le implicazioni del caso, comprese quelle politiche. Oggi è diverso, però mi fa piacere quando sento qualche giovane virgulto attaccare il riff di Sister Anne (da High Times, nda) o Looking At You (da Back In The USA, nda)”.

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Se il rock devastante di Stooges e MC5 ha lasciato il segno, c’è un altro genere, più recente, che ha attecchito almeno all’inizio su molte band. La shredder music, l’ipetecnicismo che fa della velocità d’esecuzione e della difficoltà della struttura sonora due punti inalienabili e irrinunciabili del suo credo musicale. Ne sono esponenti e fondatori due veri e propri talenti come Joe Satriani e Steve Vai. Considerati assoluti precursori della musica di oggi, un rock che si accompagna al metal, al momento tendono però a venire, se non snobbati, certo relegati a figure di secondo piano.

Daron Malakian dei System Of A Down (il loro album Toxicity è stato spesso votato tra i cinque migliori dell’anno scorso) lo ammette apertamente. “Quando ero più giovane ascoltavo molto la loro musica, impazzivo cercando di capire come diavolo facessero, oggi invece ho spostato lo sguardo altrove, concentrandomi sulla canzone e non sull’assolo.” Già, l’assolo. Forse il vero spartiacque tra presente e passato. Dan Donegan dei Disturbed lo dichiara apertamente: “Una volta era un punto d’orgoglio, un momento irrinunciabile per un chitarrista, anche il meno dotato; oggi invece si tende a badare all’economia del pezzo, al suono di gruppo. Il virtuoso non esiste più, lasciando il posto ad un membro della band. Se ascolto certi dischi con lunghi soli, penso a Yngwie Malmsteen o lo stesso Vai, mi sembrano appartenere ad un passato remoto, anacronistico, privo di ogni legame con l’attualità”.

Ma non sarà che alla base di questa concordata rinuncia covi anche la consapevolezza di una inadeguata preparazione? “Può darsi”, ammette Mike Einziger degli Incubus, altra rivelazione americana. “Per quanto mi riguarda ho il culto per il perfect tone: se una chitarra suona uguale per tutti i pezzi di un album, allora siamo messi malissimo. Mi esercito molto, ma elaboro idee in previsione di un suono di gruppo, non le modello sul mio ego. Preparazione insufficiente? A volte sì, alcuni pensano che basti imbracciare una chitarra e mettersi a suonare. Errore. Esercitarsi è molto importante, ma confesso che non ho mai preso in considerazione un solo che superasse i dieci secondi: a parte che con i miei compagni arriverei allo scontro fisico, ma poi a che pro?”

In effetti, cui prodest? E qui arriviamo al punto nodale della questione. Non esistono più gli ego di una volta, nel senso buono sia chiaro. Un tempo il chitarrista, più spesso del cantante a meno che non si chiamasse Jagger, Plant o Mercury, era il punto focale, il centro di gravità permanente. Obbligato a segnare il proprio territorio per evitare ingerenze non desiderate. La superiorità doveva essere schiacciante, sul palco come su disco. Oggi l’approccio mentale è diverso, è la squadra che gioca e il solismo è tollerato, mai richiesto espressamente. Tim Fluckley degli Adema, band americana di rap metal tra le più gettonate con chiari riferimenti ai maestri del genere, i Korn, non esita a definire “stupida” la voglia di esporsi in prima persona dei chitarristi di una volta (per loro gli anni 80, quelli di Vai e Satriani, appartengono alla preistoria), arrivando a dire che “oggi nessuna band alimenta il mito del leader, ma l’immagine della band come team affiatato e originale”.

La conferma arriva da Clint Lowery dei Sevendust (il loro album III Sides To Every Story ha mandato in visibilio la critica e il pubblico americano, successo confermato dal recente Animosity): “Io amo il rock duro ma anche le ballate, cercando sempre di comporre insieme ai ragazzi della band: sono convinto che deve essere un lavoro d’equipe. L’unica maniera per realizzare un buon disco”. La loro Angel’s Son è infatti una splendida ballata, e qui entriamo in un altro campo, quello della chitarra acustica e jazz. L’altra metà del cielo a sei corde. Come per l’elettrica le giovani leve, Pete Yorn e Shelby Lynne ad esempio, guardano al passato, e a grandi come Neil Young, Eric Clapton e lo stesso Ben Harper il quale, sebbene debba parte della sua fama alla fedele Weissenborn, possiede un vero tesoro in strumenti acustici, mentre per gli amanti della fusion, i punti di riferimento restano Pat Metheny e John Scofield.

“Ritengo si possa fare ancora molto in campo chitarristico”, dichiara Pat. “Se puoi contare su un buon liutaio, con idee innovative e un pizzico di creatività, gli orizzonti si allargano notevolmente.” E Scofield precisa: “Non ci sono limitazioni all’estro di un musicista, soprattutto nel jazz. Alla base c’è l’improvvisazione, e su questa puoi costruire cose meravigliose. Per me la differenza è la vera fonte d’ispirazione, bisogna fare esperienze nuove, tentare soluzioni diverse, soprattutto etnico musicali: è in questo campo che la chitarra si avvantaggerà di più, in futuro”.

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