01/07/2010

NEW ORLEANS JAZZ & HERITAGE FESTIVAL

New Orleans, Louisiana, 23 aprile – 2 maggio 2010

Anche chi non ama particolarmente le grandi kermesse americane avrebbe qualche difficoltà a non farsi conquistare. A New Orleans è come fosse Natale, la gente si saluta con «Happy Jazz Fest!». Alla sua 41esima edizione, il festival celebra la musica e la cultura di New Orleans e della Louisiana, esaltandone tutti gli stili musicali: blues, R&B, gospel, cajun, zydeco, afro-caraibico, folk, latin, rock, rap, country, bluegrass e, naturalmente, jazz. Cent’anni fa, a New Orleans, nasceva Louis Prima, trombettista, songwriter, cantante italo-americano, le cui canzoni, una per tutte Just A Gigolo, hanno fatto storia, e questo Jazz Fest è a lui dedicato. Sono 7 giorni, raggruppati in due weekend consecutivi a cavallo tra aprile e maggio, orario diurno, dalle 11 di mattina alle 7 di sera; location: i Fair Grounds, un grande ippodromo non lontano dal French Quarter, il cuore della città. Abituati ai festival nostrani, con tutto il rispetto, si rimane un po’ sconcertati dal fatto che qui ci sono ben 12 palchi, che suonano in contemporanea, di cui 3 enormi all’aperto, 3 grandi tende per garantire una certa intimità sonora a gospel, jazz e blues, e altri 6 disseminati su tutta l’area, inframmezzati da bancarelle con ogni tipo di squisitezze culinarie, drink, magliette, cd, artigianato. Il primo giorno, purtroppo, non è cominciato sotto i migliori auspici, una pioggia torrenziale, violenta e ventosa, ha deciso di fustigare le decine di migliaia di persone arrivate da tutti gli States e dall’Europa, e mi ha impedito di ascoltare Dr. John, sintesi perfetta dello stile pianistico di New Orleans, blues, R&B, boogie-woogie e rock’n’roll fusi con un pizzico di magia voodoo. In compenso ho assistito via cavo (devo ammetterlo, dentro la tenda riservata alla stampa) a una performance che da sola riassume lo spirito del Fest: Jon Cleary, altro pianista pazzesco, nonostante il palco coperto, era praticamente schiaffeggiato dalla pioggia; incurante di ciò, ha continuato a percuotere il suo piano, in un formidabile stile honky tonk, e sulla sua faccia, un’espressione di trionfo, di sfida, che farò fatica a dimenticare. Di fronte a lui una folla di gente ha continuato a ballare, indiavolata, inzuppata, infangata. Tanto per darvi un’idea della mole di musica tra cui un poveraccio è costretto a scegliere, ecco alcuni tra gli artisti presenti: Pearl Jam, Simon & Garfunkel, Anita Baker, Elvis Costello, Average White Band, Funky Meters, My Morning Jacket, Drake, Blind Boys Of Alabama, Darius Rucker, Widespread Panic, Allen Toussaint, Radiators, Neville Brothers, Van Morrison, Irma Thomas. Il concerto dei Pearl Jam è stato trasmesso live a una brigata di soldati della Louisiana di stanza in Iraq. Invece Aretha Franklin, con pochissimo respect, ha dato forfait la notte prima della sua esibizione. Pare, per paura dei presunti devastanti effetti sulla sua voce provocati dal petrolio disperso nel golfo: no comment. Tornando alla musica, vorrei soffermarmi su Steve Martin, avete capito bene, l’attore americano: con gli Steep Canyon Rangers, ha suonato il banjo, tutto in bianco e paglietta, non solo credibile, ma anche godibile; sonorità antiche, radicate, niente affatto datate. Impossibile non citare Trombone Shorty, vero nome Troy Andrews, talentoso figlio d’arte, a soli 24 anni già solista nella band di Lenny Kravtiz: è lui che incarna il futuro del suono delle brass band di New Orleans, con il suo «supafunkrock», una miscela strepitosa di rock, funk, jazz, soul e hip-hop. Dulcis in fundo, Hiromi, pianista giapponese dotata di una tecnica formidabile. Stanley Clarke, il re del double bass, non solo l’ha scelta per il suo gruppo, le ha anche permesso delle lunghe fughe solistiche. Il fatto è che Hiromi ha swing, ce l’ha davvero, entra con una facilità estrema nel mood del pezzo, lo scarnifica, lo stravolge, non lo abbandona mai: geniale. Quindi, cercate di non mancare il prossimo JazzFest: «Peace, love and barbecue» a tutti.

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