30/06/2011

QUEEN

THAT 70’S SHOW

Sono passati quarant’anni e una nuova “battaglia” discografica si prepara all’orizzonte del Regno. Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon, svestiti i panni storici della scuderia Emi, indosseranno le vesti regali fornite con dovizia di suoni rimasterizzati dalla Island, sotto l’egida dell’impero Universal. Per quel poco che resta da contendere sulla piazza, non si prevedono scontri epocali. Non ci si aspetti di vedere in azione manipoli di orchi come in Ogre Battle, l’hard rock fantasy registrato per Queen II, ma piuttosto un highlander stanco e affaticato, che attraversa una distesa di guerrieri feriti, all’ombra di palazzi depredati. Sicuramente andrà meglio di Queen + Paul Rodgers.
L’impero di Lucian Grainge, AD della Universal, sferra il proprio piano d’attacco con l’aiuto del preziosissimo catalogo della Regina per festeggiare il compleanno della band nata nel 1971. Per la prima volta nella storia del gruppo verrà ripubblicata in diversi momenti dell’anno l’opera omnia in versione deluxe. La prima messe di ristampe, la cui pubblicazione è prevista per il 15 marzo prossimo, riguarda il primo periodo del gruppo, quello più creativo e intenso, quando i Queen non erano ancora accusati di scrivere brani “riempitivi”. Quello dove nasceva il linguaggio stratificato e complesso e analogico dei primi indimenticabili singoli della pluridecorata carriera della band inglese. Prima di We Will Rock You / We Are The Champions e dei sintetizzatori di Radio Ga-Ga (fino al 1980, anno di uscita dell’ellepi The Game, i Queen solevano stampare sulle cover dei loro dischi la scritta «No synthesizers» per evitare che qualche ascoltatore “distratto” scambiasse gli effetti cosiddetti multi-layered presenti nei loro brani con delle astute manipolazioni elettroniche). Parliamo della sequenza composta dai seguenti titoli: Queen, Queen II, Sheer Heart Attack, A Night At The Opera, A Day At The Races. Cinque album usciti in quattro anni che rappresentano il making della macchina da guerra inglese.
Da un punto di vista audiofilo queste riedizioni 2011, masterizzate dal “principe” Bob Ludwig, sembrano davvero lasciare il segno (almeno stando all’ascolto dei Greatest Hits I e II anch’essi ristampati) e vanno ben oltre quello che già si era ascoltato ai tempi della ripubblicazione dell’intero catalogo firmata Hollywood Records per celebrare i vent’anni della Regina. Il suono è “perfetto” e alcuni particolari sfuggiti ai remix precedenti emergono senza ombra di dubbio. Sulle ristampe del ’91 trovarono un esiguo spazio le bonus track inedite – allora non era poi così di moda e, soprattutto, si custodivano molto più gelosamente – compensate da stolti remix di dubbio gusto e qualità. Questa nuova ripubblicazione offre qualche spunto in più, ma i cd bonus offrono un piatto di extra piuttosto scarno. I pezzi più interessanti sparsi sui cinque cd sono gli estratti dai demo registrati all’inizio degli anni 70 al De Lane Lea Studio (Keep Yourself Alive, The Night Comes Down, Great King Rat, Jesus, Liar), Mad The Swine (versione giugno ’72), alcune Bbc Session (See What A Fool I’ve Been, Nevermore, Flick Of The Wrist, Tenement Funster), il singolo live versione sudamericana del ’79 Love Of My Life, You Take My Breath Away registrata ad Hyde Park nel settembre del ’76 e Good Old-Fashioned Lover Boy dalla trasmissione Top Of The Pops andata in onda nel luglio del ’77. Sicuramente dopo quattro decadi avremmo voluto scoprire qualcosa di più originale, ricevere qualche piccola sorpresa in più (anche un solo inedito sarebbe bastato), ma si vede che la riserva Queen è stata ormai del tutto saccheggiata. Per il compleanno degli “anta” era legittimo sperarci. Anche e a maggior ragione perché in vista del quarantennale, con un coup de théâtre piuttosto inaspettato, i Queen hanno abbandonato la casa madre Emi per aprire un capitolo completamente inedito delle cronache del Regno. E pensare che proprio l’unica major britannica della storia, molto prima delle difficoltà in cui versa oggi, aveva accolto Roger Taylor, Brian May, Freddie Mercury e John Deacon quando erano poco più che sbarbati ventenni nel 1972.
Qualche anno dopo, ironia della sorte, May cantava Leaving Home Ain’t Easy (l’album era Jazz, anno di uscita 1978). Ma se negli anni 70 lo showbiz preservava ancora un’aura di sacralità e i cambi di scuderia fra i grandi brand venivano vissuti come tormenti, se non come tradimenti, nell’era della discografia che si autofagocita e che ha perso i confini quasi tutto è lecito e deboli sono reazioni e aspettative. Del resto il cuore della Regina è sempre stato sensibile alle proposte convenienti e quando era il tempo di agire, da lucida intrattenitrice e professionista integerrima con i piedi saldamente ancorati nel music business, non si è mai concessa troppi sentimentalismi (come quando Mercury e soci hanno tenuto, in pieno regime di apartheid, la serie dei famigerati concerti a Sun City in Sud Africa nel 1984; May ha poi chiesto scusa a Mandela e ha suonato insieme a Taylor allo show imbastito per il 90esimo compleanno del leader).
Ma in fondo che importa che la liaison con la Emi si sia consumata con garbo o meno, con tanto di sentiti ringraziamenti del gruppo per quella che è stata a tutti gli effetti la levatrice? In fondo, i Queen, un po’ cinici e molto avvezzi allo humour british, tanto sentimentali non lo sono mai stati. Erano quattro individui molto diversi fra loro dediti ognuno per conto suo alle proprie passioni e ai propri umori. Di sicuro erano amici democraticamente liberi di mandarsi a quel paese, come di andare d’accordo. Ovviamente, nonostante siano passati quasi 20 anni dal 24 novembre del 1991, giorno della morte di Mercury, che l’attore Sacha Baron Cohen interpreterà a breve sul grande schermo in un film biografico sulla grande popstar scomparsa, c’è sempre una malinconia lieve nell’aria. E come potrebbe essere altrimenti?

I tre reduci, oggi, sono ricchi e forse un po’ stanchi di una vita così importante. Sempre alla prese con i numerosi e intricati affari di famiglia e sempre sotto i riflettori. Cercano di godersi la vita. A volte dalle dichiarazioni affiora un filo di ruggine, forse perché il diplomatico della band era proprio Freddie, capace col suo eloquio di tenere tutti uniti e a bada.
John Deacon, il bassista timido e geniale (capace di sporadici ma essenziali contributi alla discografia, anche grazie ai continui incoraggiamenti di Mercury con I Want To Break Free, You’re My Best Friend e Another One Bites The Dust) corrisponde con gli ex compagni solo via mail, e solo per parlare d’affari. La sua partecipazione alla musica del gruppo è un capitolo chiuso. Taylor in alcune interviste non nasconde un leggero fastidio nei suoi confronti. Come a dire una cosa del tipo: «Sì, capisco che voglia dedicarsi alla famiglia e al giardinaggio: è sempre stato il più riservato. Ma è John Deacon, il bassista dei Queen, che cazzo!».
May e Taylor, divenuti i legittimi curatori della legacy del marchio hanno due caratteri contrapposti, uno introverso, volitivo e curioso, con una tendenza alla depressione combattuta in questi anni con coraggio e pazienza. Vegetariano, dedito alle giuste cause e all’animalismo più sfrenato – tanto che gli chiedono se è vero che non mangia nemmeno la salsa con i gamberetti – e naturalmente amante delle scienze e delle chitarre. L’altro, orgoglioso e “caratteriale”, con la passione per le macchine veloci, oggi sostituita dallo sci e dalla nautica. Un tipo senza fronzoli, il womanizer della band, forse il più “semplice” di tutti e quattro. All’inizio della carriera era considerato la “rockstar” del gruppo (l’avete mai visto cantare dal vivo I’m In Love With My Car?) e – a detta del tranquillo May – era un tipo facilmente irascibile.
Ma le vedute contrastanti non possono certo scalfire quello che di base resta un legame fraterno, che non è solo complicità artistica, ma una vera amicizia che dura fin dai tempi del liceo. Divergenze a parte, i Queen sono stati un vero gruppo di amici che solo la scomparsa di Mercury ha saputo parzialmente dividere. E anche per questo i Queen, senza Mercury, non sono i Queen. Questa è la legge del Regno.
L’avventura quinquennale di Queen + Paul Rodgers è giunta al capolinea dopo che l’album di inediti Cosmos Rock del 2008 non ha mietuto i successi sperati. Dal mio punto di vista, date le premesse sulla credibilità dell’operazione, già aver raggiunto cinque anni di attività non è un risultato scontato. Il musical We Will Rock You, che fa storcere il naso a parecchi fan della prima ora, incassa una battuta onestamente schietta come poche, sempre di Roger Taylor: «Sono autorizzati a pensarla come vogliono perché anche io odio i musical. Ma abbiamo fatto del nostro meglio per renderla un’esperienza piacevole per coloro che amano questo tipo di cose. Non bisogna diventare troppo “puristi”. Tutti vorrebbero le cose conservate per sempre in un barattolo e lasciate come erano, ma non è così che va il mondo». Chapeau.
Insomma, The Show Must Go On, anche quando una band non esiste più (virtualmente) da vent’anni, ma continua a restare in cima alle preferenze del pubblico rock e non solo.

L’ambizione di Mercury, un timido che soleva ripetere in preda a ego trip giovanili di voler diventare la più grande star di tutti i tempi («Sarò mega! Tanto mega che non ne potete avere idea», diceva), si è rivelata magnificamente profetica. In quegli stessi anni di entusiasmi e sbalzi di umore nasceva dalle ceneri degli Smile (gli ex 1984), il gruppo universitario di May, Taylor e Tim Staffell, la sacra alleanza che fra il 1973 e il 1976 sfornò la bellezza dei cinque album di cui sopra (due nel ’74: Queen II e Sheer Heart Attack) e che diventa dal nulla la band più osannata del nuovo rock inglese. Eppure, dopo qualche stagione di doppie vite e impegni, fra le bancarelle di Kensington dove Taylor e Mercury vendevano vestiti e oggetti artistici e gli studi di astrofisica di May, l’esistenza stessa dei Queen era in bilico, sul crinale del «mollo tutto e me ne vado». Forse per questa precarietà diffusa nessuno dei quattro protagonisti se la sentì, giustamente, di abbandonare in toto il proprio percorso formativo in favore della professione musicale. Tutti e quattro, infatti, portarono a casa un diploma (Freddie si specializzò in arti grafiche, Taylor in odontoiatria, Deacon in elettronica, mentre Brian May già laureato in astrofisica, nel 2007, a 60 anni, ha conseguito il dottorato con la tesi Un’analisi delle velocità radiali della nube zodiacale). Brian May è anche la figura chiave attorno a cui ruotano gli assi portanti: Taylor, già nel gruppo The Reaction, band cittadina della sua città Truro, viene ingaggiato con l’annuncio «Cercasi un batterista stile Mitch Mitchell/Ginger Baker». All’Ealing Art College Tim Staffell, sodale di May, fa amicizia con Farrokh Bulsara, detto Freddie, nativo di Zanzibar. Bulsara, con alcune esperienze musicali alle spalle (con The Hectics nel collegio inglese a Panchgani, nei pressi di Mumbai, in India e con i Wreckage/Ibex) è dotato di un range vocale impressionante e s’innamora degli Smile che segue ovunque. La sua frase tipica di approccio in quel periodo raccontano che era: «Sono un cantante senza band». Brillante strategia, secondo alcuni, per rimpiazzare Staffell che nel frattempo aveva sciolto il gruppo.
May, dal canto suo, oltre alla dichiarata superiorità intellettuale dimostrata nel corso degli studi aveva già in mano un brevetto come inventore: la sua chitarra detta Red Special o Red Fireplace (trademark della Guild per diversi anni, oggi di proprietà della Brian May Guitars) costruita col padre ingegnere utilizzando mezzi di fortuna al costo di 8 sterline del 1963, fu messa insieme con un pezzo dell’architrave in mogano del caminetto di casa e del legno di quercia. L’allampanato chitarrista, innamorato di Les Paul e Django Reinhardt, ma folgorato sulla via di Clapton (e ingelosito dagli show barbarici di Hendrix che Freddie invece idolatrava in maniera sconsiderata) la suonava con una moneta da 6 pence. «Queen» venne proposto da Mercury che aveva cambiato nome ispirandosi a un testo di sua fattura intitolato My Fairy King. Più precisamente a un verso del brano dedicato alla vera madre del cantante «Mother Mercury, look what they’ve done to me».
Il nome del gruppo, sulla scia della forte allusività che il vocabolo evocava, creò qualche discussione ma fu accettata in modo consensuale in quanto termine legato alla libertà. Come ha ricordato di recente May, «eravamo consapevoli di tutti i significati della parola queen, ma ne eravamo attratti perché alcune delle cose per le quali ci siamo battuti erano proprio la libertà e l’uguaglianza: razziale, sessuale e di qualunque altro tipo». Venne scartato fra gli altri The Grand Dance.
Nonostante tutta la buona volontà l’affermazione dei Queen, all’inizio degli anni 70, stentava. John Deacon, che entrò a far parte della band nel febbraio del 1971 (pare che prima di lui il trio suonò con sei bassisti) dichiarò che solo dopo Sheer Heart Attack iniziò a credere sul serio nella bontà del progetto. D’altronde il circuito universitario e le puntate in Cornovaglia non erano sufficienti per assicurarsi un credito nell’ambiente. L’attesa diventò estenuante. A Kensington Freddie e Roger vendevano vestiti di seconda mano e pezzi d’arte degli studenti dell’Ealing fra cui alcuni disegni di Mercury basati sul “pianeta Hendrix”. Oggetti autografi che oggi probabilmente valgono una fortuna. Dopo aver sbattuto contro diversi muri (compreso quello della Emi), finalmente arrivò un primo segnale: i Queen approdarono alla Trident Productions che deteneva i Trident Studios dove aveva bazzicato George Harrison e soprattutto dove David Bowie aveva registrato Ziggy Stardust e Hunky Dory. In quel periodo Bowie usava gli studi in orari serali per produrre Lou Reed. A Freddie e soci fu assegnata la fascia notturna/mattutina. La session iniziò nel novembre del ’71. Taylor ricorda che ai Trident il sound era gestito direttamente dai tecnici di studio che avevano costruito un tipo di suono riconoscibile e quindi identificabile con le loro produzioni. Per Roger si trattava di musica «soffocata» molto distante dalla grandeur sonora che avevano in mente i Queen che ora avevano anche un logo disegnato da Mercury: l’emblema dei quattro segni zodiacali dei componenti del gruppo appoggiati a una Q e sovrastati da un’araba fenice. Roy Thomas Baker in console seguiva un metodo improntato sulla ripetizione ad libitum delle take: un perfezionismo che non servì al primo album dei Queen, uscito il 13 luglio del ’73 con la Emi a cui erano stati venduti i diritti di licenza, a ottenere considerazione.
Il tour con i Mott The Hoople, invece diede alla band l’opportunità di mettere a fuoco e giocarsi con maggiore strategia la carta dei concerti dal vivo in cui i Queen, merito dell’istrionica presenza del frontman ma anche della bravura dei gregari, davano davvero il meglio di sé.
L’immagine del gruppo fu affidata a Mick Rock, il fotografo specializzato in estetica glam che aveva immortalato Bowie, Iggy Pop e Lou Reed. Il primo scatto di Rock rappresentava i quattro, all’epoca molto naïf, completamente nudi con un tocco di Arancia meccanica per offrire agli spettatori un’immagine alquanto bizzarra (vedi pagina 33, ndr). All’epoca Freddie non ostentava il proprio orientamento sessuale, anche perché condivideva l’appartamento con Mary Austin la sua fidanzata e più cara amica di sempre.
Mick Rock scattò l’immagine della copertina del disco successivo – intitolato semplicemente Queen II – che traeva ispirazione da una vecchia foto posata di Marlene Dietrich. Il disco suddiviso in una White Side (a opera di May) e una Black Side (a cura di Mercury) uscì nel marzo del ’74 e tra altre canzoni poco considerate dal grande pubblico (per esempio White Queen (As It Began), The Fairy Feller’s Master-Stroke e la superba The March Of The Black Queen) conteneva Seven Seas Of Rhye la cui versione strumentale era apparsa in coda al debutto e che diventò la prima hit del gruppo.
«Le cose cambiarono davvero con Sheer Heart Attack», ricorda Roger Taylor. «Aveva un passo più sciolto di Queen II che a tratti risultava ancora troppo pesante». Nonostante alcuni problemi di salute di Brian, ammalato di epatite per un’infezione accidentale, il terzo disco beneficò di un meticoloso lavoro in studio notevolmente affinato che permise alla band di sostenere gli arrangiamenti complessi di un brano folk vaudeville come Bring Back That Leroy Brown, ma anche di Killer Queen. Quest’ultimo divenne in poco tempo un successo nazionale e rappresentò il Queen sound (gli impasti vocali, la complessità armonica, la base live su cui ricoprire gli strati artificiali, le liriche stravaganti) meglio di qualunque altro prodotto della band.

Nella primavera del 1975 i Queen sbarcarono in Giappone per un tour esotico sold out che li proiettò in una dimensione surreale che Taylor paragona a una sorta di Beatlemania. Dopo esser stati sommersi da ovazioni, il ritorno a casa fu piuttosto mesto. I soldi scarseggiavano e Deacon, novello sposo, dovette ricorrere a supplicare la Trident per ottenere un prestito. L’atmosfera che si era creata fra il management e la band era eufemisticamente negativa. La prima canzone di A Night At The Opera, il disco successivo, non a caso è dedicata a uno dei dirigenti (Norman Sheffield) particolarmente inviso a Freddie. Death On Two Legs (Dedicated To…), osteggiata inizialmente dal resto del gruppo per la sua eccessiva cattiveria, segnò anche il cambio di guardia nella direzione degli affari della band. Fu assoldato John Reid, il manager di Elton John. La sua prima mossa fu quella di convincere la Emi a pubblicare Bohemian Rhapsody come singolo. Roy Thomas Baker costruì assieme a Freddie l’assemblaggio utilizzando un banco da 24 piste che all’epoca era considerato all’avanguardia. La canzone, suddivisa in tre momenti, una piano ballad, un estratto operistico e il pezzo rock vero e proprio, ebbe un successo senza precedenti e proiettò la band nell’empireo. L’album stesso, il cui titolo come il seguente A Day At The Races omaggiava il genio dei fratelli Marx, e presentava un mosaico di brani anche molto diversi fra loro che rispecchiava in pieno le ambizioni creative dei quattro musicisti/compositori. Ormai i Queen facevano tutto: hard rock, glam, folk-rock, pop, progressive, music hall fino all’inno nazionale. God Save The Queen, posto a suggello del long playing, incoronava de facto una nuova e improbabile Regina.
A Night At The Opera raggiunse la cima della top 10 nel dicembre del 1975 e restò in classifica per 50 settimane. Il capolavoro della band preparò la strada per il disco “gemello” più barocco e stralunato, che portava in dote alcune canzoni di sicura presa (Tie Your Mother Down, Somebody To Love, Good Old-Fashioned Lover Boy). A Day At The Races uscì nel dicembre del 1976 e completò il cerchio della prima fase della carriera del gruppo. Già a quel tempo infatti, prima dell’avvento del punk (che prese di mira l’establishment e, in particolar modo, Freddie Mercury e compagni), la band, ormai appagata dal successo e dai primi veri proventi della sua attività, comprese che un arco sperimentale si stava chiudendo in favore di un altro che puntasse più sulle qualità live dei Queen. We Will Rock You e We Are The Champions erano a un passo. E a un passo era la gloria degli stadi di tutti il mondo.

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